Come dicevamo nell’articolo scorso, la manifestazione di Napoli del 5 novembre 2022 era la “terza puntata” dell’idea partita dal Collettivo Di Fabbrica dei Lavoratori Gkn di indire vari momenti unitari di mobilitazione per reagire all’attacco alle condizioni di vita delle classi lavoratrici; in questo caso, era anche specificamente contro la guerra ma, a differenza appunto della manifestazione romana, teneva insieme al discorso antimilitarista anche quello di classe. A bocce ferme alcune considerazioni.
Innanzitutto la partecipazione, decisamente buona per i tempi e soprattutto per un corteo sostanzialmente di lavoratori. Il che non era affatto scontato ed anzi che poteva assai probabilmente essere anche maggiore: una parte di persone che avrebbero potute essere presenti, infatti, non ha partecipato, spaventata dalle condizioni meteo e, soprattutto, dal ricordo della tempesta che aveva squassato la penisola il giorno precedente – ogni spezzone con cui ho interagito lamentava assenze di tutta una serie di persone previste tra i loro simpatizzanti. Inoltre vi era la concomitanza della manifestazione romana che pure, alla fine, ha sottratto ulteriori soggettività e gruppi. Ciononostante, come dicevamo, eravamo in parecchi: forse non i diecimila tondi della dichiarazione finale ma comunque in svariate migliaia.
Il corteo, inoltre, alla fine ha fatto onore al suo appellativo di “nazionale”: gli spezzoni erano effettivamente di varie parti d’Italia – Firenze, Milano, Pavia, Piacenza, Roma, Marche, giusto per citare quelle che mi ricordo – in rappresentanza di realtà sindacali e collettivi politici, che hanno sfilato insieme alle loro similari controparti locali. Tra queste ultime, particolarmente numerosi erano gli spezzoni del SI-COBAS e del Movimento di Lotta dei Disoccupati “7 novembre”; non mancavano le presenze libertarie di varie parti d’Italia, anche se non siamo riusciti a fare uno spezzone rossonero; più per scarsa organizzazione che per mancanza di numeri che forse, alla fine, c’erano.
Sulla qualità del corteo. Alla fine, sono stato più che contento di avervi partecipato, soprattutto dopo che ho visto la riuscita effettiva della concomitante manifestazione romana. I numeri di questa sicuramente sono stati maggiori; l’impressione netta che però ne ho tratto è stata che chi ci è andato in buona fede per manifestare contro la guerra, l’invio delle armi, la russofobia, magari anche contro le politiche di impoverimento delle classi popolari del governo, non è riuscito affatto a comunicare, se non in minima parte, il suo intento. D’altronde, l’ambiguità delle parole d’ordine erano tali che era inevitabile la presenza anche di chi in parlamento ha votato in merito di tutto e di più – Conte compreso, che è passato nella rappresentazione mediatica come il “pacifista” che ha sottratto ad Enrico Letta la leadership del “popolo della sinistra” – con la loro inevitabile sovraesposizione mediatica che ha fatto passare in totale secondo piano le intenzioni dei più. In generale, un’occasione sprecata per manifestare contro il governo e la guerra: “andare dove ci sono le masse” può anche essere giusto in linea generale ma, in contesti come questo e soprattutto dove ci sono alternative, può essere un grave errore.
Le parole d’ordine e le presenze del corteo napoletano, invece, sono state molto più radicali. L’esposizione mediatica è stata certamente minore ma l’effetto comunicativo è stato viceversa certamente maggiore e, soprattutto, sostanzialmente non distorto. Inoltre, la manifestazione romana aveva una connotazione tutta politica e nel senso deteriore del termine: si chiedeva ad altri, alla politica appunto, di fermare la guerra, senza nemmeno una minima connotazione conflittuale (del genere “se non lo fai, allora io…”). La manifestazione di Napoli, invece, portava avanti l’idea di essere un momento tra i tanti di una lotta più complessiva – un “Insorgiamo!”, appunto – un rilancio della mobilitazione popolare contro guerra, carovita e disoccupazione, per la costruzione di un’opposizione sociale e politica alle politiche governative liberiste e guerrafondaie. Il tutto di là di alcune ambiguità che pur persistono – particolarmente nel rapporto con la sinistra CGIL.
Per concludere, citiamo il Marchese de la Palisse – quello che affermava che il giorno prima della sua morte sarebbe stato ancora vivo. È insomma un’ovvietà che occorrerebbero i numeri romani (anzi, di parecchio ancora maggiori) e la chiarezza e giustezza d’intenti della manifestazione napoletana (anzi, con qualche ambiguità in meno e chiarimenti in più); d’altronde, se li avessimo già non saremmo nella situazione pessima in cui ci troviamo ora. È tutto un lavoro da fare.
Enrico Voccia