Claudio Lolli ci ha regalato oltre quarant’anni di musica pura. Altri artisti sono stati osannati perché capaci di declamazioni più assertive e rotonde, eppure non hanno
resistito alla cuccia tiepida predisposta, nei salotti del potere, per tante anime illustri esauste di chissà quali rivoluzioni.
Lolli ha avuto sicuramente meno successo di tanti, è stato ritenuto spesso un umbratile sfigato, un dimesso cantore avviluppato nelle angosce metropolitane e niente più;
snobbato dai più degni rivoluzionari di cui sopra, ha conosciuto, per dirla con le parole di una sua canzone, “la colpa ed il dolore per non esser mai stato, per nessuno di voi, nemmeno un fratellastro”. Eppure, mentre qualcun altro sgusciava beatamente nella schiera di coloro che sono contenti “se la parrocchia del sacro cuore acquista una nuova
campana”, Lolli ha attraversato decenni in cui di cose ne sono successe veramente tante, sulla scena sociale e politica oltre che su quella musicale, mostrando senza
esibizionismi che è possibile non essere servi.
Salutiamo allora Claudio Lolli e, come Anna di Francia, brindiamo alla sua (ed alla nostra) anarchia. I suoi zingari felici hanno rappresentato molto, di là della metafora
fricchettona che pure appartiene ad un’epoca: hanno spostato lo sguardo su un’altra umanità, indomabile e carica di energia, con versi che oggi appaiono densi di
suggestioni nuove.
Da anni chi crea la miseria e la povertà con tutti i mezzi commerciali, economici e militari, dissimula l’imposizione dello sfruttamento e la diseguale distribuzione della
ricchezza criminalizzando la ricerca dell’abbondanza, il diritto all’accesso ai beni, tacciando di consumismo la necessità di soddisfare i bisogni, enfatizzando il sacrificio ed il saper vivere con poco, qualità che deve essere rigorosamente riservata agli sfruttati. Fa bene allora riascoltare che “siamo noi a far ricca la terra, noi che sopportiamo la
malattia del sonno e la malaria. / Noi mandiamo a raccolto cotone, riso e grano, noi piantiamo il mais su tutto l'altopiano. / Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
le nostre braccia arrivano ogni giorno più lontane. / Da noi vengono i tesori alla terra carpiti, con che poi tutti gli altri restano favoriti”.
Ora più che mai, in tempi di repressione e di respingimenti, nei mari come nelle piazze, sulle montagne come sui luoghi di lavoro, in tempi di imposizione di povertà, di
discriminazione e di sfruttamento, ora più che mai ha senso riascoltare le note di quel sax travolgente e sentirci dire chi siamo noi, senza differenze fra primi, secondi e terzi mondi:
“E siamo noi a far bella la luna, con la nostra vita coperta di stracci e di sassi di vetro. / Quella vita che gli altri ci respingono indietro come un insulto, come un ragno nella
stanza. / Riprendiamola in mano, riprendiamola intera, riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l'abbondanza”.
Vengono in mente alcuni versi di Pietro Gori, che in una poesia scritta dal carcere immagina così l’approdo nella terra ideale: “(...) C’è per tutti il sole, per tutti il pane (...)
Non servi o parassiti, non sicari del pensiero. La luce nelle menti, nei muscoli la forza, in fondo al core la poesia. Nei campi nasce, presso i fiori, il pane, e sale il fumo dalla vaporiera (…) L’arte risplende”.
Una terra fatta di armonia, libertà e abbondanza, illuminata dalla bellezza dell’arte, della fantasia e della creatività: un luogo dove ci pare di poter vedere anche degli zingari
felici.
Patrizia Nesti