Che l’astensione diventi diserzione

Ancora una volta una cosa è chiara, il prossimo parlamento e il prossimo governo saranno più distanti che mai dalle classi sfruttate. Neanche due elettori su tre sono andati a votare, in alcune regioni appena uno su due, con una partecipazione al voto che a livello nazionale si è fermata al 63,9% con un calo di ben nove punti percentuali dalle elezioni precedenti. Nel momento in cui scrivo non è ancora concluso il conteggio dei voti, ma i dati, già stabili, assegnano la prevalenza alla coalizione di destra. Sembra infatti che nonostante il crollo della partecipazione alle urne la destra abbia mantenuto i consensi ottenuti nelle precedenti elezioni, con poco più di 12 milioni di voti. Se questo dovesse portare, come annunciano tutti i giornali ufficiali, ad un governo guidato dalla destra fascista, allora la casta militare, la produzione bellica e in particolare aerospaziale, Confindustria e la Chiesa avranno al governo il primo alfiere dei loro privilegi.

Ma attenzione, l’agenda politica di miseria e guerra a cui dovremo opporci nei prossimi mesi era già quella di Draghi, e sarebbe stata assunta da qualsiasi governo, in nome dell’interesse nazionale. I media e i partiti hanno invocato in coro un governo forte, ma dal momento che non potrà essere comunque forte nei consensi, dobbiamo immaginare che il prossimo governo sarà forte col bastone.

Probabilmente cercheranno di governare il conflitto sociale con elargizioni paternaliste, con la propaganda di unità nazionale e con l’aiuto dell’opposizione di palazzo attraverso PD, sinistra istituzionale e CGIL. È importante dare un terreno diverso alle lotte, rafforzando le strutture di base e le forme di opposizione sociale.

Il governo Draghi prima di passare il testimone al prossimo esecutivo ha ancora per le mani alcuni compiti importanti: la presentazione della Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (DEF) e la prosecuzione delle trattative per la definizione del tetto europeo al prezzo del gas. Gli indirizzi politici di fondo su difesa, energia e lavoro sono trasversali, come hanno dimostrato le scelte dei vari governi di unità nazionale che si sono succeduti in questi anni. L’ultimo di questi, che ha unito Lega, FI, M5S, PD, LEU – con ripetuti tentativi imbarcare anche FdI – ha reso chiaro a tutti che gli appelli al voto “contro il fascismo” sono vuote parole da campagna elettorale. Anche per questo il numero degli astenuti, 14,8 milioni, supera di gran lunga il numero di voti ottenuti da qualsiasi coalizione. Ma l’astensionismo non è disorientamento provocato dal voltafaccia di questo o quel partito. La crisi dei meccanismi di consenso anche clientelari, assieme al generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di gran parte della popolazione, e alla scomparsa di ogni margine di mediazione del conflitto sociale, hanno fatto esplodere da 15 anni la sfiducia verso le istituzioni politiche. Dalle elezioni del 2008 il grande obiettivo dei partiti in periodo elettorale è stato quello di raccogliere consensi nella sempre più larga schiera dell’astensione. Ma se chi governa e chi aspira a governare legge l’astensione come un serbatoio di voti, come un bacino di consenso da contendersi, come una massa passiva, chi vuole trasformare radicalmente la società in senso rivoluzionario non può che riconoscervi invece un elemento di cambiamento. Non è detto che questa spinta di cambiamento non possa essere presto o tardi riassorbita nelle forme di compatibilità del sistema politico. Ma il non voto è sempre una scelta, indipendentemente dalle ragioni da cui si muove. È una dimensione attiva, quella del rifiuto, che già segna la distanza dal governo, ma che può essere anche la base per ulteriori forme di rifiuto e di opposizione.

Le immagini che giungono dalla Russia, con i giovani in fuga per evitare l’arruolamento forzato e con le proteste nelle città contro la mobilitazione parziale duramente represse, ci mostrano che è possibile rifiutare il massacro imposto dai governi, che anche con la grave minaccia repressiva di un regime autoritario è possibile scegliere, rifiutare e agire. La forza di questi esempi di lotta contro la guerra è formidabile. Sono esempi che ci chiamano ad impegnarci in prima persona, a organizzare e dare concretezza al nostro rifiuto della guerra e dell’economia di guerra.

Per fronteggiare la generale sfiducia nelle istituzioni, nei partiti e nel governo, si prepara ormai da tempo una via autoritaria. Gli organi della stessa democrazia rappresentativa, cercando forme di stabilità per il potere di fronte alla sfiducia nelle istituzioni e all’aumento dell’astensione, stanno rivedendo anche radicalmente le forme istituzionali. Nel nome della governabilità, dell’efficienza, della stabilità e della salvaguardia dell’interesse nazionale si fanno strada soluzioni dirigiste, anche sotto la pressione di modelli autocratici sempre più influenti a livello globale. Gli sviluppi della guerra in Europa non hanno fatto che accelerare questi processi. Da ogni parte la propaganda, in un generale clima di incertezza e di disastro incombente, crea il bisogno del leader e del “governo forte”. Ma c’è chi non risponde alla chiamata alle urne, nonostante la campagna elettorale sia stata più che mai incentrata sulle personalità dei leader politici, nonostante le grandi paure che viviamo in questi anni a causa del vicolo cieco in cui ci conducono lo Stato e il Capitale, dalla guerra alla pandemia, dalla miseria alla catastrofe climatica. C’è una parte della società che non partecipa all’elezione del governo forte, che ha scelto il rifiuto. Per il prossimo governo sarà in ogni caso un problema. Sta a noi e a tutte le forze che si muovono sul terreno delle lotte dal basso far si che questo rifiuto delle elezioni non venga riassorbito da qualche nuovo partito o leader di governo, che non venga arruolato in nessun esercito, ma che si trasformi in rifiuto della guerra e dello sfruttamento, in diserzione di massa dal macello in cui ci vorrà gettare il prossimo governo.

Dario Antonelli

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