Giacomo Gobbato. Non voltarsi dall’altra parte.

La tragica morte di Giacomo Gobbato è rimbalzata agli onori delle cronache a livello nazionale, ma è utile comunque riassumere i fatti.

Nella notte fra il 20 e il 21 settembre, a Mestre, due amici vedono una donna aggredita da un uomo a scopo di rapina e intervengono ad aiutarla: sono Giacomo e Sebastiano; Giacomo viene accoltellato a morte, mentre Sebastiano riporta solo ferite lievi. La donna ne esce illesa.

Fin da subito, figure istituzionali e di partito, oltre al cordoglio di facciata, utilizzano quanto accaduto per rimarcare che “ci vuole più polizia”, “ci vogliono più controlli” ecc ecc, mentre sui social si scatenano i razzisti al grido di “basta immigrati”.

Ma chi sono i protagonisti di questa storia? Un moldavo senza fissa dimora, tossicodipendente; una donna di origini colombiane presa a pugni e rapinata, che ha chiesto aiuto e ora si colpevolizza perché “se non avessi urlato, oggi quel ragazzo di 26 anni sarebbe ancora vivo”; una turista giapponese vittima di una seconda rapina, minacciata col coltello ancora sporco del sangue di Giacomo; un uomo albanese che è riuscito a mettere in fuga l’assassino. E infine loro, Giacomo e Sebastiano, due attivisti del Centro Sociale Rivolta di Marghera, due compagni o – come direbbero dall’altra parte della barricata – due zecche.

Già questo quadro ci porta a una prima considerazione: chi sono “gli stranieri” e “gli italiani” in questa storia? Quello che vediamo sono persone, che vivono o attraversano la stessa città e che condividono, ognun* con il proprio percorso e storia personale, le difficoltà di ogni giorno, in questa società sempre più disperata, angosciata, impaurita, impoverita. Pure l’assassino.

Molte persone in questi giorni hanno parlato di “eroismo” e di “gesto esemplare”, ma io non sono d’accordo. Usare termini del genere implica pensare che quanto fatto da Giacomo e Sebastiano sia qualcosa di fuori dall’ordinario, alla portata solo di “super uomini” o giù di lì. I due amici invece hanno fatto la cosa più normale di questo mondo: hanno visto una persona in difficoltà e non hanno pensato “non sono affari miei”. Loro hanno agito direttamente, in un modo che forse non per tutte le persone è possibile: magari fossero state due donne anziane non se la sarebbero sentita (o magari si). Ma forse il punto non è tanto cosa si fa, ma il fatto in sé di porsi il problema, di provare ad agire in qualche modo, di non considerare solo l’interesse personale immediato. Un moto spontaneo di solidarietà che dovrebbe essere la norma e che invece diviene “esemplare” in un mondo sempre più atomizzato, in cui le relazioni sociali fra le persone rispecchiano spesso e volentieri i valori del capitalismo e dell’autorità, ovvero sopraffazione, violenza e indifferenza.

Io non conoscevo Giacomo, ma avrei potuto. La sera stessa della sua morte ho scoperto che eravamo “amici” su Facebook. Ho guardato e riguardato le sue foto per vedere se mi ricordavo di lui, ma niente. Però ho visto le immagini di lui in prima fila ai concerti hardcore in Veneto, gli stessi concerti a cui ero anch’io: molto probabilmente ci siamo sorretti l’un l’altro durante gli stage diving e abbiamo urlato fianco a fianco sotto quei palchi. Vent’anni di differenza fra noi due, eppure basta vedere quelle immagini per capire che condividevamo la stessa passione, lo stesso fuoco dentro, la stessa determinazione a lottare per un mondo migliore, seppure in contesti politici molto diversi. È proprio questa comunanza che mi ha colpito. Perché al posto di Giacomo e Sebastiano poteva esserci chiunque di noi. Ed è proprio questo il modo in cui, secondo me, dobbiamo ricordare Giacomo: un ragazzo che ha fatto la scelta, quella notte come in tutta la sua vita, di non voltarsi dall’altra parte, di lottare per un mondo in cui violenza, discriminazione, povertà e sfruttamento siano solo un ricordo lontano.

Ciao Giacomo

F.

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