Prima di analizzare lo stato di salute dell’anarcosindacalismo sarebbe bene provare a definirlo e già iniziano le prime difficoltà. È il “fare” sindacato delle anarchiche e degli anarchici? Sì e no: ci sono militanti libertari che preferiscono forme di organizzazione sindacale concertative (vedi i confederali) o sigle sindacali di base che non sono strettamente riconducibili all’agire sindacale libertario e alle sue forme organizzate, che in Italia hanno nell’USI-CIT la sua unica espressione.
Questa è senz’altro una contraddizione – in cui si privilegiano sindacati che contribuiscono all’attuale sfacelo sociale e che hanno modalità organizzative autoritarie, centralizzanti o leader “a vita” – e/o una manifestazione di debolezza del movimento – si preferiscono certune sigle altre perché ritenute più efficaci – e/o un derivato di diatribe storiche.
Molto più realisticamente, possiamo intendere per anarcosindacalismo quell’agire, legato alle lotte – o almeno, al tentativo di autodifesa – di classe, che è caratterizzato da modalità organizzative orizzontali e si prefigge, in astratto, un obbiettivo di trasformazione sociale radicale in senso libertario. Ciò detto, veniamo alla situazione attuale, che non è certo molto rosea.
Innanzitutto, la diaspora di molt* militant* in altre sigle toglie senz’altro energie ed intelligenze importanti al sindacato libertario. Potremmo arrovellarci per giorni sui motivi di queste scelte ma risulterebbe foriero di polemiche e avvitamenti. Però resta il fatto. In secondo luogo, l’anarcosindacalismo risente inevitabilmente della situazione più complessiva che vede tutte le istanze di classe, più o meno annacquate, in posizione di forte arretramento, a causa dello strapotere della controparte padronale e politica.
A questo siamo arrivati con progressiva gradualità, a partire dalla fine degli anni ’70, in cui il sindacalismo confederale non ha saputo reagire alla reazione confindustriale, la tendenza si è poi accelerata negli ultimi vent’anni abbondanti, in cui il paradigma liberista ha trovato spazio politico, sociale e culturale per distruggere prima ogni prospettiva di trasformazione del sistema politico ed economico, poi per annichilire ogni istanza di classe. Se chi poteva contare su un consenso vasto è stato sconfitto, chi invece era già più minoritario e oltretutto frastagliato da scelte altre ha risentito ancora di più della sconfitta.
L’USI infatti, dalla sua riorganizzazione fino ai primi anni 2000, è stata un’entità meritoria ma, va detto con umiltà, numericamente esigua e scarsamente presente nel mondo del lavoro. C’erano senz’altro alcune realtà interessanti nella sanità soprattutto milanese e anche triestina (e non solo) ma, il resto, era essenzialmente a macchia di leopardo e intervento più politico che sindacale, se non testimoniale.
Gradualmente, dagli anni 2000, qualcosa è cambiato, senza per questo millantare masse che non ci sono o vittorie trionfali. Una generazione di nuovi militanti, a partire dai nuclei già presenti a Milano o riformatisi in Emilia e Toscana, ha iniziato a svecchiare il sindacato, nelle forme organizzative interne, nell’assunzione di responsabilità, nell’apertura a stimoli e interventi nuovi – si pensi a Solidarietà Autogestita – ma, dove si era in presenza di nuclei di lavoratori reali e radicati, a porre in modo centrale le questioni di classe in alcune aziende e settori: la Sanità senz’altro, ma soprattutto nelle cooperative Sociali e, da qui, cercando di intervenire in altri ambiti come possibile.
Questo protagonismo ha investito pure l’organizzazione internazionale, tanto che nel 2018 a Parma, concretizzando un percorso iniziato qualche anno prima, si è costituita la nuova Internazionale anarcosindacalista e sindacalista rivoluzionaria, la CIT, unendo i maggiori sindacati anarcosindacalisti mondiali ad altre realtà prime esterne, tra cui l’IWW-NORA.
Infatti, da alcuni anni, la storica AIT era diventata un organismo totalmente burocratico, un “votificio” in cui un blocco di potere costituito da sezioni “nazionali” di 6-20 persone (sic), unite tra loro, di fatto impediva ogni dibattito e intervento sindacale, vivendo in un clima di paranoia, settarismo contraddistinto da continue espulsioni.
Quando la FAU tedesca fu espulsa a causa di una lotta congiunta con la SAC svedese – a sua volta espulsa anni prima – le organizzazioni più numerose e radicate – CNT spagnola, FAU, USI, FORA argentina – ritennero definitivamente terminato questo percorso, fatto di tante bandierine ma poca sostanza.
I limiti oggi restano e sono tanti. Ogni spazio di intervento, già ridotto, è fortemente limitato da accordi che escludono un sindacato come l’USI, dalla difficoltà nell’ottenere vera rappresentanza aziendale, dall’impossibilità di partecipare alle elezioni delle RSU nel privato, da leggi sempre più restrittive. Se USI piange, non è che il resto del sindacalismo di base rida: le difficoltà sono le medesime.
La differenza la fanno due aspetti: da un lato la consapevolezza che “offrire servizi” ai lavoratori è necessario e inevitabile se si vuole essere utili e credibili, dall’altro i differenti modelli organizzativi: va da se che chi ha l’obbiettivo di lavoratori/trici coscienti e che si muovano sempre senza delegare ma in prima persona, fa più fatica rispetto a chi propone soluzioni preconfezionate. Se il secondo aspetto è inevitabile per USI, non volendo tradire metodi e principi, sul primo invece ci si sta lavorando, e non è un caso che laddove vi sia un’organizzazione territoriale reale USI questa goda di consensi – relativamente – estesi e credibilità.
La pandemia ha reso il quadro ancora più evidente perché, a causa dell’insicurezza sanitaria, gli spazi di manovra si sono ulteriormente ristretti e, per un sindacato che vive di intervento in prima persona, di presenza “fisica”, di azione diretta, ciò è ancora più penalizzante.
A parere di chi scrive il sindacalismo di base tutto durante i primi mesi di pandemia ha spesso rappresentato localmente uno dei pochissimi argini dal basso al caos totale per molti lavoratori: ci si è attivati per dare informazioni, per pretendere il rispetto di diritti fondamentali (tra questi la sicurezza), per dare aiuto concreto. Insomma, il sindacalismo di base, nonostante indubbi limiti, ha avuto un ruolo più importante di realtà politiche che sono rimaste di fatto spiazzate.
Se il capitale, superato lo shock iniziale, è riuscito presto a riorganizzarsi per affrontare la pandemia trovando anche situazioni di ulteriore vantaggio, il mondo dell’antagonismo politico, sociale e sindacale continua a muoversi in un contesto sempre molto difficile. L’USI nel piccolo ha rispecchiato ciò che si è manifestato sul piano più vasto, con tutta la sua generosità, limiti e contraddizioni.
Ora, che fare? In primo luogo, c’è da crescere: certo come iscritt* ma in primo luogo come credibilità tra i lavoratori: se non si vogliono CAF e patronati interni per motivazioni ideologiche, si facciano convenzioni, perché inutile raccontarsi balle: tutt* abbiamo bisogno di sostegno in questi aspetti, e quindi andrebbero affrontate e gestite le modalità di intervento. È analogamente importante continuare il percorso di apertura lontani da ultrapurismi parolai e da logiche settarie: la collaborazione – mai servile – con gli altri sindacati di base, così come si è visto nell’ultimo sciopero generale di ottobre, lo dimostra. In ultimo, vanno affrontati con coraggio i nodi politici dirimenti del periodo: tra questi la libera e reale rappresentanza nel mondo del lavoro, scoglio su cui il sindacalismo di base sbatte inesorabilmente, oggi inesistente perché blindata da leggi neanche lontanamente democratiche volute da stato e padroni in interessata sintonia col sindacalismo concertativo.
La vera scommessa però è fare sì che gli ideali e le pratiche libertarie vengano avvertite come non solo importanti ma utili, in costante sintonia tra pensiero e azione. Solo così, ci si potrà difendere meglio, e contrattaccare, dalla voracità di Stati e padroni. La volontà non manca.
Massi