Il 5 febbraio l’esercito turco ha attaccato con armi pesanti la città di Tell Abyad (Girê Spî) in Rojava, il Kurdistan occidentale in territorio siriano, dispiegando in Turchia le proprie truppe nella città di confine di Akçakale.
Già il 20 gennaio numerosi colpi di artiglieria sparati dall’esercito turco hanno colpito a Tell Abyad il quartier generale delle YPG, le Unità di Protezione del Popolo che controllano la città dal giungo 2015, quando, dopo aver sconfitto le truppe dello Stato Islamico, sono riusciti a ricongiungere i cantoni di Cezire e Kobane della Rojava.
In un recente comunicato l’ufficio stampa delle YPG ha affermato che gli attacchi contro le proprie postazioni di confine da parte delle forze militari turche vanno avanti ininterrottamente dal 24 ottobre scorso. Questa zona è strategica. Attraverso il confine che divide Tell Abyad e Akçakale passavano, prima dell’arrivo delle YPG, rifornimenti in uomini e armi per lo Stato Islamico, è infatti uno dei punti di frontiera in cui la collaborazione tra Stato Turco e Stato Islamico è stata più evidente.
Gli attacchi turchi su Tell Abyad delle ultime settimane non sono che gli ultimi episodi della strategia turca di intervento diretto in Siria contro la popolazione curda e le forme di organizzazione sociale che si sta dando la Rojava. Questa strategia, che è stata caratterizzata anche da una sanguinosa stretta autoritaria e repressiva in Turchia contro le organizzazioni del movimento curdo, contro la sinistra rivoluzionaria, contro i dissidenti e contro la popolazione civile, è stata inaugurata nel luglio dello scorso anno dopo la liberazione di Tell Abyad da parte delle YPG e delle YPJ (Unità di Protezione delle Donne), ed è stata annunciata pubblicamente dal Consiglio Nazionale di Sicurezza Turco (MGK) presieduto dal Presidente della Repubblica Erdoğan, con una dichiarazione in cui si affermava che la Turchia “non permetterebbe mai la formazione di uno stato curdo lungo i propri confini”.
Il 24 luglio 2015 sono iniziati raid aerei dell’esercito turco contro le postazioni del PKK in Iraq e Turchia e contro quelle delle YPG in Siria, i bombardamenti riscossero in quei giorni l’approvazione del Segretario generale della NATO Stoltenberg. Da allora sono continuati i bombardamenti dell’esercito turco in territorio siriano contro le postazioni delle YPG. Se inizialmente il governo turco tentava di mascherare questi attacchi, dichiarando che il proprio esercito era impegnato in azioni contro lo Stato Islamico, alla fine di ottobre il Primo ministro turco Ahmet Davutoğlu ha confermato l’attacco da parte di unità turche contro le postazioni delle YPG vicine al confine presso Tell Abyad, rivendicandone la legittimità in nome della sicurezza del proprio paese.
Uno degli episodi più eclatanti è avvenuto il 24 dicembre scorso, quando alcune unità dell’esercito turco hanno oltrepassato il confine tra Turchia e Siria entrando in Rojava, attraversando i villaggi di Sermisax e Banokiya, a est di Qamişlo, per assumere il controllo di una collina strategica a circa un chilometro dal confine che permetterebbe all’esercito turco di controllare le aree circostanti in territorio siriano. Circa 200 soldati, accompagnati da alcuni bulldozer e supportati da veicoli militari ed armi pesanti, dopo aver rimosso il filo spinato dal confine, hanno costruito trincee vicino ai villaggi per difendere le posizioni acquisite. La popolazione locale, che ha ha protestato contro questa intromissione, è stata minacciata dalle truppe turche.
La stessa guerra viene condotta dallo Stato turco all’interno dei propri confini. Tra luglio e agosto numerosi quartieri di Istanbul e Diyarbakir (Amed) e di altri centri del Bakûr, il Kurdistan settentrionale in territorio turco, sono insorti dichiarando l’autogoverno, costruendo barricate per fermare i rastrellamenti messi in atto dalle forze di sicurezza turche nei confronti di militanti rivoluzionari, reali o presunti, turchi e curdi, che a centinaia venivano arrestati, spesso torturati. Alcuni sono stati uccisi nelle proprie case o in strada, o addirittura fatti sparire, altri hanno dovuto
subire, una volta uccisi, sui propri corpi senza vita, le angherie e le brutalità dei militari e della polizia. Si è trattato di un’insurrezione nata innanzitutto dalla necessità di difendersi dalla violenza del terrorismo di Stato, ma che allo stesso tempo, con la dichiarazione di autogoverno, seguiva una prospettiva politica e sociale ben chiara, rivolta verso l’esperienza della Rojava.
Per reprimere queste rivolte lo Stato turco ha impiegato l’esercito, carri armati, mortai, artiglieria, cecchini e armi da guerra per riprendere il controllo delle strade, coprifuoco e rappresaglie per mantenerlo.
Come la situazione drammatica della città di Cizre, simbolo della resistenza a terrorismo di Stato in Turchia ci mostra quotidianamente, il coprifuoco, i bombardamenti e le rappresaglie continuano, provocando numerose vittime.
In questo contesto il 29 gennaio si era aperta a Ginevra la III conferenza sulla situazione di guerra in Siria, organizzata dall’inviato ONU in Siria Staffan de Mistura. La conferenza, che secondo gli organizzatori dovrebbe concludersi in sei mesi, vede riunite le principali potenze coinvolte nel conflitto, tra cui Stati Uniti, Russia, Iran, Turchia, Arabia Saudita, nonché rappresentanti del governo di Damasco, l’Alto Comitato per i Negoziati (HNC) che rappresenta in quella sede l’opposizione siriana riunendo 32 forze sunnite, rappresentanti di minoranze e di organizzazioni non governative. I colloqui però sono già stati sospesi, e non riprenderanno fino al 25 febbraio.
Il mancato invito di una rappresentanza della Rojava alla conferenza, è stato preso in considerazione solo in modo marginale dai media ufficiali, che hanno in genere spiegato tale esclusione come una scelta alla cui base vi sarebbe la contrarietà della Turchia.
In dichiarazioni rilasciate per ANF (Ajansa Nûçeyan a Firatê, agenzia di stampa vicina al movimento curdo), Salih Muslim, leader del PYD (Partito dell’Unità Democratica, maggiore forza politica della Rojava, membro del KCK, il Gruppo di Comunità del Kurdistan di cui è parte anche il PKK), che si è recato a Ginevra per protestare contro la scelta di non invitare rappresentanze curde dalla Siria, ha affermato che i curdi non riconosceranno Ginevra III dal momento che non sono stati invitati.Ha dichiarato che non c’è solo la Turchia ad opporsi alla loro presenza ai colloqui di pace ma tutte quelle forze che sono contrarie ad un riconoscimento politico dei curdi e che sono contrarie al sistema democratico che sta sperimentando la Rojava. Muslim ha anche affermato che sono le forze regionali sostenute da “Turchia, Sauditi, Regime siriano e Iran” quelle che si schierano contro di loro, mentre Russia e Stati Uniti devono capire che non è più possibile escludere i curdi, che ormai sarebbero una “potenza” (power nella versione iin lingua inglese dell’intervista) nella regione. Secondo Muslim inoltre non è esclusa la possibilità che una rappresentanza della Rojava sia invitata in un secondo momento.
Emerge chiaramente, anche dalle parole di Muslim, che l’esclusione della componente curda dai colloqui di Ginevra, è da ricondursi in gran parte al progetto sociale e politico di autogoverno condotto in Rojava, che è ritenuto pericoloso dalle potenze regionali e mondiali che intervengono in Siria. Probabilmente la partecipazione di una rappresentanza della Rojava può porre problemi a livello diplomatico e di diritto internazionale; il PYD e l’Amministrazione Democratica Autonoma della Rojava sono considerati solo come un’entità semi-autonoma e, per alcune fazioni dell’opposizione, sono sostenitori di Assad. Ma non è per questo che tali rappresentanze sono state escluse.
Questo ci è dimostrato dalla guerra che lo Stato turco sta conducendo sia contro i rivoluzionari e la stessa popolazione civile all’interno dei propri confini sia contro l’Amministrazione Autonoma della Rojava e la sperimentazione sociale e politica fondata sul confederalismo democratico che là si sta mettendo in atto. Una guerra sostenuta dalla NATO, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.
Ma non c’è solo la Turchia. In un contesto come quello siriano, in cui grazie alla mediatizzazione del terrore dello Stato Islamico ogni tipo di intervento militare sembra essere giustificato, le
potenze si scontrano per difendere i propri interessi economici e strategici, ma anche di influenza. Sul piatto infatti non vi è solo la gestione del potere in Siria e la possibile uscita di scena di Assad, ma anche la gestione della questione curda.
Chi si riunisce a Ginevra punta a prendere la fetta più grossa in una pacificazione della Siria che ridisegnerà gli equilibri del Medio Oriente. Per questo, almeno fino a quando rappresenterà una pericolosa alternativa politica e sociale, la Rojava sarà esclusa o marginalizzata da colloqui e negoziati.
Non è mio compito e non ho le competenze per entrare nel merito delle scelte diplomatiche e di relazioni del PYD e dell’Amministrazione Autonoma della Rojava. Mi limito a dire che è proprio il carattere alternativo della Rojava, messo a rischio in un contesto di guerra tanto complesso, che deve essere difeso, continuando sulla strada del processo rivoluzionario se la popolazione della Rojava vuole avere la possibilità di mantenere il proprio autogoverno e sviluppare liberamente le forme di organizzazione sociale che preferisce.
Per questo anche l’attività di solidarietà con la Rojava deve emanciparsi dalla narrazione ufficiale che vede i curdi come unici veri combattenti nella guerra contro il terrorismo e per questo presentabili al tavolo delle trattative.
I curdi hanno preso le armi in Rojava molti anni prima che arrivasse lo Stato Islamico. I cantoni della Rojava non sono nati per combattere lo Stato Islamico ma per autogovernare delle regioni controllate dalle YPG e dalle YPJ in cui la popolazione sotto la spinta di un movimento popolare e del PYD stava iniziando a sperimentare l’applicazione del confederalismo democratico, inteso come un’alternativa alla “modernità capitalista”. La guerra contro Al-Nusra prima e lo Stato Islamico ora è una lotta per l’autodifesa, non l’avanguardia dell’occidente democratico contro il Califfato.
Come anarchici sostenere la lotta per la libertà del popolo curdo e l’esperienza della Rojava significa sostenere la prospettiva rivoluzionaria dell’esperimento sociale che è in atto.
Mentre a Ginevra i potenti cercano un accordo per spartirsi il mondo e imporre la loro pace, si rende ancora più necessario rilanciare l’iniziativa antimilitarista.
Dario Antonelli