La pandemia COVID-19, con i processi infettivali in via di esaurimento in Italia ed in altri paesi, ma in pieno sviluppo in molti altri nel mondo, ha portato con sé l’evidenza dei limiti strutturali del capitalismo. Limiti ovviamente intesi come capacità di soddisfare i bisogni umani in generale e non come capacità di arricchire a dismisura pochi a spese della grande maggioranza dell’umanità: da questo punto di vista il capitalismo funziona benissimo e difficilmente si potrebbe pensare a qualcosa di più efficiente, anche se come suol dirsi al peggio non c’è mai fine.
Com’è noto, la pandemia ha comportato quasi ovunque politiche di chiusura di gran parte delle attività economiche ritenute non indispensabili e molte di queste, anche nella cosiddetta Fase Due, riapriranno a regime ridotto di funzionamento, quelle che se lo potranno permettere, ovviamente, dato che è assai probabile la chiusura definitiva di molte di esse ed, anzi, molte attività hanno già chiuso i battenti. I dipendenti di queste sono andati ed andranno ad ingrossare le fila dei disoccupati, insieme a molti dei loro piccoli “datori di lavoro”, alle tante attività individuali ed ai tanti altri lavoratori dipendenti licenziati dalle tante aziende che riprendono le attività a regime ridotto quindi, mantenendo in attività solo una parte della forza lavoro in carico prima della pandemia.
La situazione generale è stata descritta ad inizio mese di Giugno dal solito rapporto ISTAT che ha descritto la situazione all’Aprile 2020 e che è stato analizzato nell’articolo precedente. Qui, invece, proveremo a fare considerazioni più generali, anche nel senso che la situazione che descriveremo prescinde dalle specificità di ogni singolo paese.
Innanzitutto, come dicevamo, il capitalismo è una notevole macchina produttrice di diseguaglianza: da questo punto di vista, le cosiddette “crisi” non sono effettivamente tali in un’ottica sistemica ma, al contrario, un momento di sviluppo delle disuguaglianze stesse oltre il livello precedente. Cominciamo a vedere le cose dal punto di vista degli imprenditori piccoli e medi: le crisi economiche tutte – e tanto più quelle di grossa portata come questa che vede e soprattutto vedrà amplificati i vari effetti locali dal suo carattere internazionale – sono l’occasione per l’innesco dei processi di concentrazione aziendale.
Facciamo un esempio banale, ma che può essere facilmente esteso alle attività economiche di ogni altro genere: le palestre. Buona parte di esse non hanno già da ora riaperto e molte stanno svendendo i macchinari, in quanto le notevoli restrizioni imposte dai vari decreti sulla riapertura renderebbero del tutto insufficienti, per non dire negativi, i margini di guadagno. Hanno riaperto solo quelle che hanno alle spalle una riserva di capitale tale da potersi permettere un periodo ad introiti ridotti, con l’obiettivo di attrarre i clienti delle palestre chiuse e, sul medio periodo, di restare sul mercato in un regime di concorrenza ridotta ed eventualmente acquistare il controllo delle palestre dismesse, riaprendole sotto il loro marchio, inglobando eventualmente gli ex proprietari come dipendenti. Come dicevamo, l’esempio è facilmente generalizzabile a tutte le attività economiche ed indica in prospettiva una ulteriore proletarizzazione di fasce del ceto medio.
Ragioniamo adesso dal punto di vista dei lavoratori dipendenti o di quei lavoratori autonomi paragonabili ai primi per fasce di reddito. Come si è visto dai dati ISTAT, la crisi sta colpendo fortemente anche loro, sia perché in molti hanno perso il lavoro sia perché il loro reddito è diminuito sensibilmente: si pensi, per fare solo due esempi, a chi ora si aspetta come reddito la Cassa Integrazione Guadagni ed a chi, lavoratore formalmente autonomo, ha visto ridurre le richieste delle sue prestazioni d’opera.
La cosa, purtroppo, pare sia solo all’inizio: la diminuzione del reddito circolante porterà all’innescarsi a livello macroeconomico del fenomeno della “(de)moltiplicazione” keynesiana.[2] In altri termini, la diminuzione delle commesse dovuta al decremento dei consumi da parte di chi non può più spendere come in precedenza, rischia di innescare meccanismi a cascata – le attività produttive messe in crisi da questa contrazione delle richieste di beni e servizi reagiranno con ulteriori licenziamenti (se non addirittura vere e proprie chiusure con la perdita generalizzata dei posti di lavoro), la qual cosa innescherà ulteriori effetti demoltiplicativi, i quali porteranno ad ulteriore perdite di reddito, ecc. Il tutto in uno scenario di un’economia da lungo tempo globalizzata, per cui i fenomeni demoltiplicativi descritti non restano rinchiusi all’interno dei singoli paesi ma, al contrario, si allargheranno a livello internazionale, per cui verrà fortemente meno, anche dal punto di vista dei singoli esseri umani, la scelta estrema dell’emigrazione in cerca di un lavoro che starà contraendosi un po’ ovunque.
Le prospettive che si vedono per il futuro della gran parte dell’umanità, salvo quella piccola fetta che si avvantaggerà dei fenomeni di concentrazione aziendale, non sono pertanto affatto rosei: questo scenario è quello che, in tutto il mondo, ci toccherà affrontare a brevissimo, volenti o nolenti. In che modo?
Restando all’interno della logica del capitalismo, ci sarebbe la prospettiva di riuscire ad ottenere politiche di redistribuzione del reddito in un’ottica keynesiana. In termini concreti, utilizzare il reddito delle fasce sociali ricche per finanziare forme di assistenza al reddito della stragrande maggioranza dell’umanità sia dirette – tramite redditi di esistenza o similari – sia indirette – allargamento dei servizi sociali con la formazione di nuovi posti di lavoro e la gratuità de suddetti servizi.
Questo, appunto, come dicevamo, restando all’interno della logica del capitalismo e delle sue storture che, come si è visto, le politiche di stato sociale dei “trent’anni d’oro” hanno saputo tamponare solo temporaneamente e solo fin quando i rapporti di forza erano relativamente favorevoli, venendo facilmente e velocemente meno appena le classi dominanti hanno ripreso il controllo della situazione lasciando nuovamente libero sfogo ai loro “spiriti animali”.[3] Ragionando invece nell’ottica di un superamento definitivo del dominio dell’uomo sull’uomo, occorrerebbe invece approfittare della situazione per riproporre a livello di massa una destrutturazione radicale del sistema economico attuale in direzione di una società autogestionaria, basata economicamente sul principio lucreziano “da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo i suoi bisogni” evitando la trappola ideologica marxista della “fase di transizione” la quale, oramai è certo, è solo un meccanismo di riproduzione del presente stato di cose.
In realtà, però, la strada effettivamente praticabile è solo quest’ultima: le classi dominanti hanno sempre ceduto qualcosa del loro potere solo quando hanno avuto paura di perderlo completamente. Questa cosa Malatesta la espresse brillantemente nelle pagine di questo stesso giornale: i riformisti, quando hanno apparentemente successo, è solo perché i rivoluzionari hanno raggiunto una forza tale da far seriamente temere un superamento radicale della società presente.[4]
L’interesse generale delle classi dominate, pertanto, è dare fiato e gambe ad una lotta che abbia come obiettivo una società davvero diversa e possibile, che superi questo gioco al massacro che è la società presente, la società gerarchica.
Enrico Voccia
NOTE
[1] https://www.istat.it/it/files//2020/06/CS_Occupati_disoccupati_APRILE_2020.pdf.
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Moltiplicatore_keynesiano
[3] http://www.treccani.it/enciclopedia/spiriti-animali_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)/
[4] MALATESTA, Errico, Le Due Vie. Riforme o Rivoluzione? Libertà o Dittatura?, in Umanità Nova, 12 agosto 1920.