Di padrone in padrone. A volte ritornano

Il ritorno di Trump, con la sua corte di buffi reazionari, pone delle interessanti questioni: se da un lato vi sono delle continuità palesi con l’amministrazione Biden, come ad esempio la gestione militarizzata del confine con il Messico, dall’altro lato possiamo vedere degli elementi di discontinuità sia nel rapporto con le minoranze che nel rapporto con i paesi alleati.
La presidenza Obama aveva fatto di questi due punti dei caratteri distintivi: ricostruire un patto sociale negli Stati Uniti con il governo federale che si pone come garante delle minoranze – afro-americani, latinos, ma anche persone LGBTQ – e superare quell’eccesso di unilateralismo statunitense entro i paesi del Patto Atlantico che aveva cagionato importanti rotture, con Francia e Germania – i due paesi che insieme all’Italia detengono le “quote di maggioranza” della UE – in primis, durante le presidenze Bush.

Dopo la prima presidenza trumpiana la presidenza Biden aveva ripreso la retorica di Obama ma adottando un approccio muscolare per riportare obtorto collo la Germania completamente entro il recinto atlantista, distruggendo l’ost-politik merkeliana. Se Trump da un lato potrebbe – e ci teniamo a sottolineare l’uso del condizionale – imporre una fine del conflitto russo-ucraino, ma non per forza nei termini sperarti da Mosca e dai suoi sostenitori, dall’altro obbligherà i paesi europei a farsi carico della propria difesa. Se da un lato questo si pone in continuità con la strategia statunitense dell’europeizzare il conflitto, e in questo il maggior coinvolgimento della Germania, anche solo come base industriale per la produzione bellica, è fondamentale, dall’altro questa strategia cambia tono e approccio. Abbandonate le buone maniere diplomatiche dei democratici arriva un rozzo palazzinaro con i modi del padrone di casa che viene a esigere l’affitto: di quelli che aumentano la pigione dopo avere tagliato il riscaldamento.

Una discontinuità non solo di forma in quanto impone una visione molto più gerarchica dell’atlantismo.Una spiegazione a questo comportamento è che la classe dirigente statunitense vuole rafforzare le proprie posizioni in vista di un possibile conflitto, più o meno aperto, con la Cina. Chiudere la fase calda del conflitto con la Russia, che oramai ha subito la distruzione della sua capacità di proiezione di potenza con la flotta del Mar Nero incapacitata dagli attacchi ucraini, l’esercito impantanato nel Donbass, l’aviazione in crisi e le basi siriane inutilizzabili, e demandare la gestione dello stesso ai paesi UE significa poter concentrare le forze statunitensi negli scenari che più preoccupano la classe dirigente statunitense: indo-pacifico e artico (da qua l’ossessione trumpiana per la Groenlandia).

L’isolazionismo può essere anche un modo per meglio prepararsi a una guerra e non ci sarebbe da stupirsi se a questo isolazionismo si accompagnasse una nuova dottrina Monroe per cementare il controllo USA sull’intero continente americano. Indizi in questo ve ne sono in abbondanza, in primis il diktat a Panama per il controllo del Canale.

Per quanto concerne lo scenario del Levante possiamo immaginare un rilancio degli Accordi di Abramo, che però dovranno passare dalla risoluzione del nodo palestinese, cosa su cui i Sauditi sembrano puntare molto anche per potersi ri-qualificare agli occhi dell’opinione pubblica degli altri paesi arabi, e bisognerà vedere quanto, al di là della retorica di certi personaggi della corte trumpiana che paiono porsi a destra di Ben Givir, Trump deciderà di tenere conto delle pressioni saudite in tal senso. Non è affatto detto che Netanyau abbia fatto il calcolo corretto puntando su Trump per garantire la sua sopravvivenza politica. Sicuramente aumenta grandemente la possibilità che si arrivi a un coinvolgimento militare diretto degli USA nella guerra contro l’Iran.
Fino a ora gli USA non hanno fornito gli armamenti necessari a Israele per colpire in autonomia i siti nucleari iraniani e si sono dimostrati riluttanti a fare il fatidico passo. Ma con le capacità di difesa anti-aeree iraniane estremamente indebolite dall’ultima operazione israeliana e l’asse della resistenza che si è disintegrato sotto i colpi dell’IDF (Hamas ed Hezbollah ridotti ai minimi termini militari e la perdita dell’importante alleato siriano) è possibile che a Washington l’urgenza di chiudere una volta per tutte la partita iraniana si faccia sentire: la massima maoista del bastonare il cane che affoga si può applicare anche a una ierocrazia.

È anche estremamente probabile che aumenti la pressione degli insediamenti in Cisgiordania.

In definitiva possiamo ipotizzare una certa continuità di direzione in termini di politica estera (europeizzazione del conflitto con la Russia, ridispiegamento strategico in funzione di contenimento della Cina, una qualche forma di Pax Americana in Levante) con una discontinuità nella forma (un’egemonia caratterizzata da un certo autoritarismo nel rapporto con gli alleati, maggiore disponibilità a un conflitto aperto con l’Iran). Se gli elementi di continuità sono sicuramente rilevanti gli elementi di discontinuità lo sono altrettanto. Le alleanze statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale si giocano su tre livelli: un primo livello di paesi alleati costituito dagli altri paesi anglosassoni, un secondo livello di altri paesi come Francia, Germania, Italia, Giappone, un terzo livello da paesi che con la potenza egemone hanno un rapporto più esplicitamente clientelare. Le modalità Trumpiane sembrano volere ridurre a questa terza categoria gli alleati, o almeno parte di essi, del secondo livello. Le classi dirigenti europee sono sicuramente preoccupate da quest’evoluzione ma finiranno per adeguarsi.

La classe dirigente italiana a guida Fd’I è già corsa a genuflettersi davanti al nuovo padrone.

Per quanto riguarda la politica interna invece possiamo rilevare dei forti elementi di discontinuità. Come dicevamo la politica di Obama prima e di Biden poi è stata caratterizzata dal tentativo di ricostruire un patto sociale con le componenti marginalizzate della società statunitense: in questo solco si inseriscono le politiche di inclusione di afro-americani e latinos e verso le persone LGBTQ. Questo è avvenuto sia offrendo forme di protezione federale dagli elementi più reazionari del suprematismo bianco che sponsorizzando le così dette affirmative action, ma anche con l’avvio di azioni anti-trust nei confronti dei giganti del Web come Google e, in generale, un approccio maggiormente sensibile alle rivendicazioni dei lavoratori (ricordiamo che negli USA nell’ultimo decennio si è assistito a un’importante ripresa delle lotte sul lavoro).

Giova ricordare che tali politiche democratiche non sono avvenute per gentile concessione di una classe dirigente particolarmente illuminata ma sono il tentativo, apertamente teorizzato, di ricostruire un patto sociale in una situazione che rischia di divenire esplosiva e una risposta alle importanti mobilitazioni dei lavoratori e alle insorgenze sociali come quella di Ferguson o la Floyd Rebellion.

La presidenza Trump con il suo codazzo di reazionari sta già imponendo un cambio di passo importante. Si va verso un rafforzamento delle strutture repressive, degli apparati di sorveglianza, in cui tutte le aziende del settore tecnologico hanno da guadagnare, di attacchi deliberati e feroci nei confronti delle persone LGBTQ e di quella componente irregolare della forza lavoro costituita da immigrati latinos. A questo possiamo aggiungere un approccio maggiormente orientato alla tutela degli interessi padronali e possiamo aspettarci lo sdoganamento a livello federale di gravi pratiche anti-sindacali così come un incremento dell’estrattivismo, senza più neanche la foglia di fico della “green economy”. Ricordiamo che l’aumento della produzione dei combustibili statunitensi fossili è stato un elemento centrale già della politica di Obama che ha permesso di sganciare gli USA dal pantano iracheno.

La sconfitta di Trump nel 2020 si è giocata sul tema della pessima gestione della pandemia, la stessa pandemia che ora il padronato di ogni latitudine fa finta che non sia mai esistita in quanto evocarne lo spettro significa parlare di quanto l’attuale ordine sociale sia irrazionale ed esposto a catastrofi, e sull’avere creato eccessive divisioni entro la società statunitense. La sua vittoria nel 2024 si è giocata sull’inflazione galoppante e una classe media bianca che non riesce a uscire dalla crisi. Al momento Trump è in una posizione di forza ma non sarebbe il primo presidente statunitense che inizia galoppando il mandato per poi trasformarsi in un’anatra zoppa alle elezioni di mid-term.

La componente liberal-progressista della classe dirigente europea sta già agitando lo spettro del trumpismo per rilanciare forme di sacra alleanza contro gli orridi reazionari trumpiani delle nostre latitudini; questi gongolano soddisfatti sperando di potere replicare le gesta di Trump. Le dinamiche dello scontro tra le diverse fazioni della classe dirigente sono sempre interessanti da analizzare ma sperare di trovare una soluzione ai nostri problemi entro quelle dinamiche significa sperare che il padrone usi un manganello più morbido in luogo di uno più pesante.

In un mondo in cui alle tensioni tra i diversi progetti imperialisti si unisce una sempre maggiore sperequazione sociale, un rafforzamento delle politiche autoritarie, il convitato di pietra della crisi climatica e il sempre maggiore rischio di ricorrenti pandemie, si aprono delle sfide che è necessario affrontare con il necessario piglio, senza illudersi che una componente della classe dirigente sia migliore o peggiore dell’altra.

lorcon

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