Crisi climatica e azione diretta – Scambiare pratiche lotte e conoscenza

Il fallimento della rappresentanza istituzionale ed eletta aiuta l’azione dal basso.

È notizia di questi giorni che nei suoi prossimi programmi di ricerca la Commissione Europea sostituirà al Green Deal il Clean Industrial Deal: l’UE mobilita 100 miliardi per l’industria europea. La Commissione intende anche rafforzare il Fondo per l’innovazione e propone una Banca per la decarbonizzazione industriale. Ci risiamo: quando si parla di “banche” è chiaro che vada tradotto in “denaro dei contribuenti”, prelevato con opportune tassazioni mirate alla transizione “green” (quindi più facili da accettare!), dirottate su istituti e fondi di finanza privata e messi a disposizione di industrie, anch’esse private. E quando si parla di ambiente il gioco è ancora più facile… Il solito principio, comune alle grandi opere, per cui, con modifiche in finanziaria, si dirottano fondi pubblici e denaro dei cittadini nelle mani di pochi imprenditori e padroni della finanza e grandi gruppi industriali. Già visto, grazie.

Per noi che facciamo ricerca attraverso misurazioni dirette e accurate di parametri atmosferici, terrestri e marini, questo significa praticamente vedere interrotte le maggiori fonti di finanziamento dei progetti scientifici che stiamo seguendo. Progetti che, per cogliere le variazioni climatiche, devono necessariamente essere di lunga durata, per separare un fenomeno a breve termine di tipo meteorologico dagli effetti a lungo termine del cambiamento climatico. (Giusto per chiarire a quelli del “ma ha sempre fatto caldo” e “vedi che inverno freddo e piovoso che abbiamo quest’anno…).

Insieme alle decisioni della UE, anche la COP 29 di Baku in Azerbaigian è stata, come prevedibile, un fiasco. Anzi, si può dire che sia stato perfino un evento controproducente, dove ai mancati finanziamenti sostanziali per azioni di mitigazione, soprattutto nelle nazioni in sviluppo, si sono accompagnate inversioni di rotta sui combustibili fossili e negazionismo diffuso. Le critiche alla COP29 non provengono solo dall’attivismo: Manuel Pulgar-Vidal, responsabile globale Clima ed Energia del WWF presidente della Cop20, ha dichiarato: “Il mondo è stato tradito […] In un momento cruciale per il Pianeta, questo fallimento minaccia di far regredire gli sforzi globali per affrontare la crisi climatica e rischia di lasciare le comunità vulnerabili esposte a un’escalation di catastrofi climatiche. Anche il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha detto: “Avevo sperato in un risultato più ambizioso”. Insomma, se le rappresentanze delle varie nazioni fossero rimaste a casa, sarebbe paradossalmente ma realmente stato meglio.

Questi fallimenti delle rappresentatività governative, ennesimi e ovvi, forniscono argomentazione solida, urgente e crescente per azioni dal basso. Il cambiamento climatico richiede chiare azioni e urgenti piani di mitigazione: concetto ora più che mai spendibile anche a livello mediatico, per far aumentare il dissenso verso governi che voltano le spalle a un problema quotidianamente avvertito sia a livello globale che locale. Cogliere il momento per rilanciare l’azione autogestita e diretta sui temi legati al cambiamento climatico non solo risulta importante per il tema stesso, ma aiuta a mettere a nudo l’inefficacia della delega, delle conferenze diplomatiche e politiche e dei loro stessi partecipanti.

Un problema di origine capitalistica non può avere una soluzione capitalistica.

Il riscaldamento globale e la sua accelerazione sono causati principalmente dalle emissioni collegate alle attività umane: industriali, di trasporto e alimentari. Tre fattori strettamente legati all’impulso-compulsivo verso l’impraticabile crescita infinita. Che in politica ed economia siano ancora presenti indici matematici e numerici che vedono la crescita della produzione, del consumo e del capitale come un fattore indispensabile al benessere collettivo è dimostrazione di come il capitalismo, al pari delle religioni, sia riuscito a introdurre dogmi utili a indirizzare le classi dirigenti e guidare comportamenti decisionali e scelte collettive. La necessità di azioni di mitigazione, osteggiata nei primi momenti sia dalla finanza sia dalla cittadinanza, è ormai ora un fatto appurato che il capitalismo ha imparato a cavalcare con agilità e destrezza. E sempre al pari delle religioni, si “evangelizza” la persona e il “decision making” verso comportamenti virtuosi che incrementano astutamente e con tempismo il giro di affari del “green”. Con due risultati di rilievo: aumentare la produzione e convincere il “consumatore” di avere fatto una cosa giusta e di tenerci all’ambiente. Si vedano le sempre maggiori operazioni di “green washing” sbandierate da quasi tutte le multinazionali.

Il capitalismo quindi che si sostituisce al non-decisionismo politico, dal quale però trae legittimità normativa, offrendo soluzioni e strategie di mitigazione: i continui cambi di categoria nei mezzi di trasporto che, con l’aiuto di limitazioni nella circolazione di categorie precedenti, portano a sbarazzarsi di veicoli perfettamente funzionanti verso l’acquisto imposto di nuovi modelli; la pur benvenuta elettrificazione, che comunque sposta solo il problema, con costi accresciuti e a carico dell’utenza, data la cronica assenza di sistemi di produzione elettrica non clima-alteranti; le tassazioni crescenti e capillari che coinvolgono chiunque possieda un sistema di riscaldamento o di piccola produzione artigianale; fittizi miglioramenti delle classi energetiche degli edifici che portano a declassare immobili più vecchi, portando fuori parametro e conseguentemente fuori mercato piccole case e borghi facilmente recuperabili (se non dove il restauro è per pochi e porta a trasformare antiche dimore in beni di lusso). Tutto questo e molto altro.

Azioni “green” che se da un lato portano un contributo minimo a ridurre gli impatti diretti clima-alteranti, dall’altro causano effetti “indiretti” ben più gravi: la sostituzione di un veicolo funzionante ma meno “prestante” in termini di inquinamento con uno elettrico è accompagnata da impatti ambientali (consumo di risorse, trasporti, generazione di gas clima alteranti) certamente superiore a quanto emesso portando a reali fine vita il veicolo esistente. Considerazione applicabile alla quasi totalità delle iniziative, ma ovviamente ben celata.

Lontano dal porre in atto serie azioni di mitigazione, l’azione capitalistica è così improntata per natura ad accrescere e aggravare il problema, rifiutando sistematicamente ogni inversione nei livelli di produzione e consumo. Il rallentamento della crescita sino a una sua sostenibile inversione è così l’unica soluzione seriamente adottabile, pur insieme a transizioni energetiche condivise, per avviare concrete ed efficaci contromisure immediate. Una consapevolezza che deve permeare l’azione diretta individuale e di gruppo e non essere relegata a pochi movimenti e alcuni “portavoce” politici o ad alta notorietà.

Ascoltare, comprendere e collaborare con la scienza

Che sia in atto un cambiamento climatico con un’accelerazione senza precedenti, da quando il pianeta è abitato da forme di vita strutturate in comunità, è un dato ormai privo di dimostrazioni opposte. Le estese analisi e i risultati cui è pervenuto il lungo lavoro della comunità climatologica portano a una conclusione unica: il clima sta cambiando a una velocità tale per cui le forme di vita vegetali e animali (inclusa quella umana) vengono poste in seria difficoltà di adattamento. Adattamento fisico, chimico, biologico, sociale e migratorio sono a rischio, sottoposti a forzanti indotte dalla produzione industriale, alimentare e trasportistica sempre più energivora. Variazioni di concentrazioni di elementi (CO2 in primis, in atmosfera e nei mari) e pochi gradi in più di aumento delle temperature atmosferiche, marine e del suolo portano a collassi repentini e imprevedibili in un sistema regolato da equilibri stabili ma altrettanto caotici. Ricerche e studi sul clima, mai abbastanza supportati e sovvenzionati rispetto ad altre discipline tecnologiche e belliche, basano le loro analisi su una comunità di ricerca competente, distribuita e in continuo contatto e confronto. Con il nostro gruppo di ricerca ci siamo trovati in numerose occasioni a osservare “di persona” fenomeni ed effetti diretti del cambiamento climatico. Come quella volta che siamo andati a controllare dei termometri utilizzati per misurare il residuo di ghiacciai ormai sotterranei (la parte esterna era ormai sparita) in una valle del cuneese. I tecnici, sorpresi di non osservare più il valore stabile di 0 °C (tipico della fusione estiva e ri-congelamento invernale) sospettavano un malfunzionamento degli strumenti. Che purtroppo abbiamo dimostrato funzionare bene. Era sparito il ghiaccio (permafrost). Oppure alla base artica, luogo “abitato” più a nord del pianeta, dove dei colleghi tedeschi esperti in rilevazione del particolato un giorno a pranzo ci dicono “deve aver preso fuoco una raffineria in Russia”. Stupiti, chiediamo spiegazioni. Gli strumenti erano in grado di misurare il particolato con una tale sensibilità da discriminare una lavorazione petrolifera tipica delle raffinerie russe e, incrociando con i dati mete, perfino localizzarne la provenienza. Particolato che, insieme a tutti i componenti delle regolari “nostre” combustioni (riscaldamento, industria, trasporti, agricoltura…) andavano ad “annerire” ulteriormente ghiaccio e neve in artico, riducendone la capacità di riflettere i raggi solari e amplificando gli effetti locali del global warming. Stiamo parlando di un riscaldamento che, se a livello globale ha raggiunto circa 1,5 °C in un secolo, in artico arriva a 1.35 °C … ogni decennio. Dati gravemente preoccupanti, registrati da strumenti che vengono curati nei minimi particolari, con procedure rigorose. Se vi capita di fare una gita alle grotte di Bossea (altamente consigliato) nel cuneese, troverete un altro tipo di analisi climatologica particolare e di estremo interesse. Nelle grotte, dove possiamo fare misure di temperatura non disturbate dalla radiazione solare, dal vento, dalla pioggia e dalla variabilità meteorologica, attraverso termometri di altissimo livello, stiamo osservando un segnale (ai centesimi di grado) anch’esso inequivocabilmente diretto “verso l’alto”. Insomma esperimenti in prima persona,che fanno parte dei lavori di un’estesa comunità. La stessa comunità che produce le decine di migliaia di analisi e pubblicazioni costantemente analizzate in modo critico e rigoroso da iniziative mondiali in seno alle Commissioni internazionali di climatologia della World Meteorological Organization (WMO), dal Global Climate Observing System (GCOS) e dall’International Panel on Climate Change (IPCC).

Lontano dall’essere in mano a lobby di interesse, come talvolta anche sostenuto all’interno di alcuni movimenti e pensieri che sfociano in un pericoloso negazionismo a priori, scienziati e autori IPCC vengono sovente screditati. È il caso forse più eclatante è anch’esso da ricondursi all’ambito delle COP, dove alla 28° edizione (Dubai 2023) il presidente ha sostenuto che non vi è alcuna evidenza circa la necessità di ridurre al massimo aumento di 1.5 °C l’innalzamento della temperatura media, rispetto ai valori pre-industriali, riducendo sino all’eliminazione l’utilizzo dei combustibili fossili. Del resto, se come presidente di una COP si nomina il Sultano Al Jaber, CEO della compagnia petrolifera statale degli Emirati Arabi, è il minimo che ci si possa attendere. Replica puntuale un anno dopo, alla COP29, dove l’Arabia Saudita, senza portare controprove solide, ha categoricamente negato la validità dei lavori dell’IPCC. Esternazioni ormai sdoganate senza vergogna, di stampo negazionista e reazionario, simili all’altrettanto rifiorire di esternazioni di stampo fascista e nazista cui si assiste quotidianamente su temi vari a livello nazionale e internazionale. Ulteriore allarme e urgenza per iniziative improcrastinabili di risposta culturale e di azione collettiva e individuale.

Verso un’irrobustita consapevolezza e azione

La maggiore permeabilità tra le comunità scientifiche e le iniziative dal basso fa certamente da terreno fertile per incrementare la consapevolezza, creare conoscenza e motivare rinnovate iniziative. Esempio emblematico in corso, tra tanti, la presenza di tecnici, ingegneri, economisti e scienziati nel movimento NO TAV. Il supporto di solide basi tecniche e scientifiche ha da sempre garantito l’allargamento della partecipazione alle iniziative del movimento, la sua radicalizzazione fuori dal limite del territorio interessato e il perdurare nel tempo, stante la permanenza delle motivate ragioni fondanti l’opposizione. Un dialogo continuo, da mutuarsi più in generale sui temi legati al cambiamento climatico, sviluppatosi in costanti momenti di dibattito e ascolto, dove i tecnici hanno sempre l’opportunità di aggiornare su aspetti sia ingegneristici sia economici, puntualmente utili a irrobustire e aggiornare le reali ragioni del “NO”. Una sorta di “scienza al servizio delle iniziative”, ma al contempo una platea a cui la scienza può rivolgersi e da cui ricevere indietro opinioni, cultura e indirizzo.

A livello locale o su ampia scala, vanno incrementate le iniziative di presentazione dei dati più recenti sul risultato dei lavori che meglio evidenziano la gravità dei mutamenti climatici. A livello ampio e transnazionale, con rassegne di iniziative sui temi in oggetto. A livello locale, saranno molteplici le possibilità di informare e sensibilizzare singoli e comunità sugli effetti e i danni, ormai tangibili sul territorio, sull’agricoltura, sulla biodiversità e sugli ecosistemi. Soprattutto in un contesto di eventi estremi in via di intensificazione nella loro frequenza e gravità. Potranno inoltre scaturirne iniziative di “citizen’s science”, dove in ulteriore apporto alle (mal finanziate) attività di ricerca sul clima si potranno aggiungere studi personali o di piccole comunità autogestite: dalla misura di spessore ed estensione dei ghiacciai alpini, all’osservazione della fauna marina, dalla fenologia (studio del comportamento di determinate piante), all’analisi di impatto di determinate attività.

Da istanze locali a contesti globali molti sono gli spunti per l’unione delle azioni dirette e la critica radicale alla connivenza tra rappresentanza politica e capitalismo. Rinnovare e intensificare l’interazione tra la scienza e la conoscenza diretta dei fenomeni non potrà che incrementare l’efficacia di ogni iniziativa e azione diretta.

Andrea Merlone – Torino

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