MCKAY, Adam, Don’t look up, 2021
È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.
(Frederic Jameson)
Don’t look up, film del 2021 con la regia di Adam McKay, interpretato da un cast di prim’ordine, non è certo un capolavoro ma sicuramente un film che ha fatto molto discutere col suo humour nero e la critica serrata alla società dell’informazione e dello spettacolo.
Molti artisti statunitensi del resto hanno sempre avuto successo e arguzia nel criticare la società nella quale vivono, fino a far diventare spesso questa autocritica sferzante un vero e proprio business cinematografico o artistico in senso generale. Questo è spesso un bene ma, a volte, può sembrare un tantino stucchevole, specie se pensiamo a chi crea il danno e a chi poi ne paga lo scotto.
Nel caso specifico, qui siamo di fronte ad un atteggiamento globale. Nell’epoca di Internet, twitter facebook e del talk show incessante, ciò che prevale è lo spettacolo, l’audience, i follower ed i like. Una società dello spettacolo mediata da Internet e dai video youtube.
La domanda di fondo del film è: come reagiremo se sapessimo di sicuro che entro sei mesi un evento catastrofico spazzerà via il pianeta Terra? Mettiamola così: come stiamo reagendo, sapendo che in poche decine di anni gli eventi climatici renderanno i due terzi di questo pianeta inabitabile o peggio? Da appassionato di fantascienza posso dire che questa domanda è già stata posta da una ingente mole di letteratura e filmografia distopica.
Ci daremo da fare, riusciremo a imporre un cambiamento di rotta (mi riferisco all’intero genere umano e non ad una avanguardia o una élite specifica) o ci lasceremo fagocitare dall’informazione ridondante e schizofrenica? Siamo disposti a scendere in piazza, ad assediare i luoghi del potere, a guardare in alto invece di restare a testa bassa, sperando che i nuovi guru dell’informatica e dell’algoritmo o del liberismo risolvano i problemi che loro stessi hanno creato?
La risposta nel film di cui discutiamo è alquanto pessimista ma descritta in maniera talmente assurda da sembrare persino verosimile. Se l’ex presidente USA (in buona compagnia coi suoi omologhi italiani, brasiliani, inglesi ecc. ecc.) negava il riscaldamento globale, adducendo come prova le nevicate invernali di New York, allo stesso modo, il presidente americano nella finzione filmica (una ineffabile e bravissima Maryl Streep), dopo aver inizialmente banalizzato l’evento catastrofico (poiché questo avrebbe influito sulle elezioni di medio termine), accetta di sottoporre il “caso” della meteorite distruttrice all’attenzione pubblica mondiale solo per sviare l’attenzione dallo scandalo che la vede coinvolta col suo amante pornostar.
La metafora è più o meno la stessa. Certo conviene più interessarsi alla storia d’amore dell’idolo adolescenziale, una cantante diventata famosa su youtube, col rapper più in voga del momento, piuttosto che alla distruzione imminente del pianeta. Allo stesso tempo la scienza e l’informazione, gestite da una politica che mira esclusivamente al potere ed al profitto, dà luogo a distorsioni subdole che spianano la strada a teorie complottiste e negazioniste.
Il merito del film è stato proprio questo: mettere in risalto tutte le contraddizioni nella quale il potere stesso, come in una colonia penale kafkiana, è troppo occupato ad affinare e testare le sue armi riproduttive, da restarne alla lunga intrappolato.
Non mi dilungherò sulla trama, poiché molti avranno già visto o sentito parlare del film. Il professore Randall Mindy e la studentessa in astronomia Kate Dibiasky fanno una straordinaria rilevazione: una cometa entra all’interno del sistema solare e secondo calcoli scientificamente attendibili, entro sei mesi colpirà la Terra con un evento definito “da estinzione”, a meno che i paesi del mondo, con gli Stati Uniti in testa, non si coalizzino per intervenire in qualche modo.
Per usare le parole di Di Caprio che interpreta il professor Mindy: “Se dovessi descrivere Don’t Look Up in poche parole, direi che il film fa un’analogia sulla cultura di oggi e sulla nostra incapacità di ascoltare le verità scientifiche”. Incapacità che non è semplicemente frutto di ignoranza, bensì di una coscienza fagocitata dal potere che, nel gestire ogni tipo di emergenza, utilizza il doppio binario del “lasciate fare che ci pensiamo noi e tutto si risolverà” e della disinformazione distraente.
La gestione della pandemia infatti, come dicevamo sopra, è stato uno degli esempi a noi più vicini del danno creato proprio da chi poi si erge a improbabile risolutore. In questo senso possiamo tranquillamente sostituire , fuor di metafora, al termine “Cometa” , quello di crisi climatica, disastro ambientale, aumento delle diseguaglianze. Il senso del discorso non cambia ai fini dell’interpretazione del film.
Come dicevo prima : nulla di originale. Poteva tranquillamente trattarsi di una puntata di Black Mirror magari seguita solo dagli appassionati del genere. Da questo punto di vista, va dato atto al regista, molto sensibile ai temi ambientali, di aver allargato la platea sensibile alle tematiche della distorsione tecnologico informatica tanto care a Charlie Brooker.
Il messaggio che dal nostro punto di vista va colto è semplice e per certi versi persino banale: immaginare che gli stessi personaggi oggi al potere possano risolvere d’un tratto i mali irreversibili che loro stessi hanno contribuito a creare è come tentare di spegnere gli incendi con la benzina. Affidarsi poi alla sociopatia e all’autismo congenito dei guru dell’informatica e dell’algoritmo, risulta essere ancor più devastante.
Se lo humour nero si è rivelato adatto a descrivere l’assurdità e il grottesco, viceversa il pessimismo di fondo che ci vede andare ciechi e impotenti verso l’ineluttabile, dove forse solo una manciata di privilegiati possono sperare vanamente di salvarsi, rivela un disfattismo che alla lunga dà la sensazione della facile scappatoia. Verrebbe da dire che, tanto per citare un maestro della distopia, l’esistenza di una maggioranza (vittima e carnefice allo stesso tempo) implica l’esistenza di una minoranza corrispondente.
Si moltiplicano nel mondo le iniziative pratiche e di denuncia contro la desertificazione e la devastazione ambientale, senza mediazioni con nessuna istituzione che predica una ingannevole transizione. Dall’India all’ Africa, Europa, Sud e centro America molte popolazioni, investite in maniera drammatica dai cambiamenti climatici, stanno già , con tutti i limiti del caso, proponendo e realizzando soluzioni che dimostrano come ci vuol poco a vivere in armonia con la natura e con l’ambiente, senza rinunciare ad una vita piena e realizzata. Basta pensare agli sforzi ecologisti delle comunità curde, zapatiste , alle comuni urbane di Oxaca in Messico e alle tante esperienze piccole e grandi che si trovano nel nostro territorio.
Non è necessario essere anarchici o comunisti o ambientalisti radicali per capire che solo dagli esempi virtuosi, seppur limitati, possiamo trovare gli spunti necessari per un cambiamento di rotta concreto, ormai sempre più necessario oltre che possibile – prima di accorgerci che, assuefatti a guardare le punte delle nostre scarpe, nel frattempo dall’alto un enorme asteroide ci sta cadendo proprio in testa.
Flavio Figliuolo