Pietro Gori trasformò l’immagine dell’anarchismo, liberandolo dal cliché del bombarolo e del violento caro ai poliziotti e ai giornalisti prezzolati, diventando l’alfiere dell’anarchismo operaio e organizzatore.
Ma come è stato possibile che questo giovane di buona famiglia, avviato ad una brillante professione di avvocato, si trasformasse in un agitatore ed organizzatore, perseguitato dai governi e dalle polizie di mezzo mondo, e acclamato dalle folle che assistevano alle sue conferenze e ai suoi comizi? Proprio lo studio del diritto, la ricerca scientifica sulle cause della criminalità sono state fondamentali nella sua maturazione politica, oltre alla frequentazione dell’effervescente ambiente pisano di quegli anni. Nel 1889 si laurea in giurisprudenza all’università di Pisa, con una tesi su la miseria e il delitto. La ricerca scientifica e la militanza politica vanno di pari passo. Il suo orientamento passa dalla scuola della giurisprudenza classica a quella positivistica, che allora si va affermando. Così più tardi ricorderà il contrasto fra le due scuole: la scuola classica del diritto penale sostiene che delitto è ogni violazione del diritto, e concentra la sua attenzione sullo studio dell’atto criminoso, facendone un’astrazione giuridica; la scuola positivista che si afferma nell’ultimo quarto del XIX secolo, riportando l’attenzione sul delinquente, cioè su chi compie il delitto, così definisce il delitto: delitto è ogni offesa ai sentimenti fondamentali di probità e di pietà. Pietro Gori sviluppa questo concetto e lo sintetizza così: “delitto è ogni azione dell’uomo determinata da cause antigiuridiche che violi alcuno dei diritti naturali o sociali degli altri individui, sul mutuo e spontaneo riconoscimento dei quali si regge una società”.
La scuola positivista però, per reazione all’astrattismo precedente, si specializzò nello studio quasi esclusivo del delinquente, come persona a sé stante, e quasi staccata dal rimanente del mondo cosmico e sociale. L’antropologia criminale si cristallizzò nell’esame antropometrico e nelle indagini aprioristiche sul tipo del delinquente. Sono le concezioni sviluppate soprattutto da Cesare Lombroso, che, con la sua antropologia criminale, dà una veste scientifica ai pregiudizi di una classe dominante gretta e autoritaria.
Lombroso si occupa specificamente degli anarchici, che raggruppa nella categoria dei criminali nati, dividendoli poi in pazzi e mattoidi: la natura criminale dell’anarchico è dimostrata dalle fattezze irregolari. Si capisce come queste concezioni di Lombroso fossero accettate come verità rivelate dai governanti e da tutte le classi privilegiate. Quando nel 1876 la Sinistra andò al governo nel Regno d’Italia, la repressione contro le classi sfruttate e le loro organizzazioni si intensificò. In un suo intervento alla Camera, il ministro degli interni di allora sostiene che gli ampi principi di libertà non possono essere applicati agli internazionalisti. Le pene riservate ai delinquenti comuni, come l’ammonizione e il domicilio coatto, possono essere applicate legittimamente agli internazionalisti, senza paura di colpire mai un uomo politico fra di essi, perché la maggior parte degli internazionalisti in Italia sono illetterati, e nessuno potrebbe confondere questa gente con pensatori, scienziati o giornalisti, che studiano, discutono e lottano per un principio, una forma di governo o un sistema economico. Le questioni politiche sono solo slogan, secondo il ministro, sotto cui gli internazionalisti celano le loro nefaste attività; il loro reale obiettivo è depredare i possidenti e usare il malloppo a proprio beneficio. E conclude che l’Internazionale è solo un’associazione di malfattori, che non impensierisce il Governo. Questa associazione non ha nessuna importanza politica, e non è neppure destinata a provocare una rivoluzione sociale.
Negli anni ‘90 la repressione assume carattere sempre più violento e di massa: gli stati d’assedio e le stragi di proletari si succedono in Sicilia, a Massa Carrara, a Milano, per non citare che le più importanti. Pur con alcune differenze, moderati e conservatori concordano sulla necessità di attaccare gli anarchici e le organizzazioni dei lavoratori come pericolosi miscredenti dediti alla distruzione della società, piuttosto che come sovversivi politici che cercavano di guidare gli operai e i contadini oppressi in rivolta. Tutti i gruppi parlamentari concordavano sul fatto che l’anarchismo non era una genuina filosofia politica, e che il diritto di assemblea e le altre libertà garantite dallo Statuto albertino non si applicavano ad uomini che non combattevano per un principio o per un’idea, ma per il piacere di distruggere la società. Il governo ottenne un larghissimo sostegno dalla Camera dei Deputati quando annunciò la sua determinazione ad usare l’”articolo 248” contro gli anarchici. L’infame provvedimento del codice penale “riformato”, ispirato da Zanardelli, permise allo Stato di perseguitare gli anarchici come un’associazione di malfattori, con più facilità di prima. Quando Francesco Crispi, divenuto primo ministro, presenta le sue leggi autoritarie, anche il piccolo drappello di deputati socialisti si schiera contro il movimento anarchico. Questo non salverà loro dall’essere dichiarati decaduti da deputati e il loro partito dallo scioglimento.
Pietro Gori combatte sul piano teorico la concezione di Lombroso, sostenendo che è la società a creare le condizioni materiali del delitto, con la miseria, l’ignoranza, la degradazione sparse a piene mani fra gli sfruttati, e combatte sul piano politico la persecuzione degli anarchici, ricordando ai liberali le promesse mancate. L’orientamento teorico a cui aderisce Pietro Gori sarà definito “sociologia criminale”, ed intende mettere in luce proprio le cause sociali dei comportamenti antisociali, che spesso sono considerati legittimi dall’ordinamento giuridico. L’unico mezzo per combattere la delinquenza è una trasformazione sociale che, attraverso la proprietà comune della terra, degli strumenti e dei prodotti del lavoro metta fine alla miseria. Ma per fare questo è necessario abbattere l’ordinamento giuridico e lo Stato, che della difesa della proprietà di pochi fanno il loro primo compito. Quale migliore conferma della validità dell’idea anarchica? Proprio lo studio spassionato della legge e del delitto porta Pietro Gori a negare la necessità della legge e dello Stato.
La riflessione di Pietro Gori coincide con l’orientamento generale del movimento anarchico: già negli statuti dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (1864) si sosteneva che “la soggezione economica del lavoratore nei confronti dei detentori dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, è la causa prima della schiavitú in tutte le sue forme, di ogni miseria sociale, di ogni pregiudizio spirituale e di ogni dipendenza politica”; parole riecheggiate nel Programma Anarchico: “la causa principale dì tutte le soggezioni morali e materiali cui i lavoratori sottostanno, è l’oppressione economica, vale a dire lo sfruttamento che i padroni e i commercianti esercitano su di loro, grazie all’accaparramento di tutti i grandi mezzi di produzione e di scambi.” Pietro Gori d’altra parte cita esplicitamente Pietro Kropotkin per le sue riflessioni sulla legge e il diritto.
La riflessione sulle cause sociali del delitto porta Pietro Gori a definire la tattica del movimento anarchico: non solo la rivoluzione sociale e la trasformazione che ne deriverà rimuoverà le cause sociali del delitto, ma la stessa lotta degli sfruttati per la riduzione dell’orario di lavoro e il miglioramento delle condizioni di vita li renderà più ricettivi alla propaganda rivoluzionaria, sviluppando l’aspirazione alla libertà e il senso di solidarietà che saranno il cemento della nuova società. Si tratta di considerazioni innovative all’interno del movimento anarchico del tempo, che si era formato a partire dall’Internazionale antiautoritaria puntando sull’imminente rivoluzione e guardando con sospetto la lotta per i miglioramenti immediati che, per la maggior parte dei militanti e dei teorici, rischiava di assuefare i proletari allo sfruttamento capitalistico. D’altra parte, l’importanza attribuita alla lotta economica rappresentava una valida alternativa all’avvitarsi della propaganda del fatto in azioni di rappresaglia nei confronti dei responsabili dei momenti più violenti di repressione.
L’alba del nuovo secolo porterà un nuovo clima politico, in cui il movimento anarchico sarà più o meno tollerato: questa nuova situazione è un prodotto sia delle revolverate di Monza, che della propaganda degli anarchici, a cui Pietro Gori diede un contributo fondamentale.
Tiziano Antonelli