Intervista ai Kina

Gli aostani Kina sono stati uno dei gruppi più importanti della scena hardcore punk italiana dei primi anni ottanta assieme a Wretched, Negazione, CCM, Indigesti e tantissimi altri. A differenza della gran parte delle band di quel periodo hanno continuato a suonare anche dopo l’esaurimento di quella scena avvenuto tra il 1985 e l’1987 per poi sciogliersi nel 1997. Nel corso della loro storia hanno fatto oltre 300 concerti, pubblicato vari dischi di cui alcuni considerati dei “classici” e dato un forte impulso alle autoproduzioni tramite la loro etichetta “Blu bus” e poi con la cooperativa “Wi confondo”. Quest’anno, in occasione dell’uscita del documentario sulla loro storia “Se ho vinto, se ho perso” (nome tratto dal loro disco più famoso), hanno deciso di tornare a suonare per una serie di concerti di accompagnamento alla presentazione del film. Questa intervista è stata fatta il 6 luglio a Gianpiero, il loro bassista, prima del concerto al festival “Distruggi la bassa” nel ferrarese.

UN: La prima domanda è molto banale: come mai questa scelta di tornare a suonare, cosa che nessuno si aspettava?

Gianpiero: In realtà nemmeno noi! Chi ha guardato o guarderà il documentario vedrà che siamo andati in giro per due anni dicendo che mai avremmo suonato di nuovo e in effetti lo dicevamo convinti perché non avevamo tempo, io ero vent’anni che non suonavo per niente e stiamo facendo altre cose. Poi probabilmente a rivederci così tante volte per fare il documentario e sentire l’insistenza di tanta gente e c’è stata questa mia esperienza che ho girato un po’ l’italia per presentare questo libro (“Come macchine impazzite” autobiografia uscita per agenzia X nel 2016?? ndr) e tanta gente si informava su noi, cercava la nostra musica (che non è per niente facile da trovare) e quindi abbiamo pensato che si poteva fare un pochettino, aveva senso, ha senso in questo periodo così abbruttito, così vuoto, così senza speranze fare qualcosa e questo è il nostro piccolo contributo per fare qualcosa.

UN: Questa è la sesta data che fate e avete suonato soprattutto in posti occupati. Sono passati tanti anni, tante cose sono cambiate e voi siete cambiati e in parte anche il pubblico è cambiato e sicuramente sono cambiati i posti occupati. Qual è la sensazione che avete provato?

Gianpiero: Alcune cose uguali e alcune cose diverse (ride). Intanto abbiamo ritrovato un sacco di persone che non vedevamo da allora ma la cosa particolare è che queste persone non vanno in quei posti, ci son tornate perché c’eravamo noi e quindi abbiamo un po’ ricreato quell’ambiente di allora il che è un po’ strano, come una capsula del tempo che si riproduce. A Bari, abbiamo suonato la settimana scorsa, c’era tantissima gente e quasi tutti mi han detto che non erano mai entrati in quel posto lì e quelli del posto han detto che non avevano mai visto così tanta gente, abbiamo creato qualcosa di particolare ed è proprio questo il bello. In fondo i gruppi sono un po’ degli animatori di questi posti e stiamo di nuovo portando delle persone in quei posti anche se solo per una sera ma anche tante gente che non ci aveva mai visto ci ha visto per la prima volta andando in quei posti lì e quindi ha senso.

UN: L’hardcore punk italiano di quegli anni ha sempre avuto una vena molto politicizzata e i punx anarchici sono sempre stati la componente più grande e sicuramente tra le più attive. Voi avete sempre avuto la “A” cerchiata nel vostro logo e avete sempre propagandato l’autogestione e l’autoproduzione ma il vostro anarchismo -leggendo i vostri testi- a mio modo di vedere era differente rispetto a quello per esempio dei Wretched (gruppo di punta della scena milanese legata al Virus ndr) o della scena bolognese legata ai Raf punk. Secondo te in cosa era diverso a parte il fatto di vivere in una piccola città come Aosta e non in una grande città?

Gianpiero: I Wretched avevano una cosa molto buona ovvero parlavano di cose e facevano delle cose. Noi ci siamo messi più nella “zona” in cui il nostro approccio all’anarchismo e all’azione diretta era basato sul “facciamo le cose noi” ma questa è una cosa che non scrivi nei testi, non metti “faccio la spedizione dei dischi” o “vado a ritirare i dischi dalla fabbrica” quindi nei testi raccontavamo altre cose. Abbiamo avuto più voglia -in modo più che altro inconsapevole in quel periodo- di aprire delle finestre di consapevolezza ma non ne eravamo consapevoli noi per primi. Leggendo alcuni testi quarant’anni dopo capisco adesso cosa volevamo dire. Io quando scrivevo i testi erano pensieri che mi venivano fuori all’improvviso e dovevo scriverli subito, ho ancora degli originali di alcuni pezzi su carta intestata dell’ospedale dove lavoravo perché se mi veniva in mente una cosa dovevo metterla subito giù. Adesso capisco che quello facevamo noi era aprire delle possibilità di libertà mentale.

UN: L’ultimo disco che avete fatto “Città invisibili” è stato anche il primo in cui avete deciso di togliere la “A” cerchiata dal logo, cosa che io quando l’ho comprato ho notato subito. Siccome leggendo i testi di quel disco si capisce che le idee di fondo non erano cambiate (e si capisce anche da questa reunion in cui la “A” cerchiata è tornata al suo posto) volevo chiederti il perché di quella scelta allora.

Gianpiero: Quello era un periodo molto particolare che ci ha spinto, mi ha spinto a uscire fuori da tutto dove in realtà eravamo in rotta con tante persone. Ne abbiamo parlato nel gruppo -che fra l’altro è sempre stato un collettivo anarchico nel senso che non c’è mai stato un capo o un leader e tutto si decideva all’unanimità come anche adesso- e in quel momento noi ci vivevamo quella “A” cerchiata come una costrizione perché se tu leggi i testi di quel periodo in tanti punti scrivo delle cose come “noi siamo più liberi di quanto voi vogliate” nel senso che voi ci volete far fare alcune cose ma noi siamo più liberi di così. Togliere la “A” cerchiata in quel disco lì è stata una cosa di liberazione per noi, di non schierarci più, di essere solo noi stessi e in quel momento per noi era una cosa molto forte. Nonostante ciò in quel periodo abbiamo continuato a suonare in posti occupati e a fare le cose che avevamo sempre fatto però se vuoi ancora più liberi.

UN: Riflettendoci alcuni anni dopo e leggendo anche i tuoi articoli su “Blast!” (rivista di musica underground che usciva in edicola negli anni novanta ndr) mi pareva ci fosse lo scontro fra due visioni, fra chi come voi cercava di aprire certi discorsi ad ambiti più allargati che non fossero strettamente giri militanti e chi invece vedeva come condizione indispensabile per qualsiasi forma di comunicazione partire da un’idea di autoproduzione molto stretta e in particolare il suonare solo nei posti occupati o comunque solo di compagni e questa penso fosse una differenza molto forte con chi come voi, specie negli ultimi anni, aveva fatto scelte un po’ diverse, tipo l’andare a suonare anche nei circoli arci per esempio.

Gianpiero: Questa era una delle cose in cui noi volevamo essere più liberi. Alla fine c’era chi voleva dirci cosa dovevamo fare e questa non era una cosa molto accettabile per noi anzi per niente. Nel momento in cui faccio parte di un collettivo posso condividere delle idee ma l’italia non è un collettivo per cui c’era gente che sapeva nulla di noi e di cosa eravamo che ci voleva imporre le sue scelte e questa cosa non poteva passare né allora né oggi. Noi abbiamo fatto dischi o raccontato le cose che facciamo per dirle alle cinque persone di sempre. In realtà da un certo punto in poi, in particolare per me da “Se ho vinto se ho perso in poi” il pubblico non erano più i nostri amici ma tutti gli altri perché è agli altri che mi interessa raccontare certe cose. Ad un certo punto ci si scontrava su cose ridicole tipo il mettere o meno i dischi nei negozi ma il punto non era il denaro perché noi non ne abbiamo mai fatto ed è una cosa che non centrava niente. Il mettere i dischi nei negozi era per far arrivare i dischi a quelli che non avrebbero mai messo piede in un centro sociale e che dopo aver preso il disco magari ci sarebbero venuti. Non si può essere così autoreferenziali da pensare che la gente non venga nei centri sociali solo per scelta. E’ pieno di gente che non sa che esistono, che non ha idea di cosa siano l’autoproduzione e l’autogestione.
Adesso ma anche allora. Per cui se vuoi fare qualcosa di interessante devi rapportarti con le persone che non hanno nessuna idea di cosa tu stia facendo. Per esempio quando io sono venuto a Trieste nella vostra sede (del gruppo anarchico germinal ndr) a presentare il mio libro “Come macchine impazzite” se su trenta persone due hanno scoperto la sede in occasione di quella presentazione quelle due avevano senso.

UN: La situazione sociale da quando vi siete sciolti è completamente cambiata, non solo quella degli spazi occupati o del movimento ma del mondo in generale, e direi in peggio. Cosa ha secondo te l’anarchismo da offrire in questa situazione nel 2019?

Gianpiero: Secondo me ha da offrire ancora più di prima. Il 1997, visto oggi, era un periodo di grande opulenza: era facile vivere, era facile lavorare, era facile guadagnare, oggi è veramente tutto difficile, è tutto molto incattivito. Il concetto di azione diretta, di comunità dovrebbe ora diventare ancora più rilevante. Dovremmo metterci veramente assieme per fare scelte di vita libere e indipendenti e non fare lavori da semi-schiavi che non esistevano negli anni novanta: guadagnare 400-500 euro al mese non esisteva per uno che lavorava a tempo pieno. Io stesso nel 2007 guadagnavo 840 euro al mese e l’affitto di un monolocale era 550 euro e negli anni 80 e 90 queste cose non esistevano. Vedere oggi noi negli anni 80 a Berlino dove in otto pagavamo l’equivalente di 150 euro di affitto e con due lire si faceva la spesa…eravamo dei ragazzetti viziati in confronto a quello che devono affrontare i ragazzi di vent’anni oggi. E io mi sento molto responsabile perché la mia generazione ha fallito su questo, non siamo stati capaci di fare di meglio, siamo stati una generazione piatta, ci siamo fatti abbagliare dal mito degli anni ottanta. Non noi tre o chi frequentava certi giri (ma sappiamo che noi rappresentiamo lo 0,005 della popolazione) ma il rimanente si è fatto totalmente abbagliare da miti inesistenti, da miti di cartone…poi questi miti si sono sfaldati e chi ha vent’anni ora ha un sacco di problemi.

UN: Un’ultima domanda. Questa intervista uscirà su “Umanità Nova” che il prossimo anno compirà cento anni e faremo un sacco di iniziative su questo. A te che pensiero ti suscitano i cento anni di un settimanale anarchico come il nostro?

Gianpiero: Il primo pensiero che mi viene è che se esiste è perché ha senso che esista. Ci sono tante persone che vogliono lavorarci e tante persone che hanno voglia di leggere certe cose e hanno voglia di pensare e di riflettere, che è il primo passo. Poi c’è sempre il secondo passaggio e cioè che hanno voglia di agire e di creare azione diretta nelle loro vite, nelle cose che fanno tutti i giorni. E secondo me se “Umanità Nova” è arrivata a cento anni è perché sotto c’è qualcosa che continua a tenerla viva, tanti momenti come questi o come quelli vissuti a Trieste in cui qualcosa emerge dalla coscienza delle persone che le fa guardare da un’altra parte, che non le fa più seguire questi miti di cartone perché capisce invece che ci sono le persone che sono molto più interessanti.

Intervista a cura di Federico della redazione web

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