Anticapitalismo – Ecologia sociale – Antispecismo. Dibattito sulla necessità di una intersezione delle lotte
L’articolo che segue è il primo di una serie di tre contributi che pubblichiamo grazie alla proposta del compagno Marco Celentano. I tre testi sono tratti dalle relazioni presentate nel corso di un breve ciclo di incontri presso il CSA Germinal Cimarelli di Terni ad ottobre 2024. Auspichiamo che quanto scritto da Marco Celentano, assieme ai contributi di Massimo Filippi e Marco Maurizi che pubblicheremo sui prossimi numeri, e che offrono numerosi spunti di riflessione, possa stimolare l’apertura di un dibattito su queste pagine.
Premessa
La consapevolezza del nesso cruciale tra questione sociale e questione ambientale, e la convinzione che entrambe non possano essere adeguatamente affrontate in un contesto sociale fondato sul modo di produzione capitalistico, sono oggi patrimonio comune a tutti gli anarchici, e a una sfera di persone e realtà sociali certo più ampia del movimento anarchico anche se, a sua volta, minoritaria rispetto agli orientamenti prevalenti a livello globale.
L’idea che un ruolo non meno rilevante, nelle lotte anticapitaliste, vada assegnato alla questione animale, intesa come problema etico, sociale e politico dello sfruttamento del mondo animale e dell’estinzione di massa cui esso è esposto, a causa del modello di sviluppo dominante nelle società umane, è condivisa, invece, ancora oggi, solo da una parte del movimento anarchico, e di quanto resta dei movimenti e orientamenti anticapitalistici. È perciò, a mio avviso, importante che chi porta avanti pratiche legate all’antispecismo libertario non dia in alcun modo per scontate le proprie motivazioni, ovvero, le ragioni per cui ritiene cruciale questo tipo di lotta.
Aprirò, dunque, queste riflessioni ponendomi alcune domande relative a tali motivazioni, seguite da risposte in cui tenterò di descrivere, al meglio che mi è possibile in poche righe, gli argomenti e le esperienze che mi inducono a guardare alla liberazione animale dall’oppressione sociale umana, alla liberazione umana dall’oppressione intraspecifica e alla lotta contro la crisi ecologica globale come a tre processi non scindibili. Ossia, a considerare la questione sociale, la questione ambientale e la questione animale come tre aspetti di un’unica grande problematica, che non possono essere adeguatamente affrontati finché si continuerà a pensare che l’uno sia risolvibile a danno degli altri, o senza tenerne conto. Una medesima questione che, come suggeriva Murray Bookchin, è in primo luogo sociale: quella di abolire la riduzione a merce (o a scarto del processo produttivo) di ogni forma di vita umana e non umana, instaurata ovunque dal dominio capitalistico e dalle forme statuali e internazionali di ordinamento politico che ne sono espressione, e sostituirla con forme di cooperazione e produzione capaci di non istituire rapporti di dominio e sottomissione, e con una cultura capace di emanciparsi dal mito produttivistico/consumistico, ovvero, dall’ossessione di un dominio sempre più integrale delle classi dirigenti umane sulla natura umana e non umana.
Anticapitalisti: perché?
Da secoli, i teorici del liberalismo hanno propagandato l’idea che il cosiddetto “libero mercato” avrebbe gradualmente portato ad un miglioramento delle condizioni di vita sempre più diffuso. La storia economica attesta, invece, che, dall’avvento del capitalismo industriale in poi, a livello globale, le disparità tra ricchi e poveri sono andate costantemente aumentando.
Per limitarci qui a un unico aspetto (progressiva concentrazione delle ricchezze e correlato aumento delle diseguaglianze economiche), nel saggio Il capitale nel XXI secolo, del 2013, l’economista Thomas Piketty ha dimostrato che, per tutto l’Ottocento, la disuguaglianza economica fu in costante crescita, raggiungendo un picco alla vigilia della “grande guerra”. Più frastagliati furono gli andamenti dell’accumulazione nel periodo intercorso tra i due conflitti mondiali e il primo dopoguerra, ma questo trend ricominciò dagli anni ‘70 del Novecento e, da allora, la sperequazione nell’accesso alle risorse è cresciuta sempre più rapidamente e si è fatta sempre più estrema. Per esempio, negli Stati Uniti, tra il 1980 e il 2014, la quota di ricchezza nelle mani dell’1% più ricco della popolazione passava dal 22% al 39%. Nel decennio successivo (2015-2024) poi, secondo il rapporto Oxfam del 2022, “la disuguaglianza a livello globale si è ampliata”[1] ulteriormente. Due anni fa, la metà più povera della popolazione mondiale possedeva il 2% della ricchezza globale, mentre il 10% più ricco ne deteneva il 76%, e l’1% più facoltoso il 43,5%. Nell’anno appena trascorso, secondo il Global Wealth Report 2024 di UBS (Union Bank of Switzerland), lo 0,7% della popolazione del pianeta possedeva il 40,4% della ricchezza mondiale.
Non meno illusoria si è rivelata la speranza dei teorici del liberalismo di domare, con l’istituzione di regimi parlamentari e costituzionali e di un diritto internazionale, lo spirito predatorio del capitalismo. L’epoca di pace “repubblicana” che, nel 1795, Kant pensava di poter preannunciare[2] si rivelava, già nei suoi ultimi anni di vita, pia illusione, come le promesse di risoluzione pacifica dei conflitti e abolizione definitiva dei campi di concentramento contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti umani adottata 153 anni dopo (10/12/1948) dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Né meno catastrofici delle sue conseguenze sociali ed etiche appaiono i danni che il modello capitalistico di sviluppo ha prodotto, negli ultimi due secoli, sul piano ambientale. La crisi ecosistemica che ha portato al sostanziale ‘avvelenamento’ di tutte le risorse principali di cui la vita si nutre sul nostro pianeta (dall’aria alle acque ai terreni), al collasso di tutti gli ecosistemi che ne avevano garantito la sopravvivenza e l’evoluzione (dalle barriere coralline alle foreste) e, di conseguenza, alla più vasta estinzione di massa di specie vegetali e animali finora mai registrata[3] (tuttora in corso) ne è la dimostrazione più evidente.
L’urgenza di affrontare in modo drastico tale crisi ambientale, sociale, politica ed etica riguarda, dunque, oggi, l’intera umanità, gli equilibri su cui si regge nel suo complesso la biosfera terrestre, la sopravvivenza di gran parte degli organismi che la abitano. La sudditanza di tutti i governi e i grandi organi decisionali internazionali ai diktat dei grandi colossi industriali che usano fonti altamente inquinanti, sotto gli occhi di tutti, spiega, in estrema sintesi, perché dai sistemi economici e politici vigenti non ci sia da aspettarsi un aiuto, o almeno un aiuto sufficiente, in tal senso. Questi, in estrema sintesi, alcuni degli argomenti che, a mio avviso, dovrebbero spingere, oggi, non solo i libertari, ma chiunque a tentare di contribuire ad un cambiamento radicale dei modi di autorganizzazione vigenti orientato in senso eco-critico, antiautoritario, egualitario.
Antiautoritari, anarchici, comunisti libertari: perché? L’esigenza di essere libero tra liberi
Perché vivere nella società vigente mi trasmette un disagio profondo? Quali mie esigenze primarie restano in essa insoddisfatte, e resterebbero verosimilmente tali anche se fossi l’uomo più ricco e influente della terra? Penso che ciò che in primo luogo mi manca, in questa società in cui il 20% della popolazione mondiale possiede o sfrutta l’80% delle ‘risorse’ e viceversa, sia la possibilità di vivere da libero tra liberi, da eguale tra eguali.
Perché una società che divide gli esseri umani in dominati e dominanti non può soddisfare le mie esigenze basilari di vita? Perché il miraggio di guadagnarsi un accesso alla sfera delle élites, che pure tanti oggi assumono come obiettivo, non mi appare utile e tantomeno sufficiente a offrirmi scopi che riguardino la mia vita?
Anche se il peggio del vivere, in ordinamenti economici e politici come quelli oggi vigenti, ricade indubbiamente in primo luogo sui dominati, ciò non significa che i dominanti, a loro volta, per divenire e rimanere tali, non debbano essere fin da bambini ‘violentati’ nelle loro attitudini sociali, emotive e relazionali e poi, per tutta la vita, reprimersi, fare amare rinunce, produrre e accettare in sé lacerazioni profonde. Ovvero, in ultima istanza, sacrificare se stessi, il proprio sentire, il bisogno di libertà e la propensione a seguire le proprie inclinazioni, agli obiettivi e ai contegni che la gestione del potere impone. Quest’ultimo, infatti, al contrario di quanto pensava Andreotti, logora sia chi ce l’ha sia chi non ce l’ha, e indubbiamente un bambino non può essere trasformato in uno sfruttatore cinico e seriale di altri esseri umani o non umani senza imprimere ai suoi stessi bisogni e sentimenti sociali primari feroci e traumatiche forme di repressione.
Per limitarci ad un unico esempio, dai tempi della Grecia arcaica ad oggi i ricchi hanno fatto e continuano a fare matrimoni d’interesse, dettati (tranne nei casi in cui le due cose coincidono e finché dura), non dall’amore reciproco, ma dagli interessi patrimoniali e/o dalle mire politiche delle rispettive famiglie e aziende. Fin da ragazzi essi imparano che la ‘serva’ si può circuire o seviziare, ma non certo invitare a un ballo, anche laddove se ne fosse innamorati. Fin da bambini gli si insegna, con metodi che alternano “mazz’ e panella”, che al proprio amare e alla persona amata, come al proprio bisogno di fare esperienza e formarsi un’autonoma capacità di valutazione, non si può riconoscere una dignità che prescinda dall’interesse a mantenere o estendere il proprio potere, o con esso entri in collisione.
Dunque, dal mio punto di vista, le società dell’epoca del capitalismo globalizzato, non meno dei più remoti regni e imperi, umiliano e reprimono, non solo in ogni dominato ma anche in ogni singolo privilegiato, la possibilità di vivere in modo libero alcune delle opportunità più preziose che la vita può offrire, dall’esplorazione delle proprie attitudini e propensioni all’amore spassionato, dall’amicizia all’inclinazione artistica. Ciò che ogni società autoritaria lascia insoddisfatto è infatti esattamente il bisogno di essere e sentirsi libero tra liberi, pari tra pari. E al potente, ancor più che all’uomo comune, essa toglie la possibilità che la disponibilità di un amico, uno sconosciuto, un uomo o una donna da cui sia attratto sia motivata non da una condizione di subalternità nei suoi confronti, ma dalla sua capacità di suscitarli con i propri comportamenti.
Antispecisti: perché? La liberazione animale come esigenza umana personale e sociale
Per quanto mi riguarda, questo bisogno di sentirsi ed essere libero tra liberi, eguale tra eguali, investe, non meno dei rapporti con altri esseri umani, quelli con gli altri esseri senzienti. Tanto mi opprime e deprime vedere insetti mummificati, pesci in un acquario, animali in uno zoo, quanto mi dà allegria e mi offre modelli di socialità non asservita la ricorrente esperienza di essere avvicinato da un cane che, per sua spontanea curiosità, decida di venire ad esplorare i miei odori e le mie movenze, o sapere che una specie x è stata salvata dall’estinzione. E se mi angustiano, quotidianamente, come immagino accada a chiunque non sia totalmente assuefatto alla violenza dominante, le vessazioni che tanti popoli oppressi subiscono in tante parti del mondo, penso che, in una società che si emancipasse dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo al prezzo di continuare a sfruttare e devastare il mondo animale nelle forme oggi vigenti (si pensi solo ai circa 170 miliardi di animali che nascono ogni anno negli allevamenti intensivi e muoiono ogni anno nei macelli o all’incalcolabile numero di pesci che, tra allevamenti ittici e pesca industriale, vengono ammazzati nello stesso periodo), personalmente, continuerei a sentire quel profondo disagio e quei conflitti che provo nella società attuale.
L’antispecismo libertario, quale personalmente lo intendo, è dunque lotta per una società in cui sia abolita ogni forma di coercizione e sfruttamento coatto, sia nei confronti degli esserti umani, sia nei confronti degli altri esseri senzienti. Una società incentrata sull’anarchia intesa, non in modo dogmatico, ma come idea regolativa, utilizzabile nelle pratiche quotidiane di ciascuno, nei rapporti con i propri simili e con gli ambienti che abitano, con animali di altre specie e con gli ecosistemi in cui vivono. Un comunismo libertario esteso a quella comunità interspecifica della quale, di fatto, facciamo parte, e la cui sopravvivenza è per noi stessi essenziale.
Marco Celentano
[1] Oxfam Italia, Diseguaglianza, https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2024/01/Rapporto-OXFAM-Disuguaglianza_il-potere-al-servizio-di-pochi_15_1_2024.pdf.
immagine: Ericailcane, Manifestazione