Uno degli aspetti meno noti delle vicende del mondo “oltrecortina”, è stato quello del rapporto tra religione e potere comunista. La vulgata comune vuole che vi sia stata, soprattutto in URSS, una relazione a senso unico, ovvero una prevaricazione dello Stato sulle strutture religiose, sino al loro annullamento, insieme a un assoluto condizionamento dell’ideologia materialista, tale da sopprimere ogni aspetto della cultura e pratica religiosa.
Fu effettivamente così? Riteniamo che, a distanza di decenni dall’implosione del modello sovietico, sia arrivato il momento di fare chiarezza su un aspetto che è rimasto accantonato in un “angolo dimenticato” della storia, ovvero il rapporto tra la Chiesa russo-ortodossa e il potere sovietico. Occorre far riemergere invece un “inatteso” legame che ci consenta di avere una visione più nitida, e talvolta sorprendente, del passato, ma soprattutto ci aiuti a comprendere in profondità le dinamiche del presente. Inoltre ci consente di far luce sul rapporto millenario tra l’identità religiosa e quella imperiale della Russia, che ha una parte non secondaria anche nella narrazione e “giustificazione” dell’attuale conflitto russo-ucraino. Scoprire il nesso tra religione, nel caso la confessione russa ortodossa, e l’identità nazionale russa, è far emergere uno dei legami più profondi che si sono annodati nella storia, una relazione che è sopravvissuta alle sovrastrutture storico-politiche, per arrivare intatta sino ai nostri giorni. Nostra intenzione è dare un quadro storico, seppur sintetico, di queste ragioni per comprendere meglio le posizioni del presente.
Il periodo stalinista, o meglio dei primi anni della seconda guerra mondiale, è il momento in cui avviene il recupero della cultura religiosa ai fini dell’identità nazionale: in altre parole si è ricollegata la cultura ortodossa al cuore del nazionalismo russo. È noto che sino all’invasione nazista i bolscevichi prima e lo stalinismo poi, avevano pesantemente ostacolato e perseguitato, ma mai annullato, e qui è il punto decisivo, l’apparato ecclesiastico. Sino a quel momento non vi erano motivazioni per le quali il sentimento popolare religioso potesse o dovesse costituire un punto di attenzione particolare, se non per ostacolarlo e ridimensionarlo, cosa che puntualmente avvenne. L’operazione Barbarossa, cambia improvvisamente le carte in tavola. Il pericolo, molto concreto, di una dissoluzione dell’U.R.S.S. fece riaffiorare quel “sentimento” profondo della storia russa, la sua identità nazional-ortodossa. La necessità della classe dirigente sovietica fu non solo la riorganizzazione dell’esercito e delle strutture produttive, ma soprattutto e innanzitutto la mobilitazione delle “coscienze” delle masse russe e quale modo migliore se non far riemergere l’animo profondo della “Rus’”, il nucleo primario originario storico di quello che, dalla fine del primo millennio in poi, diverrà la Russia moderna (per Rus’ intendiamo gli odierni territori della Bielorussia, dell’Ucraina e della Russia occidentale oltre a una piccola parte della Slovacchia e della Polonia, dove avvenne l’incontro tra popolazioni scandinave e slave ndr). Non è un caso che il secondo conflitto mondiale, nella patria del cosiddetto socialismo reale, venne denominato (e ancora oggi la si chiama così) “Guerra Patriottica”, proprio a sottolineare il significato particolare che quel conflitto assunse, non a caso paragonato all’invasione napoleonica che fu ed ancora oggi è percepita come l’epopea nazionale di resistenza a un invasore, inteso come portatore di valori “occidentali” estranei alla millenaria Rus’. Fu una resistenza di civiltà, di culture, l’Occidente contro la sterminata terra dell’Est. Significativo che nel 1943 Stalin ritenne che il canto dell’Internazionale avesse fatto il suo tempo e che al Paese occorresse un nuovo inno. Fu indetto un concorso e il nuovo inno (rimasto in vigore sino alla fine dell’Unione Sovietica) iniziava con “La grande Rus’” a testimonianza che l’internazionalismo ormai aveva bisogno innanzitutto e prima di tutto della “Santa Madre Terra Russa”.
Qui sta il significato profondo della celebre “chiamata alla armi” l’appello radiofonico di Stalin del luglio ’41: il patriottismo sovietico che attingeva a piene mani a quello russo imperiale, ma il ponte tra l’uno e l’altro era “la terra madre russa”, mancava l’aggettivo “santa” ma non era necessario menzionarlo. Secoli di predicazione ortodossa non potevano aver rimosso dopo solo dopo due decenni di socialismo reale, dalla mente e memoria di milioni di contadini ed operai, l’idea della “Santa Madre Terra Russa”. Stalin si rivolse agli ascoltatori non come compagne e compagni, ma come fratelli e sorelle, così come esattamente avrebbe voluto la tradizione ortodossa. La notte del 4 settembre 1943 fu la svolta storica nei rapporti tra Stato e Chiesa. Stalin e la dirigenza sovietica si incontrarono con il metropolita Sergij e i rappresentanti della chiesa ortodossa. Stalin accettò tutte le proposte degli ecclesiastici, comprese quelle di sostentamento finanziario alle strutture del Patriarcato. L’incontro, convocato a notte fonda, aveva quasi un’aura surreale considerato che, al di là dell’apertura dello Stato, erano trascorsi pochi anni dalle persecuzioni alle strutture e ai rappresentanti del clero. La svolta fu “santificata” dalla pubblicazione del resoconto della riunione da parte della ”Izvestija” uno dei quotidiani di riferimento del regime. Ancora più sorprendenti i toni del comunicato dove tra l’elencazione dei punti di condivisione delle due parti sulle iniziative future della Chiesa, tra le quali, la convocazione di un concilio dei vescovi della Chiesa ortodossa, veniva letteralmente riportato: “Il capo del governo, compagno Stalin, ha accolto con simpatia tali proposte e ha dichiarato che da parte del governo non ci saranno ostacoli”. Il peso specifico della riappacificazione tra sovietici ed ecclesiastici lo si rileva anche dall’appoggio da parte dello Stato alle strutture ufficiali del patriarcato moscovita e la decisione governativa di agevolare il rientro nelle strutture ufficiali ortodosse di quelle parrocchie che negli anni si erano distaccate dall’ortodossia di Mosca, costituendo una rete “eretica” conosciuta col nome di “chiese del rinnovamento”. Interessante quanto riportato in relazione al gruppo dirigente sovietico: “Considerando le posizioni patriottiche della Chiesa sergiana (quella ufficiale), si ritiene opportuno non ostacolare la disgregazione del “rinnovamento” e il passaggio del clero e delle parrocchie dei “rinnovatori” alla chiesa patriarcale sergiana”. Il sostegno, attraverso la condanna degli eretici, è ancora più esplicito: “Una grande quantità di credenti fanatici, trovandosi sotto l’influenza dei “rinnovatori” si distingue fortemente nell’atteggiamento dai gruppi di credenti che si trovano sotto l’influenza del clero della chiesa legale animato da sentimenti patriottici.” Affermazioni che ormai, fanno rientrare, a pieno titolo, il patriarcato di Mosca (l’ortodossia legale) nel perimetro dello stato sovietico e della comunità nazionale. La chiesa “ricambia” il favore come ben rappresentato dalla lettera del patriarca Aleksij, del 28 maggio 1944: “La rigida osservanza delle sacre regole ecclesiastiche, la fedeltà alla Patria, la non ipocrita, secondo gli insegnamenti degli apostoli, obbedienza alle autorità costituite, perché, secondo l’apostolo, esse sono di Dio”. Significativa fu la scelta del “titolo” da assegnare al Patriarca. Fu deciso di non rinominare, come tradizione imponeva, “Patriarca di Mosca e di tutta la Russia” ma quello di “Patriarca di Mosca e di tutta la Rus’”. La questione è di assoluto rilievo in quanto la parola “Rus’” rimandava storicamente agli avi dei tre popoli slavi ortodossi che componevano un’unica identità, grandi russi (russi), piccoli russi (ucraini) e bielorussi. L’unità degli slavi divenne il punto di congiunzione tra la dirigenza sovietica ed i vertici ecclesiastici. Lo “Slavjanstvo” nella concezione degli ecclesiastici russi era l’unione dei popoli slavi ortodossi. L’eredità dei santi Cirillo e Metodio, il cui segno tangibile fu la creazione dell’alfabeto cirillico, costituiva il nucleo del cristianesimo bizantino, il carattere identitario degli slavi. In questa prospettiva la dirigenza sovietica fu ben lieta di utilizzare la cultura religiosa a fini geopolitici nella prospettiva, poi realizzata, dell’allargamento sovietico nell’Est Europa: fu un vero e proprio strumento geopolitico, coincidevano perfettamente gli interessi dello Stato e della chiesa. Furono anche le prospettive geopolitiche che si offrirono all’U.R.S.S. a contribuire ad una riapertura al mondo religioso, custode da sempre dell’idea di Rus’. A Stalin si offriva l’occasione, come poi si è avverata, di un espansionismo nell’est europeo e lo strumento ideologico e valoriale dell’ortodossia quale valore comune ai popoli dell’est Europa ne fu un valido strumento. La vita della chiesa russa continuava, negli anni della guerra, ad essere contraddistinta dalla una forte partecipazione popolare. Dai documenti statali si rileva che le celebrazioni della pasqua del 1944 aveva visto, nelle trenta chiese moscovite, la partecipazione di oltre 120mila fedeli, dei quali metà giovani equamente divisi tra uomini e donne con la significativa presenza di soldati e ufficiali. Vi è un altro aspetto di allora che riconduce al presente, il contrasto tra Unione Sovietica e chiesa cattolica nel quale l’Ucraina giocava e gioca un ruolo centrale. Il ricomprendere nel perimetro dell’U.R.S.S. l’Ucraina, intercettava obbligatoriamente anche il piano religioso. Le valutazioni sovietiche sulle chiese greco cattoliche (uniate) comprendevano aspetti prettamente politici e contemporaneamente di fede. Il documento del Presidente del Consiglio per gli Affari Religiosi, Karpov, è esplicativo: “Il blocco politico col fascismo ha rafforzato l’attività del Vaticano”, una serie di iniziative finalizzate al “distacco delle parrocchie della Chiesa Greco-cattolica (uniate) in U.R.S.S. e successiva adesione alla chiesa ortodossa”, piano che fu completato nell’agosto del 1949. La fine di Stalin e la conseguente “destalinizzazione” segnarono un passo indietro nei rapporti tra Stato e Chiesa. D’altra parte la necessità della guerra nel recuperare l’anima profonda del patriottismo, attraverso la chiesa ortodossa, e l’utilizzo della stessa per l’espansione e l’integrazione politica degli slavi dell’Est Europa, erano obiettivi raggiunti e superati. Tuttavia anche se si registrarono chiusure di strutture ecclesiastiche, non si tornò al clima del primo ventennio sovietico e sostanzialmente i passi in avanti fatti negli anni della “guerra patriottica” non furono annullati. Significativi i due eventi che hanno rappresentato il passaggio di “consegne” dell’era sovietica al ritorno della Rus’. Nel 1988 si tennero le celebrazioni del millennio del battesimo della Rus’ e come scrisse allora il patriarca Kirill “quella che doveva essere una ricorrenza solo ecclesiastica divenne un evento di dimensione nazionale” a sottolineare che nel tramonto dell’era sovietica il nucleo dell’identità russa sopravviveva. Il secondo, più simbolico, fu quanto avvenne nella giornata del 19 agosto del 1991. Per la prima volta vennero ammesse nella cattedrale della Dormizione del Cremlino le celebrazioni liturgiche. Durante la liturgia, celebrata dal patriarca Aleksij II, scendevano in strada i carri armati dei golpisti, nell’estremo tentativo di ritardare l’agonia dell’U.R.S.S. La storia voltò pagina. Ormai definitivamente lontane e consegnate agli archivi le motivazioni della sentenza del novembre del 1920 che condannò l’allora patriarca Aleksji per la venerazione delle reliquie di San Sergij, con la motivazione “attentato alla vita psichica ed alla volontà malata dei credenti”. Quello che si conservò fu, ed è, la “Santa Terra Madre Russia”. Ancora una volta i poteri temporali nell’agosto del 1991 voltavano pagina, lasciavano il palcoscenico ad altri interpreti della storia, mentre nella cattedrale ci si inginocchiava di fronte alla millenaria Rus’ ed ai suoi preti.
Daniele Ratti
Per approfondire:
Adriano Roccucci, Stalin e il Patriarca. La Chiesa ortodossa e il potere sovietico – Einaudi
Carlo Pietro Piretto, Quando c’era l’URSS. 70 anni di storia culturale sovietica – Raffaello Cortina Editore