Contro la così detta “teoria gender” si è attivata in tempi recenti una formidabile crociata sostenuta dai settori cattolici, più o meno integralisti, in compagnia della svariata gamma della destra, dai fascisti ai tradizionalisti generici o sedicenti tali. Tutti comunque collegati da una visione omofoba. Il termine gender, usato da chi sostiene tale crociata, è un anglicismo utilizzato con funzione retorica, che dovrebbe evocare, tramite la successione fonetica di alcune consonanti, qualcosa di oscuro e demoniaco. Un pericolo insomma. In realtà la teoria di genere è l’acquisizione forse più significativa che il dibattito sull’autodeterminazione sessuale abbia prodotto negli ultimi decenni.
La nozione di genere, sia a livello teorico sia pratico, ha precisato e dato radicalità alla questione dell’orientamento sessuale, che è altra cosa dal corredo genetico e dalla collocazione biologica nelle categorie di femmina o maschio. Il genere è ciò che attiene ai nostri comportamenti, siano essi appresi per condizionamento o assunti per scelta. Ne è conseguita un’estensione delle problematiche legate all’autodeterminazione che, pur essendo state spesso relegate nell’ambito del diritto tramite richieste legalitarie e normative, hanno però trovato sicuramente anche altri canali per sfociare nel più ampio terreno dell’affermazione di libertà, in continuità con le tematiche più significative del femminismo.
In Italia le ire degli omofobi si sono fatte sentire soprattutto nella fase in cui la richiesta di equiparazione di diritti civili per le coppie omosessuali poteva porre in discussione l’egemonia della famiglia tradizionale; le ire si sono poi un po’ smorzate con l’approvazione della legge Cirinnà, che ha rassicurato in qualche modo i settori tradizionalisti, quantomeno sul piano delle acquisizioni legali, che sono state irrisorie. Prosegue però il contrasto radicale alla cultura del genere, portato avanti non solo da oltranzisti omofobi, ma anche da ripetuti interventi dello zuccheroso papa Francesco e dal Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Prosegue poi soprattutto la pervicace battaglia contro qualsiasi forma istituzionale di educazione alla differenza di genere che sia portata avanti nelle scuole.
L’Unione europea sollecita fino dal 1994 l’adeguamento dell’Italia a iniziative di contrasto dell’omofobia, con richieste rinnovate insistentemente dal 2006, e negli ultimi cinque anni sono state programmate, a livello governativo, iniziative di contrasto al bullismo omofobo da attivare nelle scuole. Nonostante il carattere istituzionale e non certo rivoluzionario dell’intervento in programma, le iniziative sono state duramente contestate da associazioni quali Manif pour tous, l’associazione delle famiglie cattoliche-FONAGS, l’associazione Italiana Genitori-AGE, vari partiti e movimenti della destra, il movimento ProVita e via dicendo, oltre a specifici individui, tra cui l’immancabile Adinolfi.
La maggior parte dei progetti sono stati accusati di introdurre nella scuola l’ideologia del gender, del relativismo sessuale, della soggettiva percezione della propria identità sessuale indipendentemente dall’identità biologica e, perciò, ritirati per le pressioni esercitate sul Ministero dell’Istruzione. Ma la vigilanza omofoba rimane elevatissima, come sta a testimoniare la recente vicenda che ha coinvolto il direttore dell’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali promotore, tra le altre cose, anche di progetti sulla differenza di genere nelle scuole, e per questo da tempo nel mirino dei tutori della moralità.
La crociata antigender si muove su binari di certezze inossidabili: esistono due sessi, maschile e femminile, biologicamente determinati, su cui si fonda l’unione riproduttiva che è peculiare dell’unica forma di famiglia ammissibile – le varianti sono patologia. Sostenere che può esserci un orientamento sessuale che prescinde dall’appartenenza al genere maschile o femminile e non inquadrabile come patologia ma come prodotto di fattori sociali giustificherebbe ogni comportamento sessuale, introdurrebbe un relativismo di valori destabilizzante per la società e per la famiglia che ne è il nucleo. Questo quanto affermato da un organismo autorevole quale il Sinodo dei vescovi, che detta la linea al resto della compagnia.
L’omofobia dunque è il tratto più evidente della crociata e si accompagna con una rigorosa distinzione di categorie linguisticamente definite dai termini eterosessuale, omosessuale, bisessuale, che inquadrano comportamenti originati, secondo questa visione, da determinazioni biologiche normali (la prima) o patologiche (le altre). Eppure la classificazione di queste inclinazioni e la loro identificazioni come tendenze naturali biologiche (sane o patologiche) è piuttosto recente e risale appena alla seconda metà dell’Ottocento.
Nel mondo antico infatti il termine omosessuale non esisteva; la relazione erotica anche con persone dello stesso sesso era frequente e seguiva un determinato sistema di regole, un codice etico, ma non implicava che il comportamento classificasse necessariamente l’individuo come omosessuale biologicamente determinato. Il cristianesimo, sostituendo l’etica con la morale, introdurrà il concetto di peccato per definire ciò che è trasgressione e riserverà particolare attenzione ai peccati della carne, anche perché trasferirà progressivamente la sfera del sesso all’interno della famiglia, considerando peccaminose tutte le pratiche erotiche che non siano compiute all’interno del matrimonio e finalizzate alla procreazione. Tuttavia, nonostante questa rigida visione morale, è il comportamento, lo specifico atto ad essere considerato peccato, ma non lo si inquadra in una perversione biologicamente determinata e classificabile.
È soltanto nella seconda metà dell’Ottocento che l’omosessualità o altri comportamenti sessuali vengono classificati e inquadrati secondo un nuovo concetto biologico. Sono gli anni in cui nasce la moderna scientia sexualis, la sessuologia, che introduce studi sulla psicopatologia del comportamento sessuale. Da una valutazione morale-religiosa si passa ad una valutazione medico-psicologica dei comportamenti sessuali, che non sono più considerati secondo la linea di demarcazione virtù/peccato, ma attraverso quella che oppone salute a malattia, normalità ad anormalità. Nella anormalità sono stati quindi classificati vari comportamenti ritenuti patologie e perversioni, considerati da qui in poi frutto di una tendenza naturale biologicamente determinata e identificabile, come lo sono le patologie.
Sembrerebbe una storia complicata: secoli di condanna morale tramite la nozione di peccato e poi di colpo il monopolio religioso sulla vita sessuale cede il passo alla nozione biologica di patologia. Eppure fra religione e scienza avviene un felice connubio: la morale religiosa radicalizza la condanna delle pratiche sessuali non riproduttive, che, oltre a costituire peccato, rappresentano una malattia, qualcosa che non prevede l’autodeterminazione delle scelte, ma una predeterminazione di natura, che al massimo può ispirare compassione o attivare le apposite cure. Al contempo, la sessuologia tardo ottocentesca classifica come perversioni tutte le pratiche sessuali non riproduttive e in questo si allinea con la visione centrale della famiglia propria della morale religiosa. Omofobia e difesa della famigia tradizionale vanno a braccetto. Inseparabili.
Torniamo allora alle campagne omofobe attuali, che hanno come obiettivo immediato la sessualità irregolare e, prima fra tutti, l’omosessualità, ma che hanno come obiettivo più ampio la difesa intransigente della famiglia tradizionale, formata da un uomo e una donna, all’interno del matrimonio, finalizzata alla riproduzione. Qualsiasi altra unione realizzata al di fuori di questa norma è contro natura e pericolosa, poiché attua pratiche di libertà e mina la struttura familiare.
La fase economica e sociale che stiamo vivendo, d’altra parte, fa sì che l’insistenza sulla centralità della famiglia tradizionale trovi terreno fertile, non solo nei settori omofobi, ma anche in strati sociali ampi. La crisi economica ed occupazionale, i continui tagli al settore dei servizi inducono una perdita soggettiva di autonomia economica e ripropongono la famiglia come nucleo obbligato di convergenza del reddito di sopravvivenza e di assolvimento delle necessità quotidiane. Questo rafforzamento della dimensione familiare porta con sé una riproposizione marcata dei ruoli tradizionali e della morale sessista, con una riaffermazione del ruolo tradizionale della donna e con l’esclusione di tutti gli elementi di autodeterminazione nell’affermazione dell’identità di genere, nella gestione della sessualità e della salute, con la volontà di imporre un rigido controllo sulle vite e sui corpi.
Insomma: sessismo e omofobia è quello che vediamo nel quotidiano. Ma anche quello che nel quotidiano contrastiamo puntualmente, con una decisa , irrinunciabile e continua affermazione di libertà, con la critica intransigente dei meccanismi economici e sociali, con la mobilitazione costante, sia quando c’è l’onda montante dei movimenti sia quando inspiegabilmente tutto tace, con la solidarietà su tutti i fronti di lotta, e soprattutto con la tenace volontà di costruire un mondo nuovo, a partire da noi, dai nostri bisogni, dai nostri desideri.
Patrizia Nesti