Con questo mio articolo voglio riprendere l’interessante riflessione sull’energia avviata da Marco Tafel con il suo articolo “Quanta? Quale?”: la questione della dipendenza energetica e di come questa sia legata all’organizzazione della società.
Una storia poco scritta della contemporaneità è quella della storia delle infrastrutture energetiche. La prima rivoluzione industriale, quella dei motori a vapore, si fondò sulla disponibilità di carbone ed inizio un ciclo a feedback positivo in cui la maggiore disponibilità di combustibile permetteva di estrarne ancora maggiormente: una delle prime grandi applicazioni del motore a vapore fu proprio l’azionamento delle pompe che permettevano di tenere asciutte le miniere di carbone. Da lì il passo alla primitiva meccanizzazione dell’estrazione, con i montacarichi azionati a vapore e del trasporto con le prime locomotive, fu breve. Insomma: maggiore era la quantità di carbone estratto e maggiore diventava la velocità di estrazione di altro combustibile.
Questo feedback positivo si è interrotto solo nella tarda seconda metà del ventesimo secolo, con l’esaurimento delle maggiori vene carbonifere in Europa occidentale e con la completa sostituzione con un combustibile più economico: il petrolio. Allo stesso modo la seconda rivoluzione industriale, grazie al motore elettrico, maggiormente performante a parità di combustibile immesso e con minori costi di mantenimento e costruzione rispetto a quello a vapore, è stata potenziata dalla messa a valore del petrolio e dei suoi derivati, che hanno un potere calorifero maggiore rispetto al carbone.
Ma i giacimenti di petrolio sfruttabili, così come quelli di gas naturale, sono meno diffusi rispetto a quelli di carbone e questo ha portato ad una crescente necessità di infrastrutture: gas/oleodotti, navi petroliere e gasiere. Parliamo di infrastrutture molto più complesse rispetto a quelle richieste dal carbone e con maggiori implicazioni geopolitiche: basti pensare che il famigerato accordo Sykes-Picot è basato sulla necessità da parte di Regno Unito e Repubblica Francese di garantirsi linee logistiche sicure per il rifornimento delle coste del mediterraneo con il petrolio estratto in Siria e Iraq da importare poi nei rispettivi paesi. Per quanto il famoso aneddoto del righello sulla carta geografica ben rispecchi la concezione coloniale, quel righello era mosso ed impostato dalla necessità di controllare una delle commodities più importanti al mondo. Grande allo stesso modo fu poi l’importanza delle linee logistiche per il rifornimento energetico durante la seconda guerra mondiale: cosa sarebbe successo se la Germania hitleriana invece di lanciarsi nell’attacco all’URSS si fosse lanciata nell’assalto alle zone ricche di giacimenti di petrolio in Mesopotamia? Ancora: cosa sarebbe successo se al posto di impantanare l’armata di Paulus a Stalingrado, lo stato maggiore tedesco l’avesse utilizzata per prendere il controllo del Caucaso russo? Nel secondo conflitto mondiale l’importanza della logistica energetica diventa uno dei punti focali del conflitto. La guerra totale impone linee logistiche estremamente lunghe, con tutti i problemi che nella scienza militare questo comporta, e necessità di energia.
Tornando alla più stretta contemporaneità, si pensi al peso delle scelte legate agli oleodotti North e South Stream per gli assetti geopolitici di tutta l’Europa e del Mediterraneo. Il controllo delle linee logistiche dei combustibili fossili sono di pari importanza rispetto al controllo dei giacimenti stessi.
La terza rivoluzione industriale, quella basata sulla telematica e sull’informatizzazione dei processi produttivi, ha poi ulteriormente acuito la necessità di energia. Il processo di decolonizzazione dei decenni immediatamente precedenti ha inoltre intaccato la capacità degli stati maggiormente industrializzati di controllare estrazione e linee di rifornimento dell’energia: questa è, a mio parere, la ragione principale della corsa al nucleare per scopi civili a partire dagli anni cinquanta e sessanta. Non che l’uranio venga dal nulla ma un conto sono le risorse da investire per controllare un’area con miniere da cui estrarre uranio da importare in quantità relativamente contenute e un conto è controllare non solo le aree da cui estrarre combustibile fossili da importare costantemente, ma anche i gas/oleodotti da tenere in sicurezza necessari per garantire il costante rifornimento. Certo, esistono le riserve strategiche, i depositi di combustibile fossile più o meno lavorato che ogni stato mantiene sul proprio territorio, ma queste riserve sono bastanti per pochi mesi.
È facile capire come questo insieme di infrastrutture necessarie per l’uso delle risorse fossili sia estremamente fragile, si estende e ramifica per migliaia di chilometri, ed aumenti la vulnerabilità dell’importatore finale. Basti pensare al famoso shock petrolifero degli anni settanta o a quello che sta succedendo nell’ultimo anno con il prezzo del greggio tenuto al minimo; per altro ci sarebbe da fare un’ulteriore riflessione di come il prezzo del petrolio possa rimanere basso, anche nei periodi in cui non lo appare, scaricando i costi ambientali sulla società tutta. Anche le attuali scelte geopolitiche statunitensi sono segnate dalla necessità di smarcarsi dal pantano mediorientale raggiungendo un’autosufficienza energetica mediante i prodotti di scisto.
La seconda rivoluzione industriale ed il ciclo economico di tutto il novecento si sono basati sulla costruzione di una capillare rete di distribuzione dei combustibili fossili e dell’energia da essi ricavata, gestita in modo centralizzato.
La quarta rivoluzione industriale sarà presumibilmente ancora più energivora, ma potrebbe contenere al suo interno i germi della dissoluzione della centralizzazione energetica. L’emergere di Internet ha generato una economia di scala che ha delle profonde conseguenze su moltissimi piani, tra cui quello dei big data. Come si lega questo con la questione energia? Intanto le reti telematiche consumano moltissima energia elettrica in quanto sono basate essenzialmente sulla trasmissione di segnali elettrici. Secondariamente: i big data, sopratutto quelli legati ai social network, stanno trasformando interamente e sottilmente gli stessi esseri umani in macchine che mettono a valore le loro stesse relazioni sociali.
Paradossalmente l’economia dei big data fonda un’ampia parte dei suoi processi produttivi su energia ricavata da fonti differenti rispetto a quelle abituali: noi non andiamo ad elettricità. I nostri smartphone si, ma essi sono solamente il tramite che mette in comunicazione il nostro cervello con la rete: il nostro cervello funziona tramite energia chimica. In realtà l’intero paradigma dell’Internet of Things, strettamente correlato con i big data presuppone, per svilupparsi al suo massimo stadio, un completo ripensamento del paradigma della produzione di energia basata su combustibili fossili. Non è un caso che un imprenditore come Elon Musk stia investendo nella ricerca di una soluzione, come il progetto delle batterie Powerwall, che diminuirebbe moltissimo la dipendenza da reti di distribuzione energetica a gestione centralizzata, creando batterie collegate a pannelli solari ad alto rendimento sia per uso domestico sia per uso veicolare. Anche altri aspetti della rivoluzione industriale in corso, però, prevedono un aumento dei consumi energetici che i combustibili fossili non sarebbero in grado di garantire nel lungo termine: l’automazione non solo dei processi produttivi ma anche di quei lavori intellettuali, dal trading azionario automatizzato basato su algoritmi genetici a certi lavori giurisprudenziali per l’elaborazione di contratti, dall’analisi automatica delle immagini alle blokchain. Tutto questo prevede l’aumento delle capacità computazionali e di conseguenza un diverso modo di concepire la messa a valore delle risorse energetiche.
In questo si inserisce anche un altro importante aspetto dell’attuale fase della rivoluzione industriale: le nanotecnologie. È evidente che una macchina molecolare non potrà essere alimentata dalla normale rete di distribuzione energetica e le batterie a ioni di litio hanno dei precisi limiti fisici nelle possibilità di miniaturizzazione: anche qua si dovrà andare verso altri modi di sfruttare l’energia chimica – dall’ossidoriduzione degli idrocarburi in grosse centrali ad olio combustibile all’ossidoriduzione del glucosio, o chi per esso, in elementi energetici di dimensioni cellulari, o anche minori.
Questo significa che da qua a pochi anni vedremo i combustibili fossili andare in soffitta? No, affatto: il picco petrolifero è più lontano di quanto si pensasse e le tecnologie sopracitate sono ancora in via di sviluppo. Però le risorse fossili diventano sempre più difficili da controllare a causa della sempre maggiore instabilità sistemica dovuta all’amento di conflitti macroregionali ed il nucleare a fissione ha mostrato tutte le sue possibilità catastrofiche. Se è vero, come ricordano alcuni, che il nucleare a fissione ha fatto meno morti dei combustibili fossili, è anche vero che il nucleare ha la sgradevole caratteristica di potere potenzialmente – e Chernobyl e Fukushima ce lo ricordano – creare incidenti catastrofici che nel giro di poche ore rendono completamente inabitabili interi territori. Anche solo per questo non può essere una valida alternativa ai combustibili fossili, persino non tenendo conto dei costi di gestione altissimi.
Una società basata interamente sulla telematica come quella che si sta delineando ha due basi imprescindibili: la quantità di banda disponibile e la quantità di energia trasformabile in forma utilizzabile. In questo si può delineare un possibile scenario basato sull’energia disponibile da un lato sul nucleare di nuova generazione, basato sulla fusione e non sulla fissione, per i grandi apparati e su una miriade di fonti energetiche che si basano su solare, eolico, chimico. Sottolineo che non sto sostenendo che vi sarà una scomparsa della produzione manifatturiera a favore della produzione cognitiva, ma che la produzione manifatturiera verrà ulteriormente automatizzata: per quanto ne dicano certi teorici le reti telematiche sono qualcosa di molto fisico: cavi, computer di varie dimensioni e apparati di alimentazione.
Attenzione: il rischio di un’illusione accellerazionista, in cui tutte le contraddizioni attuali vengono automaticamente risolte in un ipotetico eschaton immanentizzato, è dietro l’angolo. Se è vero che questo nuovo ipotetico paradigma tamponerebbe la crisi ambientale dovuta al modo di produzione profondamente irrazionale in cui viviamo, è vero allo stesso tempo che potrà anche portare a nuove e più sottili forme di dominio.
All’interno di questo nuovo paradigma, sarà necessario nel senso più stretto del termine aumentare la capacità di incidere nella realtà da parte di chi si pone in una prospettiva rivoluzionaria di superamento radicale dell’esistente. Non può esistere un capitalismo razionale, non può esistere un capitalismo dal volto umano: il capitalismo è per sua natura basato sulla messa a valore dell’esistente, sul valore di scambio e non su quello d’uso e permarrebbe la necessità di uno stato come ente regolatore della moneta e garante della pace sociale. Anzi: la necessità di mettere completamente a valore l’intera esistenza sociale, l’intera esistenza, di ogni individuo sarebbe l’apogeo dell’alienazione.
Uscire da una società basata sull’accumulazione e sul dominio dell’uomo sull’uomo è possibile solo in senso rivoluzionario. Non c’è scappatoia di sorta: nostro è il compito di appropriarci di queste tecnologie e utilizzarle per costruire una società a nostra misura. Le potenzialità della scienza dei sistemi complessi, la cibernetica, sono immense e non possiamo lasciarle nelle mani di un meccanismo basato sulla strutturale alienazione dell’uomo.
Lorenzo Coniglione