Mentre Trieste vota al ballottaggio e prova a immaginare sé stessa dopo le elezioni, decido di incontrare e provare a dare voce a quelle realtà, a volte piccole, a volte più grandi, disseminate sul territorio, che attraverso modalità di autogestione e di condivisione delle esperienze, agiscono concretamente nelle trame della società, modificandone pratiche e destini. Faccio poca strada in realtà, arrivo fino a Longera, minuscolo paese ai margini della città, che con la sua piccola vallata costituisce uno dei polmoni verdi che ancora resiste alle lusinghe della cementificazione selvaggia. Qui trovo la comune di Casalonjer, che in una domenica ventosa di quasi estate, mi accoglie nel suo giardino; seduti in cerchio mi raccontano la loro esperienza, ogni voce mi riporta minuziosamente un aspetto della loro attività. Assieme, armonicamente, come un’orchestra, le loro parole disegnano l’idea di futuro che hanno in mente, un futuro ideale che rimane ben piantato nella realtà del vissuto quotidiano. È Anna a prendere per prima la parola e mi spiega di come il gruppo, che oggi conta sei persone, sia cambiato negli anni: “Il gruppo si è modificato nel corso del tempo a seconda delle persone che di volta in volta sono venute a stare con noi. Ci definiamo una comunità intenzionale, per distinguerci, ad esempio, da gruppi di studenti che vivono assieme. Quello che ci caratterizza è la presenza di progetti specifici e di metodologie che aiutano lo stare assieme. Anche nelle varie comunità si è capito, a volte a proprie spese, che il nodo cruciale sta nelle relazioni: come riuscire a comunicare bene? È una questione che rischia di scardinare non solo le comunità stesse, ma che si insinua dentro tutti i luoghi della socialità dove si sta assieme.”
La comunità, oltre ad indagare ed esperire pratiche efficaci di relazione e condivisione, sviluppa e lavora alla realizzazione di numerosi progetti. La stessa scelta del nome suggerisce da subito le intenzioni e la visione che nutrono la comunità: “Il nostro nome unisce due lingue diverse, sia perché la comunità di Longera è bilingue sia perché al nostro interno ospitiamo culture diverse. La casa è il concetto che più sentiamo nostro, più inclusivo rispetto a quello della famiglia tradizionale, mononucleare. La casa è il tetto sotto al quale si può riunire tutto ciò che si vuole.”
Oltre alle attività di divulgazione del vivere comunitario e di condivisione dei saperi, Casalonjer dal 2012 porta avanti il progetto chiamato Cerchio nel bosco, attività pionieristica nel settore per la realtà triestina. “Un gruppo di noi si raccolse qualche anno fa attorno all’idea di un percorso che coinvolgesse bambini e genitori e che si inserisse nell’alveo della pedagogia libertaria. Ci siamo ritrovati in una ventina e la prima domanda che ci siamo posti è com’è stata per noi l’esperienza nella scuola statale. Attraverso modalità di brainstormig ognuno di noi ha fatto riaffiorare ricordi e traumi. A partire da quelle esperienze, del tutto negative, abbiamo individuato una serie di situazioni e modalità che non volevamo riproporre ai nostri ragazzi. Ragionando su ciò che non volevamo, abbiamo fatto una lista delle cose che invece intendevamo proporre.”
L’elaborazione sugli aspetti nocivi del sistema scolastico tradizionale si è sviluppata nel tempo e si è arricchita del contributo di tutti; da molteplici prospettive hanno strutturato una valutazione critica precisa e ragionata, a partire dalla quale hanno cominciato a delineare i tratti specifici del loro progetto. “Il termine scuola pubblica andrebbe abolito perché, di fatto, la scuola pubblica non esiste. Esiste, invece, una scuola statale che, come tale, persegue coerentemente i suoi scopi: crescere personalità assoggettabili, manovrabili, indirizzabili. Quando i bimbi entrano a scuola, a sei anni, nell’arco di poco tempo il loro entusiasmo e la loro gioia nei confronti del sapere viene spento invece di essere riattivato. Tutto ciò che apparteneva naturalmente alla sfera della curiosità del bimbo si estingue e l’apprendere cose nuove viene vissuto dai bambini come una pesante imposizione.
Il compito essenziale della scuola statale finisce per essere non tanto quello di ampliare in maniera entusiastica e smisurata il raggio di conoscenze di una persona, ma specializzare competenze in modo che queste persone risultino, domani, utili al sistema produttivo. Per questo vengono allenati fin da piccoli ad avere dei ritmi precisi e la giornata scandita. Viene loro imposta un’ora di inizio e una di conclusione, qualcuno dice loro cosa si fa e cosa non si deve fare. Tutta una serie di meccanismi che non appartengono naturalmente ai bambini.
Queste dinamiche emergono già a partire dall’asilo nido e dalla scuola dell’infanzia attraverso tutta una serie di intromissioni in quelli che sono i processi di naturale evoluzione del bimbo e che in tutte queste strutture vengono omologati e inseriti all’interno di uno schema precostituito. La qual cosa è anche comprensibile da un punto di vista organizzativo: quando un adulto si occupa da solo di 25 bambini è inevitabile che vengano a crearsi situazioni da catena di montaggio.
L’ambito nel quale ci muoviamo è quello legalitario della nostra costituzione, all’interno della quale si cita il diritto all’istruzione per i bambini e il dovere dei genitori di garantirglielo. Non c’è alcun obbligo, quindi, di frequentare la scuola statale; c’è, invece, un dovere da parte del genitore o della figura educativa di riferimento di garantire che il bambino possa istruirsi. La realtà in cui viviamo è, al contrario, capovolta rispetto a questo principio: il dovere dell’adulto si trasforma in un suo diritto, quello di poter delegare i propri figli a qualcun altro tenendoli lontani da casa per un tot di ore al giorno, e il diritto del bambino di accrescere le proprie conoscenze liberamente, seguendo le proprie predisposizioni, diventa un dovere: devi andare a scuola, devi fare questi compiti e poi, alla fine, verrai anche giudicato se sei stato bravo o non bravo.”
I primi passi del Cerchio nel bosco si muovono a partire da questa analisi critica. Inizialmente il progetto, che nasce dall’esigenza di pensare per i propri figli percorsi di istruzione alternativi alla scuola statale, si struttura grazie all’impegno degli stessi genitori. L’asilo inizialmente è itinerante: d’estate si ritrovano nei parchi cittadini e d’inverno, a turno, i genitori mettono a disposizione le proprie case. Poi decidono di trovare uno spazio stabile e di inserire nel gruppo accompagnatori esterni a supporto dei genitori.
“Da qui è nata un’idea di spazio che abbiamo deciso di esperire e che fa riferimento al modello nordico di asilo nel bosco: i bimbi vivono lo spazio all’esterno, anche d’inverno, anche con la pioggia. Noi forniamo loro gli strumenti per affrontare le diverse condizioni climatiche – disponiamo anche di uno spazio chiuso riscaldato – e la natura fa da maestra. Si gioca e si impara attraverso la natura, utilizzando anche materiali diversi specie per le attività artistiche. Abbiamo acquistato anche alcuni pastini adiacenti a Casalonjer che si trovano a pochi minuti dal boschetto del Farneto. È un progetto che cammina sulle gambe di famiglie e di accompagnatori, ma anche di amici e sostenitori. Tutti ruoli fondamentali e distinti che però lavorano assieme sinergicamente.”
Al momento ci sono sette bambini, divisi in due gruppi di età. Tra qualche anno entreranno in età scolare e per allora, i genitori e gli accompagnatori del Cerchio nel bosco, vogliono essere pronti a partire con la scuola libertaria.
Una struttura dove adulti e ragazzi collaborano sullo stesso piano all’esplorazione del mondo e all’accrescimento delle conoscenze dei singoli in perfetta armonia con il gruppo intero. Dove al centro del processo di apprendimento si trova il bambino, le sue attitudini, i suoi talenti e la sua curiosità. Una scuola che sia in grado, mi dicono con fermezza, “di crescere adulti consapevoli” perché capace di sottolineare e sviluppare la centralità dell’individuo. Per questo le decisioni al Cerchio vengono prese sempre attraverso dinamiche assembleari, dove adulti e bambini discutono assieme, paritariamente, di difficoltà e possibilità.
“Gli adulti sono uno strumento” – specifica Aldo – “utile nel momento in cui il bimbo naturalmente porta la curiosità e la richiesta di approfondimento su alcune tematiche. L’adulto si muove bene in questa società ed è in grado di soddisfare l’esigenza dei bambini creando canali specifici.”
Mi raccontano ancora del confronto continuo e costruttivo con le altre esperienze di istruzione libertaria presenti in Italia, di quanto l’apprendimento spontaneo arricchisca un sapere globale, che non si ferma ad alcune nozioni prestabilite, ma che abbraccia una molteplicità di esperienze e di contesti. La preparazione che sta dietro alla nascita di una scuola libertaria è tanta, ma l’obiettivo è altrettanto grandioso: scardinare gli schemi educativi tradizionali che guidano l’individuo, già da piccolo, a seguire percorsi preconfezionati, alieni, spesso, alle attitudini del singolo. Perché il processo di apprendimento possa ritornare ad essere un’esperienza di gioia e di piacere nel rispetto dei talenti e della personalità di ciascun individuo.
Silvia Antonelli