Verrebbe da pensare che l’ha fatto apposta ad andarsene – Lui, anarchico – il giorno di Pasqua che per i credenti è quello della resurrezione. Ma Peppe Pangallo, che non credeva ai preti, non era neanche il tipo da fare dispetti (figurarsi quelli impossibili!) e per cui resta solo la fatalità della sorte che ha voluto togliercelo in un giorno che ricorderemo meglio. Con Peppe se ne va l’ultimo anarchico di Africo, il più coerente e il primo ad essere accompagnato con le bandiere (anarchiche) e non dietro la croce di un prete.
Nelle scelte di campo fatte sin da ragazzino si schierò con quella parte dei coetanei che ripudiavano la “drittizza” come valore ma che, non essendo neanche disposti a subirla, fecero gruppo e arginarono i prepotenti. E quando questi diventarono picciotti di ‘ndrangheta e strumenti per interessi di parte, Peppe entrò a far parte del gruppo anarchico che li contrastava per tutt’altri valori e progetti.
In una Africo che nel bene e nel male traboccava di vitalità giovanile, partecipò a tutte le lotte per il lavoro e i diritti, e in particolare alle memorabili tre giornale di rivolta del novembre 1972 quando gli anarchici fecero la differenza declassando nel ruolo i deputati del partito comunista, giunti come al solito per fare da pompieri, e coinvolgendo i collettivi operai-studenti degli altri paesi e le scuole superiori di tutta la Locride.
Per il contenzioso più duro, che fu quello contro la ‘ndrangheta statalizzata, non esitò (Lui che era per carattere un pacifico e un buono) ad affiancare i compagni all’affronto dei picciotti con licenza di sparare, protetti com’erano dalle istituzioni. E fu uno dei feriti.
Ai primi di febbraio 1975 venne aggredito vigliaccamente da due picciotti, uno dei quali gli sparò alle gambe e l’altro (poi soprannominato “il verme”) gli tirò una mattonata in testa quando era già a terra ferito. Per ricarico, pochi giorni dopo (marzo 1975) il non meno sciacallo brigadiere filo mafioso del paese provvide a inserirlo nella lista (fatta a tavolino) degli ultimi 10 “anarchici” denunciati per un blocco del treno tra Locri e Ardore.
Per quanto accuratamente nascosto da faziosi di ogni specie, quello degli anarchici di Africo fu il primo e il più vero tentativo di fermare l’aggressione mafiosa della Calabria e quando, ormai isolati e sotto attacco da ogni parte, i compagni più esposti dovettero andarsene, Peppe rimase pressoché il solo in paese tra quelli che si erano scontrati fisicamente con i mafiosi; ma senza inchinarsi ai “vincitori” ne mai assoggettarsi al sistema clientelare combinato col dominio degli stessi. Dai mafiosi non volle favori né amicizia e senza neanche temerli non esitò ad ospitarmi a casa sua (quando altri andavano a nascondersi) qualche volta che scesi in Calabria tra i nemici di sempre.
Da quell’ambiente divenuto asfissiante preferì allontanarsi andando ad abitare per parecchi anni a Pentedattilo già abbandonato dai suoi abitanti, dove con la sua compagna Rossella vissero di artigianato della ceramica nell’intento di valorizzare e recuperare il sito secondo una visione ambientalista d’avanguardia. Era del resto la sola iniziativa politica possibile per quanto si erano ristretti gli spazi nel consociativismo generale ormai trionfante.
Nel frattempo, in una Africo divenuta bizzarramente opulenta, arrivavano (frutto del malaffare e della droga) ricchezze inimmaginabili dai nostri antenati poverissimi per definizione. Incredibile a dirsi, ma nel paese ormai si vestiva Armani di regola e nei bar si beveva champagne invece della birra. Tra tanto sfoggio pacchiano dell’improvvisa ricchezza, circolare nel paese divenne persino imbarazzante per chi viveva di lavoro; e successe anche che alcuni giovani che si erano battuti vigorosamente per i diritti furono attratti dal nuovo modello e si gettarono a capofitto sul losco affare. Per dirla tutta, anzi, quell’Eldorado africoto non fu all’inizio prerogativa della ‘ndrangheta e bastava chiedere per partecipare al banchetto. Ma – ritornato al paese – Peppe non chiese nulla e anzi, infastidito per quella riconversione grottesca dei costumi (prima rigorosi), si ritrasse nuovamente in disparte andando ad abitare in campagna nella terra dei suoi genitori, che tenevano un gregge, dove da allora anche lui visse di pastorizia e di agricoltura. Fu certo una scelta dura, visto che aveva studiato; ma anche una scelta di libertà perché all’incontro della terra che amava, senza padroni e condizionamenti e in linea col suo carattere riflessivo e schivo; e senza però vivere da eremita perché – e questo mi conforta – i compagni andavano sin là a trovarlo e con lui felice di ospitarli per parlare come un tempo d’anarchia. Ciao Peppe, con te se ne va un pezzo del nostro cuore e della nostra storia.
Rocco P.