In piazza contro la violenza di genere

Giornata internazionale contro la violenza di genere

La giornata internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza di genere ancora una volta riempie le piazze, a Roma come in tante città. C’è un gran bisogno di dare visibilità alla lotta contro la violenza, che nel nostro paese è mattanza. Al momento in cui scriviamo il dato sui femminicidi fornito dal Ministero degli interni fa riferimento a 80 donne dall’inizio dell’anno, all’Osservatorio Nazionale su femminicidi, lesbicidi, transcidi, puttanocidi di Non Una Di Meno ( sito web osservatorionazionale.nonunadimeno.net ) risultano invece 104 le persone su cui la violenza di genere si è accanita al punto di determinarne la morte; innumerevoli quelle su cui si accanisce una brutale realtà quotidiana fatta di molestie, maltrattamenti, abusi, in famiglia, sui luoghi di lavoro, ma anche nelle centrali di polizia dove magari vanno a sporgere denuncia, nelle scuole, negli ospedali, nei tribunali. Perché la violenza è sistemica, come tante volte abbiamo detto e gridato.

Il femminicidio di Giulia Cecchettin lo scorso anno, proprio in questi giorni, portò migliaia di persone a scendere in piazza: un caso che si ricorda, fra i tanti che vengono ingoiati dalle cronache. Sappiamo che non è giusto fare una graduatoria tra femminicidi più o meno notevoli di ricordo, ma certamente nella vicenda di Giulia Cecchettin a pesare non è stato solo l’eco mediatico, quanto le parole della sorella Elena e del padre Gino, che sono riusciti a non rimanere chiusi nel loro dolore e nelle loro dichiarazioni pubbliche hanno fatto riferimento al patriarcato per indicare il responsabile, un responsabile diverso dall’esecutore materiale; hanno puntato il dito su un sistema, su un paese e la cultura che esprime, individuando chiaramente nelle interconnessioni di gerarchia, potere, dominio il nodo della violenza di genere.

Spinte dalla marea scesa in piazza, all’epoca le istituzioni in fretta e furia avevano promesso di istituire corsi di educazione alle relazioni. Promessa che non si è mai avverata e sicuramente da non rimpiangere, vista la sostanza del Piano “educare alle relazioni” che fu promosso dal ministro dell’istruzione e merito Valditara, dalla ministra della famiglia Roccella e dall’allora ministro della cultura Sangiuliano (proprio lui!) col supporto fondamentale di una suora, di influencer e calciatori.

Ma non è stato solo quell’impresentabile piano ad arenarsi in questo ultimo anno.

I fondi contro la violenza continuano a scarseggiare e i centri antiviolenza sono sempre più in difficoltà. Parte dei magri finanziamenti vengono dirottati specificamente ai percorsi riabilitativi dei maschi maltrattanti, i quali, se aderiscono a questi progetti, ottengono riduzioni consistenti di pena e misure restrittive: fondi stornati dalle reali esigenze di protezione delle donne e delle soggettività maltrattate, fondi dedicati al singolo violento che non intaccano la cultura di violenza e di stupro alla base delle loro azioni. In ogni caso fondi insufficienti.

Eppure i soldi ci sono: per la base militare a San Piero a Grado (nuova individuazione rispetto a Coltano) saranno spesi 520 milioni di euro, come denunciato dal movimento Nobase. In occasione del 4 novembre, a Roma, al Circo Massimo, è stato allestito per alcuni giorni il “villaggio difesa”, con vari reparti militari a propagandare soprattutto a bambinx e ragazzx delle scuole la bellezza delle armi e la cultura della violenza, della gerarchia e del machismo. Un luna park militare la cui installazione temporanea è costata 600.000 euro, in un quadro di generale incremento delle spese militari che per il prossimo anno raggiungerà i 32 miliardi.

Sappiamo bene quanto rilevante sia il fenomeno della presenza dei militari nelle scuole, spesso denunciato anche da queste pagine e contro il quale fortunatamente si sta sviluppando una ferma opposizione. E c’è una chiara relazione tra tutto questo e la violenza, anche e soprattutto la violenza di genere. Nella scuola non deve esserci spazio per l’esercito, le forze armate e il loro messaggio violento e bellico. Nella scuola, come nella società, c’è bisogno di abbattere l’abitudine alla violenza, non certo di favorirla.

Questa urgente necessità è segnalata ogni giorno dagli episodi di violenza di genere, dai suicidi tra giovani che esprimono la difficoltà di vivere la loro vita e il proprio orientamento sessuale, dal preoccupante aumento di persone che non comprendono il concetto di consenso; è segnalata dalla violenza che si esercita nelle relazioni, all’interno della famiglia, luogo dove si verifica oltre l’80% dei femminicidi, perché “l’assassino, il violento, ha le chiavi di casa”.

Anche la narrazione della violenza di genere spesso è violenta. E ci riferiamo non solo alla rappresentazione della violenza nelle cronache e nelle titolazioni di giornali e media, su cui tante volte abbiamo puntato il dito, ma alla stessa statistica e tenuta dei dati relativa alla violenza, tenuta dati che non è neutra, ma riproduce piuttosto una cultura che ha introiettato la normalità della violenza e riserva il riconoscimento della violenza di genere solo ad alcuni casi. Per questo motivo dal 2019 è nato uno strumento autogestito che tiene traccia e analizza la cronaca secondo la prospettiva transfemminista.

Dal 1° gennaio all’8 novembre 2024 l’Osservatorio Nazionale su femminicidi, lesbicidi, transcidi, puttanocidi di Non Una Di Meno, che si aggiorna mensilmente ogni ottavo giorno del mese, ha registrato 87 femminicidi, 5 suicidi di donne cis, 1 suicidio di un uomo trans, 1 suicidio di un uomo cis, e 10 casi sono in fase di accertamento. Si tratta di morti indotte da violenza di genere e etero-cis-patriarcale. Inoltre, ci sono almeno altri 44 tentati femminicidi riportati nelle cronache online di media nazionali e locali.

I media e le fonti istituzionali trattano i dati secondo una impostazione rigorosamente binaria e una gerarchia di valori che risponde all’ideologia del sistema patriarcale, radicalmente diversa dall’impostazione dell’Osservatorio, che dà visibilità anche alle violenze su persone trans, sex workers, intersex, cosiddette disabilizzate o in qualsiasi forma considerate “fuori norma”.

La narrazione mediatica dei femminicidi e delle violenze di genere dipende dall’attenzione che “il caso” riesce a catturare, tanto più elevata se si tratta di giovani donne cis etero bianche, meglio se giovanissime o madri o incinte; hanno inoltre grande attenzione i casi in cui la morte è preceduta da scomparsa e relativi “misteri”, con elementi di spettacolarizzazione profondamente coerenti con la società capitalista, mercificata e patriarcale della quale questa violenza è espressione. Diverso il trattamento riservato dalla narrazione ufficiale e istituzionale agli altri casi: così le donne non italiane o anche solo non bianche sono uccise per “questioni culturali”; le donne anziane e magari ammalate sono fatte fuori dalla “pietà caritatevole” di coniugi o figli; le donne povere dalla “depressione legata a questioni finanziarie” o anche solo dallo stress; le madri che non acconsentono alle richieste dei figli vengono ammazzate a causa di “mancato accudimento”; le uccisioni di sex workers vengono infine annoverate come “incidente sul lavoro”. La descrizione del violento lo rappresenta spesso come un essere fragile, immaturo, oppure attaccato ai valori tradizionali e incapace di accettare l’indipendenza della donna, comunque, pur nella riprovazione, viene compreso. Altre volte il violento è rappresentato come l’incarnazione del mostro; in questa rappresentazione giocano un ruolo determinante le narrazioni che insistono su particolari truculenti o voyeristici, che contribuiscono alla mostrificazione del violento, rassicurando chi legge /ascolta riguardo alla unicità della persona, alla sua eccezionale brutalità, a cui sono estranee altre “sane e rassicuranti” manifestazioni d’amore romantico, come il possesso, la gelosia, la volontà di controllo. E il mostro isolato, in quanto tale, va rinchiuso e punito. Ecco allora puntualmente arrivare le risposte istituzionali fatte di giustizia punitiva, aumento di pene, braccialetti elettronici, castrazioni chimiche, oppure…percorsi riabilitativi di cui si accennava sopra.

Sappiamo bene che la risposta repressiva non dà soluzioni e non disincentiva la violenza di chi si sente padrone del corpo di una donna, non rompe quella visione machista e sessista che viene costantemente confermata dagli stereotipi patriarcali, oggi più che mai rafforzati da un governo fascista.

La violenza è generata da questa società sessista e patriarcale, quella che discrimina, che sostiene il machismo, che sollecita e giustifica comportamenti violenti, che coltiva la cultura dello stupro nelle scuole, nelle caserme, sui luoghi di lavoro, nelle istituzioni.
Ci soffocano, ci accoltellano, ci sparano, ci stuprano, fanno ciò che vogliono dei nostri corpi e delle nostre vite e di quelle di chi resta.
Siamo carne da macello per la mano patriarcale che impone il suo potere violento non sapendo affrontare un rifiuto, un no, un incarico di cura, non sapendo affrontare l’autodeterminazione di donne e libere soggettività.
Siamo carne per i media che scandagliano le nostre vite in cerca di un perché.

Sicuramente è importante moltiplicare tutte le attività di decostruzione degli stereotipi sessisti, ma questo non basta per sconfiggere il patriarcato che dà costantemente origine a sopraffazione e violenza. Occorre che il lavoro dei collettivi, le reti di mutuo aiuto, la denuncia e la controinformazione si saldino in modo non gregario ma intersezionale con la più generale lotta anticapitalista, antisessista, antipatriarcale, antiabilista. Spezzare le catene patriarcali e la violenza che determinano vuol dire distruggere le istituzioni totalitarie, a partire dalle chiese, dagli stati, dagli eserciti, da tutte le “forze di sicurezza” e dalle loro prigioni, per gettare le basi di un mondo libero, senza gerarchie e senza discriminazioni, senza dogmi e senza confini, senza violenza.

Claudine

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