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Il feroce ritorno del proibizionismo

Il feroce ritorno del proibizionismo

Il quotidiano inglese The Guardian ha pubblicato a luglio l’elenco dei nomi di oltre 34mila profughi e migranti morti nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere l’Europa. È un dato parziale che si riferisce solo ai cadaveri che sono stati recuperati e, visto che in caso di naufragio in mare aperto le correnti restituiscono solo dal 20 al 50% dei corpi, con ogni probabilità ci sono altre migliaia di persone che giacciono sui fondi marini. Le cifre di questo spaventoso massacro non bastano certo a placare la sete di sangue e di sofferenze umane della spazzatura leghista e fascista e lo si è ben visto quest’estate con la chiusura dei porti da parte del Governo Lega-5 Stelle, che non ha esitato a impedire lo sbarco non solo dei migranti soccorsi dalle Ong ma anche di quelli che erano stati salvati dalle navi mercantili e da quelle della Marina Militare.

Altri nemici da combattere sono però già all’orizzonte. Al raduno leghista di Pontida, mentre il segretario dei giovani della Lega prometteva la prossima chiusura di “tutti i Centri Sociali”, il Ministro della Paura (e premier de facto) Salvini indicava tra i prossimi obiettivi del Governo del Rimbambimento la riapertura dei manicomi e la “lotta alla droga”.

È dai tempi di Reagan, d’altronde, che la War On Drugs è uno dei principali cavalli di battaglia della destra internazionale, sempre pronto ad essere utilizzato a tutte le latitudini. Negli ultimi anni il campione di ferocia in questa specialità è stato Rodrigo Duterte, il presidente delle Filippine, dove dal 2016 ad oggi oltre 20mila persone (secondo le stime di Amnesty International e Human Rights Watch) sono state assassinate dalle forze di polizia e dagli squadroni della morte per l’unica colpa di essere spacciatori o consumatori di sostanze proibite o anche soltanto testimoni della mattanza. Questi massacri hanno procurato a Duterte l’ammirazione di Donald Trump (che in diverse occasioni s’è detto dispiaciuto di non poter utilizzare negli Usa gli stessi metodi) ma anche degli islamisti che hanno recentemente vinto le elezioni in Bangladesh, dove solo tra maggio e giugno 130 persone sono state uccise e altre 15mila sono state arrestate nel corso di operazioni anti-droga. Anche in Sri Lanka il presidente Maithripala Sirisena ha promesso – “ispirato da Duterte” – una politica del pugno duro contro le droghe ponendo fine alla moratoria ufficiosa sulla pena di morte vigente nel paese dal 1976, mentre l’argentino Macrì – “sull’esempio filippino” – a maggio ha deciso di impiegare l’esercito alle frontiere e nelle città per le operazioni contro il traffico “e il consumo” di stupefacenti.

In Italia per ora non ci sono politici che dichiarano ufficialmente il proprio sostegno ai metodi di Duterte che è, invece, molto popolare tra i troll di estrema destra che hanno ormai colonizzato Internet nel nostro paese, che ai pochi articoli che sulla stampa on line denunciano la situazione nelle Filippine fanno seguire puntualmente commenti del tipo “è così che bisogna fare contro le zecche e gli spaccini” e non mancano mai di ricordare che “Duterte è un vero incorruttibile” (come “veri incorruttibili”, d’altra parte, sono stati molti dei più feroci governanti dell’ultimo secolo, dal portoghese Salazar che abitava in una minuscola cella di un convento di suore e si nutriva solo di brodini e verdure bollite, all’ex presidente iraniano Ahmadinejad che “per non sprecare energia” non usava l’ascensore e per andare nel suo ufficio saliva tutte le mattine le scale a piedi).

In attesa, inoltre, di poter aver il via libera per fare gli squadroni della morte, è già da tempo che fascisti e leghisti organizzano ronde “contro gli spacciatori”, mentre in diverse città hanno iniziato a diffondere anche gli “avvisi contro i consumatori”, postando sui social (ma qualche volta, com’è già successo a Modena e in altri posti, mettendo anche delle locandine sui muri) le immagini di persone fotografate da lontano con lo smartphone mentre comprano qualche grammo di fumo o si fanno una canna, seguite da insulti e minacce e spesso indicandone pure nomi e indirizzi.

Tanto odio deve aver convinto Salvini (che da giovane, quando sedeva sui banchi del Parlamento “secessionista” del Nord come rappresentante dei Comunisti Padani e si vantava di frequentare il Leoncavallo, era come Maroni un convinto sostenitore della legalizzazione della cannabis) che è tempo di tornare alla persecuzione dei “drogati”, visto che non basta prendersela con migranti e profughi per soddisfare la sete di sangue dei miserabili che lo hanno votato.

Le cose sono un po’ diverse per i 5 Stelle che sono sempre stati legati agli ambienti più rispettabili della galassia antiproibizionista (al punto che molti dei primi meet up grillini una decina di anni fa si riunivano all’interno di canapai). Sicuramente tra i motivi che hanno spinto molti ingenui di idee progressiste a dare il voto al M5S c’è stato, oltre che il no alla TAV (che, peraltro, si sta già trasformando in ni e che forse alla fine potrebbe diventare un si), anche il fatto che sia i 5 Stelle che il loro guru Beppe Grillo si erano espressi più volte a favore della legalizzazione della cannabis, indicata tra gli “obiettivi prioritari” nel loro programma elettorale del 2013, anche se per le ultime elezioni il termine era già stato sostituito dal ben più ambiguo “regolamentazione”, una parola che vuol dire tutto e che quindi non vuol dire niente.

È certo una battuta molto arguta quella di chi ha detto che “Di Maio è il primo napoletano della storia che è riuscito a farsi fregare da un milanese”. In realtà, però, il Movimento 5 Stelle ha una linea disinvolta e ben più che ondivaga che, grazie anche ad una fittizia divisione in correnti, gli consente prendere voti “conservatori”e voti “progressisti” in una riedizione 2.0 dell’ambiguità politica che in tempi passati ha consentito alla Democrazia Cristiana di governare l’Italia per quasi mezzo secolo. Così, mentre sul sito ufficiale del partito veniva messo un vecchio video di uno spettacolo antiproibizionista di Grillo della fine degli anni ’90, si è scoperto dalla Gazzetta Ufficiale del 5 luglio che lo scorso 27 giugno il premier Conte aveva deciso di celebrare la “Giornata mondiale antidroga” affidando la delega alle politiche sulle dipendenze al ministro della Famiglia Lorenzo Fontana (senza peraltro darsi neppure la pena di fare un comunicato stampa o, almeno, un post su un social per informare gli italiani).

Fontana – che molti hanno già ribattezzato “ministro alle politiche medievali” – è un leghista proveniente dagli ambienti dell’integralismo cattolico ed ha subito dichiarato di voler seguire i passi del mitico duo Giovanardi-Serpelloni con un programma di “tolleranza zero” nei riguardi del consumo e “percorsi riabilitativi” e lavori socialmente utili “obbligatori“ per gli utilizzatori di ogni tipo di sostanza proibita. Secondo lui, in Italia “non c’è abbastanza proibizionismo“ ed ha confermato la sua contrarietà ad ogni ipotesi di legalizzazione della cannabis. La Lega il 24 luglio ha anche organizzato un convegno a Piacenza intitolato “L’erba della morte: la cannabis” che è stato duramente contestato fino alla sua sospensione da decine di attivisti presenti in sala che applaudivano in modo canzonatorio e facevano boati ad ognuna delle affermazioni più assurde dei relatori, costringendo gli organizzatori a far terminare l’incontro prima del previsto, mentre anche fuori dall’auditorium comunale si stava tenendo un sit-in di protesta a cui hanno partecipato centinaia di persone.

È quindi più che probabile che stia per arrivare una nuova onda di repressione sempre più dura nei confronti dei consumatori di sostanze proibite. Solo i gonzi possono credere che la ferocia dei leghisti anche su questa materia possa essere in qualche modo fermata o mitigata dai 5 Stelle che hanno ben dimostrato di poter accettare qualunque porcheria fatta dai leghisti pur di stare al Governo. Considerato poi che oltre la metà dei “cittadini onesti” che i grillini hanno portato in Parlamento è formata da studenti universitari fuori corso per lo più ultratrentenni che, in caso di caduta del Governo e di scioglimento delle Camere, si ritroverebbero a rinunciare a degli stipendi da 15-16mila euro[1] al mese con la prospettiva di finire a fare i camerieri in pizzeria o gli operatori in un call center, è davvero improbabile sperare anche nel ravvedimento di qualche parlamentare (è proprio per questo, oltre che per poter tagliare le pensioni di tutti gli italiani, che i “moralizzatori” hanno tagliato i vitalizi degli ex deputati e degli ex senatori ma si sono guardati bene dal ridurre gli stipendi di quelli attuali).

Così, lo scorso 27 agosto Salvini ha presentato il progetto “Scuole sicure” che riguarderà le principali città italiane che “avranno a disposizione un fondo complessivo da 2,5 milioni per incrementare i controlli, assumere agenti della polizia locale a tempo determinato, coprire i costi degli straordinari o installare impianti di videosorveglianza”. Insomma, sempre più repressione, che certo non è mancata negli ultimi anni in cui, secondo i dati del Libro Bianco sulle droghe presentato da Forum Droghe a giugno, con lo stalinista Minniti a capo del Ministero dell’Interno, è cresciuto in modo esponenziale il numero delle persone segnalate per consumo di droghe: da 27.718 del 2015 a 38.613 del 2017, ovvero +39% in soli due anni, mentre le segnalazioni dei minori sono quadruplicante rispetto al 2015, a causa della sempre più intensa presenza di sbirri e cani davanti alle scuole. Sempre secondo il Libro Bianco, dal 1990 a oggi sono state ben 1.214.180 le persone segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale e di queste il 73% per derivati della marijuana (884.044).

Sono i dati di una persecuzione di massa che rischia di diventare ancora più dura e feroce se non sarà contrastata. È tempo, insomma, di riprendere la mobilitazione: la lotta paga e lo dimostra quello che è successo negli ultimi mesi in Georgia, un tempo parte dell’Unione Sovietica. All’inizio di agosto la Corte Costituzionale del paese ha stabilito che l’uso personale di cannabis in Georgia è lecito, abolendo completamente tutte le ammende previste finora perché considera l’uso della cannabis come diritto allo “sviluppo personale”. Già l’anno scorso c’era stata una sentenza (arrivata al termine di una stagione di mobilitazione antiproibizionista nel paese, culminata in una grande manifestazione con oltre 100mila persone svoltasi nella capitale Tbilisi il 10 dicembre 2016) che depenalizzava l’uso di cannabis la quale però sarebbe stata comunque soggetta a sanzioni amministrative come le multe. Questo aveva permesso alla polizia di continuare fare raid e a portare persone nelle caserme.

Le cose sono andate avanti così fino a quando nella notte dello scorso 12 maggio le forze dell’ordine sono intervenute in diverse discoteche e locali notturni di Tbilisi arrestando circa 70 persone. Questo ha scatenato la reazione di decine di migliaia di persone che si sono autorganizzate rapidamente nel “Movimento del Rumore Bianco” e per oltre una settimana di fila hanno fatto manifestazioni notturne a Tbilisi con sound system e concerti in piazza che neanche la polizia antisommossa è riuscita ad impedire, visto l’altissimo numero di partecipanti e la solidarietà di moltissimi cittadini che dalle finestre delle loro case inveivano e lanciavano oggetti contro gli sbirri accusati di essere “i veri disturbatori della quiete pubblica”. Questo ha costretto prima il Ministero degli Interni il 22 maggio ad emanare una circolare in cui veniva ordinato alle forze dell’ordine di sospendere “le operazioni contro i consumatori di cannabis”, cui poi è seguita ad agosto la sentenza della Corte Costituzionale. Una lezione anche per gli antiproibizionisti italiani che in un passato non troppo lontano nel 2014 avevano ottenuto l’abolizione della Legge Fini-Giovanardi (che equiparava droghe leggere e droghe pesanti) con una sentenza che era stata promulgata solo pochi dopo la grande manifestazione nazionale tenutasi a Roma il 7 febbraio di quell’anno.

robertino

NOTE

[1] È vero che una parte dei grillini devolve una quota dei soldi al partito, ma a giudicare dalle “rendicontazioni” pubblicate sul sito del M5S un parlamentare 5 Stelle tra stipendio (3mila euro) e generosi rimborsi spese porta a casa non meno di 7-8mila euro al mese. Che è più di cinque volte di quel che guadagnano un vigile del fuoco, una maestra elementare o un operaio metalmeccanico. Persone che fanno lavori sicuramente più impegnativi che starsene seduti sulle comode poltrone di Montecitorio e Palazzo Madama a far gazzarra e a schiacciare un bottone ogni tanto…


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