Con vivo piacere ho letto l’articolo Sono anarchico, dunque antispecista inviato da Nicholas Tomeo e pubblicato su UN del 29/01/17. Sul nesso tra lotta per il comunismo libertario, o anarchismo sociale, e lotta antispecista, sulla necessità e urgenza di una coesione e integrazione tra queste diverse forme del conflitto sociale, culturale ed economico, mi ero già espresso su questo giornale e altrove in anni passati, e sono tornato a farlo, recentemente, su UN del 22/06/16, con l’articolo Per un comunismo libertario degli individui, dei generi delle genti e delle specie che si apriva con queste parole: “L’antispecismo libertario, quale personalmente lo intendo, è lotta per una società in cui sia abolita ogni forma di coercizione e sfruttamento coatto, sia nei confronti degli esseri umani, sia nei confronti degli altri animali”.
Le interessanti questioni poste da Nicholas mi offrono spunto per tornare sull’argomento. La rivendicazione dell’antispecismo come posizione che l’anarchismo contemporaneo, pur nel pieno rispetto delle scelte individuali, dovrebbe far propria, pena l’entrare in conflitto con le proprie stesse motivazioni e finalità, che l’autore avanza nell’articolo, mi trova, si sarà già compreso, concorde. Perplesso e un po’ sorpreso mi ha lasciato, invece, il fatto che Nicholas parli dell’anarchismo, e dell’antispecismo, come di teorie, mentre io li definirei piuttosto movimenti di lotta caratterizzati certamente da determinati presupposti teorici, ma anche dalla dimensione pratica e dall’intenzione trasformativa che è propria dei movimenti, non necessariamente delle teorie. Confrontarmi con questa definizione dell’autore mi ha tuttavia fatto riflettere sul fatto che l’anarchismo, in effetti, è, ha bisogno di essere, anche teoria, nel senso dello sforzo di fare, produrre, esprimere teoria critica, ovvero, teoria che non ipostatizza i fini pratici o le aspirazioni che veicola, che non pretende di sussumere l’esistente o la storia nel concetto, che mostra, invece che rimuoverli, le contraddizioni che attraversano il pensiero, i conflitti che attraversano la realtà sociale umana, i loro nessi.
Venendo, appunto, al nesso tra lotta per la liberazione umana dallo sfruttamento sociale e lotta per la liberazione animale, ma anche restando sul tema dei contraddizioni e conflitti che tutti noi, anarchici e non, incameriamo dalla società in cui viviamo e riproduciamo nei gesti quotidiani, agli argomenti già avanzati da Nicholas per evidenziare che il farsi complici di quel sistema mondiale di schiavizzazione e massacro industriale che miete, solo nel settore dell’allevamento, almeno 150 miliardi di vittime all’anno dovrebbe risultare in contrasto con i fini e le motivazioni dell’ anarchismo, vorrei aggiungere qualche dato empirico.
Vogliamo parlare per un attimo di vite “ovaiole”, ovvero, della vita che fanno le galline ovaiole e i loro pulcini, negli allevamenti intensivi, di quanto durano e come sono?
“È antropomorfismo provare a immaginarsi dentro la gabbia di un animale da allevamento? È antropodiniego non farlo? Una gabbia per galline ovaiole concede in genere a ogni animale una superfice di quattro decimetri quadrati: uno spazio grande poco meno di un foglio A4. Le gabbie sono accatastate in pile da tre a nove (…) tutti i pulcini maschi delle ovaiole – metà dei pulcini di gallina ovaiola che nascono negli stati Uniti; più di duecentocinquanta milioni l’anno – vengono distrutti” scriveva Safran Foer in un libro uscito nel 2009.[1]
“Il taglio del becco, con l’esclusione dell’allevamento biologico, è indubbiamente la mutilazione praticata più di frequente negli allevamenti di ovaiole, in particolare in quelli in gabbia, ma è spesso attuato anche negli allevamenti a terra e in quelli di polli da carne, allo scopo di ridurre la mortalità e la morbilità causate dalla plumofagia, dalla pica e dal più grave fenomeno del cannibalismo” riporta un articolo pubblicato su Large Animal Review.[2]
Vogliamo parlare un attimo di vite da broiler (pollo da carne)? Potremmo scandirne la sequenza così:
Crescita
“Una volta i polli avevano un’aspettativa di vita di 15-20 anni; oggi di regola i broiler vengono macellati verso le sei settimane”.[3]
Alimentazione
“Per produrre i tuoi broiler, lascia le luci accese quasi ventiquattr’ore al giorno durante la prima settimana di virta dei pulcini. Così li incoraggerai a mangiare di più”.[4]
Ingabbiamento e trasporto
“Se le operazioni si svolgono a una velocità adeguata (…) gli uccelli non saranno certo trattati coi guanti e, a quanto mi hanno raccontato, gli addetti sentono di continuo le ossa spezzarglisi in mano”.[5]
Soppressione
“La guidovia trascina i poli in una vasca elettrificata che con ogni probabilità li paralizzerà senza renderli insensibili. Dopo essere passati per il bagno, gli occhi dell’uccello paralizzato possono ancora muoversi”.[6]
Lavorazione
“gli uccelli vengono aperti da una macchina con un’incisione longitudinale per l’eviscerazione. La contaminazione spesso avviene qui, poiché il macchinario (…) squarcia di frequente l’intestino permettendo il travaso dele feci nelle cavità corporeee”.[7]
P. Lymbery, che non è un antispecista, ma il direttore di Compassion in World Farming International, ONG dedita alla tutela del “benessere” degli animali allevati a scopo alimentare, e l’autore con I. Oakeshott del bestseller Farmageddon. Il vero prezzo della carne economica (2014), dopo un’indagine che ha coperto i cinque continenti, riporta questi dati: a livello globale, almeno il 70% della carne di pollame, il 50% di quella di maiale, il 40% di quella bovina, e il 60% delle uova vengono prodotti in allevamenti intensivi. Ma, se si guarda, per esempio, ai dati relativi all’Italia, le percentuali sono molto più alte: l’85% dei polli, il 95% dei suini, quasi tutte le mucche da latte, vivono in allevamenti intensivi.
Oggi, con una popolazione mondiale che supera i 7 miliardi di persone, più di un miliardo delle quali soffre la fame, un terzo del raccolto mondiale annuo di cereali viene destinato al bestiame rinchiuso negli allevamenti industriali. Se fosse utilizzato per il consumo umano diretto basterebbe, secondo i calcoli di Lymberly, a sfamare circa 3 miliardi di persone.
Riflessi non meno drammatici ha lo sviluppo degli allevamenti intensivi sulla deforestazione, sull’inquinamento e sulla salute umana. Ogni anno, scrive l’autore, viene abbattuta un’area di foresta pari alla metà della Gran Bretagna e i motivi sono principalmente due: ottenere terreni su cui coltivare soia transgenica e altri mangimi per animali, nonché liberare spazi in cui impiantare grandi allevamenti industriali. A livello mondiale, l’industria del bestiame contribuisce quasi al 15% delle emissioni di gas serra prodotte dall’uomo, superando le emissioni di tutti i mezzi di trasporto messi insieme. A causa delle malattie indotte dalle loro condizioni di vita e da malformazioni genetiche dovute alla selezione artificiale, una buona metà degli antibiotici utilizzati nel mondo viene somministrata agli animali da allevamento, e questa pratica, come è noto, contribuisce a creare l’emergenza dei “superbatteri” resistenti agli antibiotici. Sproporzionata appare, a fronte delle ragioni suddette, anche l’“impronta idrica” della produzione carnea, ovvero il suo impatto in termini di consumo d’acqua. Mentre 2 miliardi di persone circa soffrono per la scarsità di risorse idriche, e si prevede che se continueranno gli andamenti attuali il loro numero triplicherà entro il 2050, secondo calcoli forniti da R. Pachauri, presidente del Gruppo intergovernativo di esperti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC), per produrre ogni singolo chilo di carne di maiale immesso sul mercato vengono impiegati, attualmente, circa 4900 litri d’acqua, 15.500 per un chilo di manzo.
Dunque, un aspetto che, a mio avviso, sarebbe bene fosse chiaro a tutti, anarchici e non, è che questione sociale, questione animale e questione ambientale non sono oggi più separabili. Non meno delle campagne per la difesa dell’ambiente naturale e della biodiversità dalla devastazione capitalistica, non meno delle lotte per il libero accesso ai beni primari o dell’impegno contro guerre, povertà e sfruttamento, le istanze del movimento antispecista sono oggi portatrici di un’esigenza che il sistema liberal-capitalistico, per sua intrinseca natura, in forza delle stesse forme di organizzazione del lavoro e appropriazione dei suoi prodotti su cui si basa, non è in grado di soddisfare: garantire che almeno certi ambiti dell’esistenza umana e non umana vengano sottratti alla mercificazione.
Le lotte per sottrarre uomini, animali ed ecosistemi allo sfruttamento capitalistico e all’asservimento sono, perciò, tra loro, indissolubilmente intrecciate. La libertà e la dignità che l’umanità ha da riconquistarsi, la crisi ecologica globale, la dignità e libertà da restituire alle vite animali, smantellando i campi di macellazione in cui rinchiudiamo le specie domesticate e preservando gli ambienti in cui vivono le specie selvatiche ancora non estinte, non potranno né essere pensate con coerenza, né tanto meno efficacemente perseguite, se separate una dall’altra o contrapposte l’una all’altra. Come già, con altre parole, ho avuto modo di suggerire, né lago, né pianura, né farfalla né elefante, né l’occidente geloso dei suoi sempre più erosi privilegi, né l’ultimo dei migranti potrà salvarsi dalla riduzione a mero strumento del profitto entro un’economia, una società e una cultura fondati sull’accumulazione del profitto stesso. Ecco, in due parole, il nesso tra questione sociale, ambientale e animale.
Tenere insieme, mettere in reciproca tensione, lasciar interagire due matrici del cambiamento sociale – la modifica delle abitudini quotidiane, dei modi far vita sociale, delle ritualità condivise che una consapevolezza antispecista e un impegno ecologista libertario richiedono, da un lato, e dall’altro la ricerca e sperimentazione di forme di organizzazione delle attività produttive e riproduttive che vadano oltre il capitalismo, oltre la riduzione di ogni vita a merce che esso ha universalizzato, oltre la Statualità e la perenne riduzione di ogni uomo alla condizione di “minorità” che essa istituisce, è, a mio avviso, il compito di un new libertarian communism. Un nuovo comunismo libertario, già in parte emergente dallo sforzo di confrontarsi con le sfide del presente che, in ogni angolo di mondo in cui operano i compagni fanno (e il diffondersi dell’antispecismo nel movimento anarchico ne è un positivo segno), in parte, invece ancora da costruire. E ciò, Malatesta insegna, può essere fatto solo integrando e assimilando, non autoritativamente, né passivamente, ma come effettiva occasione di scambio e di rielaborazione del proprio approccio, alle radici dell’anarchismo che ci portiamo dietro dalla tradizione otto/novecentesca, tutte le esigenze emergenti dalle forme attuali del conflitto e del disagio, attraverso un anarchismo sperimentalista le cui forme e i cui contenuti non potranno in nessun caso essere delineati prescindendo da epoca e contesto, ma vanno invece a questi commisurati con la massima resilience possibile.
Marco Celentano
NOTE
[1] J.S. Foer, Se niente importa. Perché mangiamo gli animali, ed. or. 2009, tr. it. Guanda, Parma 2010, pp. 55, 56.
[2] V. Quartarone, G. Della Rocca, A. Passantino, Il debeccaggio e altre fonti di dolore nelle galline ovaiole e nei polli da carne, in «Large Animal Review», 18, 5, 2012, pp. 245-252.
[3] J.S. Foer, op. cit., p. 56.
[4] Ivi, p 143.
[5] Ivi, p 144.
[6] Ivi, p 145.
[7] Ivi, p. 146.