Cannabis: il referendum delle beffe

Nel luglio di quest’anno la prestigiosa rivista di medicina Lancet ha dedicato un lungo editoriale al cinquantesimo anniversario della dichiarazione di “guerra alla droga” del presidente Nixon: “Sono trascorsi 50 anni dal discorso del 18 giugno 1971 del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon che pubblicizzava la guerra alla droga dell’amministrazione statunitense. Nixon dichiarò che l’abuso di droga era ‘il nemico pubblico numero uno dell’America’. La guerra alla droga è stata un’offensiva, con interventi militari, tassi di arresti alle stelle e condanne aggressive. Gli Stati Uniti hanno sostenuto un costo enorme, sia finanziario sia sociale, con i più emarginati e vulnerabili che si sono fatti carico dell’onere maggiore. Cinque decenni dopo non si vede alcun segno di vittoria. L’uso di droghe prospera, con il 13% (35,8 milioni) di americani di età pari o superiore a 12 anni nel 2019 che ha riferito di aver usato una droga illecita nel mese precedente, come rivelato dal National Survey on Drug Use and Health. Lo stesso anno ha visto 70.630 decessi per overdose, di cui 49.860 per oppioidi (di cui 14.139 dovuti a prescrizione di oppiacei)”.

Se l’obiettivo della guerra alla droga fosse davvero quello di impedire la diffusione delle droghe illegali, avrebbe evidentemente fallito ogni suo obiettivo peggio dell’invasione americana dell’Afghanistan. In realtà, come hanno scritto i criminologi inglesi Rick Lines e Niamh Eastwood in un articolo apparso sulla rivista The Conversation, “la War On Drugs non ha mai riguardato la droga. Riguardava e continua a riguardare il controllo sociale. Come scrive l’autore e docente di diritto Kojo Koram, il controllo internazionale della droga dal XIX secolo è stato profondamente intrecciato con il progetto coloniale europeo e il desiderio di controllare le popolazioni indigene e colonizzate. (…) In linea con la logica contorta del proibizionismo, la soluzione proposta alle leggi sulla droga razziste e discriminatorie non è rimuovere o riformare quelle leggi, ma allargare la rete per colpire più persone”. Più o meno ovunque in questi anni si stanno diffondendo tecnologie sempre più invasive che sono in grado di rilevare anche il minimo indizio di utilizzo di sostanze proibite, dai cosiddetti cani “molecolari” (addestrati per individuare non solo le sostanze ma anche le tracce del loro consumo) ai test salivari e del sudore utilizzati ormai dalle polizie stradali di tutto il mondo, agli spray e alle pellicole usati negli aeroporti sugli oggetti personali (cellulare, occhiali, orologio, ecc.) per individuare tracce infinitesimali. Non sono strumenti che servono a trovare grossi carichi e a colpire il traffico: servono soltanto appunto ad “allargare la rete”. Il primo paese a utilizzare le pellicole negli aeroporti è stato l’Australia dove da anni la polizia di frontiera sottopone a minuziose analisi tutti gli oggetti personali di chi ottiene un visto di immigrazione legale e basta una minima traccia per essere rispediti indietro.

Non è un caso che in prima fila tra i difensori della War On Drugs ci siano le forze di polizia di tutto il mondo. In quasi tutti i paesi più di metà degli interventi di polizia è finalizzato alla lotta alla droga ed è proprio la War On Drugs che giustifica il continuo aumento degli stanziamenti destinati alle forze dell’ordine. Questi interventi colpiscono naturalmente nella stragrande maggioranza dei casi i consumatori e questo significa dare ai poliziotti un enorme potere (a volte letteralmente di vita e di morte, come nelle Filippine dove in pochi anni almeno 27mila persone sono state massacrate dalla polizia e dagli squadroni della morte di Duterte) anche a livello personale.

La War On Drugs continua e trova nuovi testimonial. Contro le fumigazioni aeree con il glifosato per distruggere i raccolti di coca nel marzo scorso più di 180 studiosi appartenenti a università statunitensi, colombiane e di altri paesi avevano scritto a Biden, ricordando come l’uso del glifosato risultasse inefficace, costoso e devastante per la salute delle persone (nel 2015, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’OMS aveva definito l’erbicida glifosato come “probabilmente cancerogeno per l’uomo”), le comunità agricole e gli ecosistemi (e inefficace a contrastare un’economia fortemente basata e radicata sulla produzione di coca). Biden ha risposto dichiarandosi un sostenitore della ripresa delle fumigazioni, decisa dal suo predecessore Trump.

La Repubblica Ceca è da sempre considerata uno dei paesi europei più tolleranti nei confronti della marijuana dai tempi del presidente Havel, fumatore dichiarato e, per la legge ceca, la cannabis è considerata una normale pianta agricola e medicinale e la sua coltivazione e la sua lavorazione sono consentite senza permesso speciale. A settembre, però, la rivista antiproibizionista Legalizace e il suo caporedattore, Robert Veverka, sono stati formalmente accusati di “incitamento e promozione della tossicomania”, con pene fino a cinque anni di reclusione e le pubblicazioni sono state sospese fino al processo.

Questa infinita War On Drugs trova però anche sempre nuovi oppositori. La determinazione e il coraggio dei movimenti e dei media d’opposizione e dei sindacati indipendenti filippini, sostenuti da Amnesty International e altre organizzazioni, ha avuto dopo anni come primo risultato l’incriminazione del presidente Duterte da parte della Corte Penale Internazionale, cosa che probabilmente non lo porterà in galera ma che, intanto, lo ha costretto a ritirarsi dalle prossime elezioni (per cui, peraltro, Duterte ha già lanciato in pista la figlia Sara) e che, soprattutto, ha portato a una notevole rarefazione dei raid punitivi.

Mentre anche in Europa partono i primi “esperimenti” di cannabis legale (nel 2022 a Zurigo apriranno i primi dispensari autorizzati), negli Stati Uniti continua ad allungarsi l’elenco degli stati dove è stata legalizzata la cannabis “ricreativa”. Tra gli ultimi della lista c’è lo stato di New York dove la legge era stata approvata sull’onda di Black Lives Matter e dei movimenti di protesta anti-Trump e anti-polizia che a New York erano (e continuano ad essere) molto forti e che avevano fra le proprie rivendicazioni l’opposizione alle leggi antidroga, motivo principale della maggior parte degli arresti. Proprio per fermare gli arresti, tra le richieste dei movimenti c’era che dovesse essere consentito anche di poter fumare in pubblico, a differenza di quello che prevedono le leggi degli stati dove la legalizzazione è avvenuta tramite referendum (e dove, tranne che in alcune contee, le persone continuano a essere arrestate o multate per il consumo in pubblico). La prima versione proposta dall’allora governatore Cuomo prevedeva il divieto di utilizzo in pubblico ma il riattivarsi delle proteste lo ha costretto a modificare la bozza. Il risultato è che con l’entrata in vigore della legge, New York ha visto una diminuzione record degli arresti arrivati al numero più bassa dagli anni Sessanta dal secolo scorso.

Ai referendum americani si ispira l’ultima sciagurata iniziativa referendaria “per la cannabis legale” che, nelle ultime settimane, ha avuto un po’ di spazio nelle cronache politiche per l’altissimo numero di firme raccolte in brevissimo tempo (ormai circa 700mila); tutte on line, grazie a una nuova norma entrata in vigore da poco e che continueranno ad essere raccolte per tutto ottobre dopo che il Consiglio dei ministri, il 29 settembre scorso, ha approvato il decreto legge che proroga la data di scadenza per la presentazione delle firme dal 30 settembre al 31 ottobre. Promosso da Associazione Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Società della Ragione, Antigone, +Europa, Possibile, Radicali italiani, Potere al Popolo e Rifondazione Comunista, il referendum sembra aver riscosso l’entusiasmo di molt* attratt* dal profumo della mitica “legalizzazione” e non c’è da stupirsene in un paese dove si stima che ci siano dai 3 ai 6 milioni di consumatori di ganja e dove di sicuro ci sono più di un milione e 400mila persone che sono state colpite da sanzioni penali o amministrative dal 1991 al 2020 (come riferito quest’estate dal Governo).

Il referendum, però, promette molto più di quello che prevede. I promotori, infatti, chiedono di “depenalizzare la condotta di coltivazione di qualsiasi sostanza” – intervenendo sulla disposizione di cui all’art. 73, comma 1 – e di eliminare la pena detentiva per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione dell’associazione finalizzata al traffico illecito di cui all’art. 74, intervenendo sul 73, comma 4” e di “eliminare la sanzione della sospensione della patente di guida e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori (…) intervenendo sull’art. 75”.

In sostanza, significa che chi coltiva per uso personale, continuerà a esser sottoposto a tutte le sanzioni amministrative (a parte il ritiro della patente) che prevedono, per un periodo variabile che va da un minimo di un mese a un massimo di un anno, sospensione della licenza di porto d’armi o divieto di conseguirla; sospensione del passaporto e di ogni altro documento equipollente o divieto di conseguirli; sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o divieto di conseguirlo se cittadino extracomunitario”. Dispiace per chi pensa di cambiare il mondo con un clic (che rispetto a questo si farebbe meglio a tornare alle vecchie petizioni di Amnesty International che almeno un po’ il mondo te lo fanno conoscere) ma la fregatura non finisce qui.

Intanto, se il referendum dovesse mai essere votato, avrebbe ben poche probabilità di essere vinto: anche se i promotori del referendum hanno diffuso un sondaggio svolto da SWG, che sostiene che il 58% degli italiani è a favore della legalizzazione della cannabis, tutti gli altri sondaggi dicono che i sostenitori della depenalizzazione non superano il 40%. Chiaramente, in caso di sconfitta del referendum, i tempi per i consumatori di cannabis si farebbero ancora più duri, com’è successo in Nuova Zelanda dopo appunto un referendum perso. Il referendum, inoltre, dovrebbe tenersi nella primavera dell’anno prossimo. Dopo, però, che Draghi potrebbe diventare a febbraio presidente della Repubblica, a meno che non rimanga anche premier (cosa non impossibile ma certo improbabile), ci saranno nuove elezioni che potrebbero essere vinte da leghisti e fascisti che hanno in agenda nuove leggi antidroga sempre più draconiane, per rinverdire i bei tempi di Reagan quando milioni di americani venivano licenziati per essere stati trovati positivi ai test delle urine e le piantagioni di marijuana in California venivano bombardate col napalm.

Se queste nuove leggi dovessero essere approvate, il referendum non si terrebbe più e in ogni caso non potrebbe tenersi prima della fine del 2023. Tra i primi capitoli della nuova Guerra Alla Droga all’italiana, invece, ci sarà di sicuro la campagna per la chiusura dei canapa shop che per fascisti e leghisti sono una vera ossessione (Salvini aveva annunciato che li avrebbe chiusi tutti quando era ministro dell’Interno, senza riuscirci). La ganja light a basso THC che viene venduta al confine tra il legale e l’illegale (non esiste una legge che la regolamenti e ci sono giudici che continuano a chiudere negozi e a fare sequestri e denunce) profuma davvero almeno un po’ di libertà, certo più di qualunque falsa promessa sparata dallo schermo di un computer.

robertino

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