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Primitivismo, transumanesimo, tecnica, scienza

Primitivismo, transumanesimo, tecnica, scienza

 
Venus_von_Willendorf_01Lungi da me voler dare un giudizio definito su primitivismo e transumanesimo, nonostante entrambe le filosofie mi appaiano inadeguate a fornire risposte alle domande della post-modernità. Voglio provare, invece, dialogando con gli articoli relativi al dibattito svoltosi sulle pagine di questo giornale, a delineare un discorso in grado di far emergere delle tracce in grado problematizzare le filosofie in esame.
Anzitutto, la prima questione da evidenziare riguarda alcune problematiche – inerenti le società primitive di oggi e di ieri – che un eventuale quanto improbo ritorno a uno stato di “inciviltà” potrebbe trascinarsi dietro. Ritengo che le posizioni espresse dai compagni del Collettivo Anarchico Incubo Meccanico nell’articolo di risposta a “Transumanesimo ed Emancipazione Sociale” sia gremito di imprecisioni e tralasci elementi alla luce dei quali la proposta primitivista può essere ridiscussa.
Secondo il C.A.I.M. “oramai ogni antropologo concorda sul fatto che agricoltura e allevamento, economia e tecnologia siano alle fondamenta di rispettivamente lavoro, divisione del lavoro, malattie, sfruttamento della terra e delle sue risorse, stati e guerre”[1]. Questa proposizione non corrisponde al vero per una serie di ragioni. Intanto studi come quelli di Marija Gimbutas e Riane Eisler su scavi archeologici relativi ad alcune comunità del paleolitico e del neolitico sembrano provare l’esistenza di società egualitarie e pacifiche dedite all’agricoltura – il che ci impedisce di sostenere un rapporto di parentela diretto tra guerra e agricoltura. Ciò non significa che l’avvento dell’agricoltura, per una serie di ragioni, non abbia influito sull’aumento delle guerre: effettivamente diversi studi sembrano poter affermare l’aumento delle guerre in corrispondenza con l’avvento dell’agricoltura. Tuttavia, ciò che ci interessa è l’esclusione dell’attività agricola come fattore genetico della guerra.
Inoltre, dati etnografici ci mostrano come la guerra, per le società “primitive”, era una realtà costante e piuttosto estesa. Pierre Clastres, nell’Archeologia della Violenza, chiarisce le ragioni per cui nel discorso etnologico a lui coevo le società primitive appaiono essenzialmente delle società contro la violenza. Nella sua interpretazione “la guerra primitiva è invisibile [alle ricerche etnografiche] perché non ci sono più guerrieri per farla”.[2] L’unica eccezione è costituita dalla società degli Yanomami amazzonici nella quale, a causa dell’isolamento secolare che gli ha permesso di vivere “come se l’America non fosse mai stata scoperta”[3], è possibile scorgere l’onnipresenza della guerra.
In pratica l’etnologia non parla di guerra perché le società primitive studiate dagli etnologi sono già lungo il cammino della morte e, dunque, l’assenza di una riflessione sulla violenza può essere spiegata per la scomparsa della guerra in conseguenza della perdita della libertà di queste società. Al contrario, quando l’Europa entrò in contatto con quelle culture che verranno definite, secondo una logica oppositiva, società naturali, l’evidenza della guerra colpì i viaggiatori europei come è possibile intuire dalle note dei cronisti dell’epoca. Evidenza che, tra le altre cose, spinse Hobbes a giustificare la sua teoria sullo stato di natura appellandosi a dati osservabili.
Particolarmente interessante, poi, è la critica mossa all’interpretazione economicistica – ed alla sua “variante” marxista – della guerra e a quella scambista. Secondo il discorso economicista, l’economia primitiva è un’economia prevalentemente misera ed essenzialmente di sussistenza; in tale ottica la guerra appare come il risultato della scarsità delle risorse, dovuta a determinate forze produttive, la cui conseguenza non può essere altro che un incremento della competizione tra i gruppi per l’appropriazione delle risorse mancanti – da qui il conflitto armato.
Gli etnologi marxisti d’altro canto, precisa Clastres, non apportano nessun significativo cambio di prospettiva all’interpretazione economicistica. Marvin Harris e Daniel Gross, infatti, spiegano la guerra tra gli indiani amazzonici appellandosi alla scarsità di proteine nell’alimentazione, cosa che comporta la ricerca di territori nuovi e lo scontro con le popolazioni stanziate nei luoghi da conquistare. Siccome il processo storico è dominato dalla legge dello sviluppo delle forze produttive, è opportuno che vi sia “una sorta di grado zero”[4] di queste forze: una situazione di debolezza delle forze produttive. Questo il ruolo dell’economia primitiva la quale, per la situazione di miseria, non può fare altro che avviare lo sviluppo delle forze produttive. Riecheggia, dunque, la visione secondo la quale l’economia primitiva non sarebbe in grado di fornire un’alimentazione adeguata.
In realtà, su questo punto Clastres non è preciso; i testi di Marvin Harris invece ci rivelano che anch’esso era cosciente dell’abbondanza dell’economia primitiva. In Cannibali e Re, come è evidenziato nell’articolo del Collettivo Anarchico Incubo Meccanico, Harris accenna allo stile di vita dei primitivi i quali “vivevano una vita molto più sana di quella di molti dei loro posteri”.[5] Sicuramente la quantità di lavoro era minore rispetto al periodo in cui si sviluppò l’agricoltura: secondo Harris, per esempio, “il segreto delle così poche ore dedicate dai boscimani alla caccia e alla raccolta sta nell’abbondanza e nell’accessibilità delle risorse disponibili: animali e piante”.[6] L’abbondanza e il tempo libero sarebbero il risultato di una densità demografica bassa. “Studi di cacciatori raccoglitori di oggi e del recente passato rivelano che la pratica dell’agricoltura è spesso trascurata non per ignoranza ma per convenienza (…). I cacciatori-raccoglitori spesso dicono di possedere tutte le capacità e le tecniche necessarie per la pratica dell’agricoltura ma si astengono dal coltivare alcunché”.[7]
Comunque sia uno dei prezzi da pagare per il mantenimento di una bassa densità demografica – la quale, come già detto, consentiva un relativo tempo libero e abbondanza di risorse – era l’infanticidio: la guerra è il risultato della mancanza di tecniche meno costose per mantenere una bassa pressione demografica. Alla luce di questi elementi possiamo dire che nell’interpretazione di Harris “il grado zero delle forze produttive” non è costituito dall’economia primitiva in sé, considerata da Harris abbondante. La tendenza all’incremento delle forze produttive è invece il risultato della pressione demografica in conseguenza della quale, a causa dello squilibrio di cui è generatrice, i gruppi di cacciatori-raccoglitori reagiscono mediante tecniche di riduzione della tensione demografica quali l’infanticidio femminile (il maschio era destinato al combattimento) e la guerra.
Insomma Harris fonde i motivi marxiani con quelli malthusiani dello squilibrio tra popolazione e risorse. Il momento determinante per quanto concerne l’intensificazione delle tecniche di produzione si ha quando i livelli di vita diminuiscono. Le nuove tecniche, determinando l’intensificazione dello sfruttamento delle risorse, conducono a successivi esaurimenti che, a loro volta, porteranno all’invenzione di ulteriori tecniche. “Pressioni demografiche hanno predisposto i nostri antenati dell’età della pietra a intensificare la produzione in risposta al ridursi del numero di animali da caccia grossa provocato da mutamenti climatici alla fine dell’ultima era glaciale. L’intensificazione del modo di produzione basato sulla caccia e la raccolta ha aperto a sua volta la strada verso l’agricoltura, che ha quindi intensificato la competizione fra i gruppi, la guerra e lo sviluppo dello Stato”.[8]
La riflessione materialistica di Marvin Harris, seppur mi pare un po’ riduzionista nella linea tracciata per descrivere momenti salienti della storia dell’umanità, ci fornisce spunti per riflettere su alcune relazioni intercorrenti tra l’essere umano e l’ambiente a lui circostante, elementi da cui dedurre costanti da inserire eventualmente, ma soprattutto cautamente, in un discorso storico e antropologico. Anzitutto, è opportuno osservare che, a causa del rapporto eteronomo che noi esseri umani intratteniamo con le condizioni materiali di esistenza, qualora si venisse a verificare uno squilibrio nel ricambio organico tra noi e la natura si avrebbe probabilmente la formazione di quell’ente in divenire la cui essenza può essere riassunta mediante il sostantivo “sviluppo”. Un ente dunque alimentato da una pressione, da una forza da superare. Un ente dominato dalla volontà di vincere una resistenza. Contrariamente, si potrebbe anche accettare la pressione e accettarne le conseguenze. Soluzione improbabile: la volontà di vivere dell’essere umano, di ogni essere umano, renderebbe difficile una risposta di questo genere. Comunque sia, pressioni demografiche di un certo tipo avrebbero potuto determinare situazioni di conflitto.
Detto ciò non mi sembra soddisfacente e completa un’analisi della guerra tenendo conto solamente di elementi materiali. In ogni caso, prendendo per buona la possibilità che una pressione demografica sia, se non causa scatenante della guerra, perlomeno uno dei possibili fattori generativi di un particolare conflitto, come risolverebbero una situazione del genere i primitivisti? Mi spiego meglio: l’assenza di tecnologie comporterebbe l’assenza di una comunicazione estesa globalmente e l’esistenza di comunità estremamente decentrate, a causa della mancanza di comunicazione, permetterebbe di instaurare relazioni con un numero relativamente basso di gruppi esterni al proprio. Siccome la razionalità ci permette di prevedere, ma entro un certo limite, qualora si venisse a verificare uno squilibrio tra risorse e popolazione quali tecniche di riassestamento si opererebbero?
L’eterogeneità dei sistemi politici delle comunità e delle situazioni da affrontare non consentirebbe, inoltre, la permanenza di un sistema politico libertario duraturo. Insomma il discorso primitivista ha il merito di sollevare questioni centrali in modo radicale, ma la risposta data a tali questioni non credo possa coincidere con un vero e proprio progetto di emancipazione sociale. Al limite, esso può accontentarsi di rappresentare un determinato discorso di un certo contropotere e sviluppare pratiche al di fuori della società rinunciando allo scontro di classe. Nulla di più mi sembra si possa intravedere per la messa in pratica dell’anarco-primitivismo.
Inoltre il concetto di tecnica espresso dal CAIM è troppo generico. L’infanticidio stesso cos’è se non tecnica? In quale misura è possibile sostenere una riconciliazione con il mondo naturale? Inoltre cos’è l’uomo se non un essere naturale la cui natura è in parte il suo essere un essere culturale in divenire? Cosa si intende per natura? Per ritorno alla natura si intende forse il ritorno a una dimensione del bisogno e dell’istinto?
Marvin Harris ha sottolineato come proprio nelle società primitive “la regolazione della crescita demografica attraverso il trattamento preferenziale accordato ai neonati maschi rappresenta un considerevole trionfo della cultura sulla natura. (…) Era necessaria una potente forza culturale per motivare i genitori a trascurare o uccidere i propri figli, e specialmente per indurli ad uccidere o trascurare più le femmine che i maschi”.[9] Insomma quando si parla di natura bisogna veramente stare all’erta – e questo vale tanto per i primitivisti quanto per i transumanisti.
Se il discorso primitivista necessità di un’idea forte di natura umana, d’altro canto il discorso transumanista presuppone la negazione di una natura umana forte in vista della possibilità di una manipolazione, a mio avviso, rischiosa. Per intraprendere strade del genere è opportuno, prima di tutto, avere un’idea di ciò che l’essere umano è. Come si può, infatti, divenire “oltreumani” senza prima aver colto con estrema chiarezza ciò che essenzialmente ci caratterizza come umani?
Ritorniamo però a Pierre Clastres. La tesi centrale dell’Archeologia della Violenza vuole che la società primitiva, in quanto società contro lo Stato, sia una società per la guerra. A partire dalla critica del modello scambista di Lévi-Strauss, secondo cui la guerra altro non sarebbe che il risultato di una transazione malriuscita, evidenzia il carattere preminente della guerra rispetto allo scambio. La società primitiva per Lévi-Strauss è essenzialmente una società contro la guerra: la guerra infatti, essendo la società primitiva il mondo dello scambio, risulta essere la negazione di tale società. Al contrario Clastres afferma che lo scambio, così le alleanze, sono subordinate alla guerra. Lo scambio in tale prospettiva costituisce il mezzo attraverso cui stabilire alleanze. La guerra dunque è il mezzo principale per impedire il mutamento sociale e mantenere la società primitiva una società che è contemporaneamente totalità e unità. Totalità “in quanto insieme compiuto, autonomo, completo, attento a preservare in ogni istante la propria autonomia: società nel pieno senso del termine”.[10]
Unità in quanto a nessuna figura, proprio per evitare la formazione di un potere separato dalla società, è permesso di staccarsi dal corpo sociale. Un uno indiviso la cui identità si costruisce in opposizione all’altro. Altro tenuto a debita distanza poiché la logica della società primitiva è fondamentalmente una logica della differenza. Non vi è interesse nell’instaurare legami di scambio poiché l’economia domestica permette l’abbondanza e l’ordinamento sociale, in quanto fondamento ancestrale della società, non deve mutare. L’amicizia di tutti con tutti, inoltre, è contraria alla logica della differenza poiché questa vorrebbe dire la perdita di quella totalità autonoma. La guerra dunque, favorendo la dispersione delle comunità, favorisce l’indipendenza del gruppo e il suo essere società contro lo Stato.
Certamente l’enfasi di Clastres nel sottolineare l’antitesi tra Stato e guerra è forse troppo azzardata: diversi autori, infatti, hanno ribadito più volte le forti relazioni tra Stato e guerra. Per Harold Barclay, per esempio, “lo Stato è un’organizzazione fatta per la guerra e non è stato ancora sviluppato alcun meccanismo bellico più efficiente di questo. La guerra come la conosciamo è stata inventata dallo Stato”.[11] Detto ciò è doveroso ricordare che Clastres, quando pensava allo Stato, aveva in mente un tipo di Stato che, mosso da una forza centripeta, per la sua tendenza omologante, accentratrice, unificatrice cerca di superare la dimensione della differenza e della separazione operando una separazione dal corpo sociale di riferimento formando un “Uno separato” con le sue forme di divisione sociale incentrate sul rapporto di dominio. Questo modello, se comparato con quello della separazione della società primitiva una e indivisa, può apparire antitetico alla guerra permanente funzionale all’autonomia.
Ciò nonostante lo stesso Clastres si sofferma su interrogativi relativi alle condizioni grazie alle quali si dà la possibilità della formazione della divisione sociale. In particolare, si chiede se la dinamica della guerra possa comportare in sé il rischio della divisione sociale se la comunità concedesse autonomia al gruppo dei guerrieri. Le proposte di Clastres e di Harris sono ovviamente estremamente differenti, ma per quanto concerne la proposta primitivista mettono in luce una problematica comune. Sia che la guerra sia incrementata da una pressione demografica, sia che essa abbia un carattere puramente politico volto all’affermazione della comunità in quanto totalità nell’unità, l’eventuale formazione di una società primitiva, a causa della forte frammentazione e divisione che caratterizzano le società primitive, in assenza di una tecnologia senza la quale non è possibile una comunicazione estesa, avrebbe parecchie problematiche per quanto concerne una pacifica e libertaria convivenza.
Che si accetti una o l’altra teoria o che si rifiutino entrambe esse pongono questioni, sorrette da dati etnografici, che problematizzano la proposta primitivista. Come accennavo poco sopra, l’idea di tecnologia che l’articolo del Collettivo Anarchico Incubo Meccanico evoca alla mente del lettore è troppo generica – una semplificazione che distoglie l’attenzione dalla dimensione storica concreta all’interno della quale idee e pratiche umane si sviluppano. Inoltre, il Collettivo Anarchico Incubo Meccanico incappa in un errore madornale, quando constata che “è la tecnologia insieme alla scienza la principale responsabile ad avere creato un essere umano sempre più distaccato dall’ambiente in cui vive e che ha permesso una maggiore diffusione di quella visione antropocentrica (introdotta dall’agricoltura) che permea la nostra esistenza legittimando così lo sfruttamento della terra e di tutto ciò che può essere messo a profitto in nome del progresso”.[12] L’errore consiste nel confondere cause ed effetti, astraendo non poco dalla dimensione storica.
La tecnologia così come la intendiamo oggi è il risultato di un lungo processo in cui elementi apparentemente distanti l’uno dall’altro si fondono nel corso di quel grande romanzo dell’umanità che è la storia. Innanzitutto, è opportuno sottolineare come la téchne ha assunto diverse configurazioni nelle diverse epoche storiche. Murray Bookchin, in un capitolo dell’Ecologia della Libertà sottolinea l’antitesi tra il concetto classico e moderno di tecnica che rinvia a un’ulteriore dicotomia: quella tra l’immagine moderna di una vita materialmente opulenta e l’ideale classico di una vita fondata sull’auto-imposizione di limiti.[13] Vi è un’immagine appresa dalla mente moderna nella quale ciò che viene evocato risulta essere legato al vivere bene e ad una utilità sociale rivolta ad una progressiva libertà umana.
L’espressione viver bene in tal senso, come precisa Bookchin, è ben distante dalla sua origine aristotelica. Aristotele divideva tra viver soltanto e viver bene, ovvero entro i limiti. “Per la mente moderna la tecnica è semplicemente l’insieme di materie prime, di strumenti, di macchine e di congegni necessari a produrre un oggetto utilizzabile (…). Il giudizio ultimo sul valore e sulla desiderabilità di una tecnica è di tipo operativo: si basa sull’efficienza, sulle competenze e sul costo”.[14] Per la mente classica invece la tecnica presupponeva due interrogativi: come e perché. Ci si chiedeva del perché della produzione di un valore d’uso.
Aristotele opera la distinzione tra maestri artigiani e i loro subordinati inconsapevoli del loro fare: i maestri artigiani, agendo con responsabilità etica, rendono razionale il loro mestiere – in tale ottica, la téchne appare come la condizione del fare che implica un procedimento razionale. Inutile ricordare che, comunque, la visione della tecnica presso i greci era negativa: basti ricordare a proposito la preminenza della vita contemplativa nel pensiero, per esempio, presente in Aristotele e Platone. Solo dalla fine del Medioevo la vita attiva comincia a divenire preminente rispetto alla vita contemplativa.[15]
Nell’immagine moderna invece la téchne è limitata alla mera tecnica strumentale legata alla produzione illimitata e, in più, contrariamente all’immagine antica la tecnica non comprende il produttore. “L’epicentro della tecnica si sposta dal soggetto all’oggetto, dal produttore al prodotto, dal creatore al creato. L’onore, il senso del perché e la più generale conoscenza delle cose e dei fenomeni non hanno più posto nel mondo voluto dall’industria moderna. (…) In effetti, l’oggettivazione della soggettività è la conditio sine qua non per la produzione di massa”.[16]
Nella concezione moderna del lavoro e della tecnica vi è una contrapposizione tra materia e spirito: la materia è passiva e il soggetto creatore, l’uomo, è attivo. Non vi è una reciprocità ma un rapporto di dominio tra uomo e ambiente naturale. L’emergere della tecnologia modernamente intesa ed applicata, come ho accennato, risponde a un processo complesso. In età moderna si ha il passaggio da una visione in cui l’uomo era posto in una posizione fissa all’interno dell’ordine cosmico gerarchicamente strutturato, a una visione mobile ed egualitaria dell’individuo a cui è associata l’idea della possibilità della trasformazione del mondo da parte dell’uomo.
In tale contesto fu proprio il cristianesimo a rivestire un ruolo fondamentale in questo processo. Il culto dei santi, infatti, sgombra il mondo da presenze animistiche quali angeli, demoni, ninfe, spiriti eccetera. Landes, nel Prometeo Liberato, scrive che “il culto dei santi infranse l’animismo e pose la prima pietra di quella concezione naturalistica del mondo che è essenziale a una tecnologia altamente sviluppata”.[17] La trascendenza di Dio e la pressione esercitata dal cristianesimo per monopolizzare il sacro recintandolo nelle chiese è centrale per comprendere quel processo che ha spogliato di qualità la materia. Il sacro infatti, se inquadrato in concezioni animistiche, può rappresentare un ostacolo alla manipolazione della natura.
Ancor più interessante è questo processo se pensiamo che i primi macchinari inventati durante la rivoluzione industriale furono inventati da artigiani e non da scienziati: vi è una trasformazione culturale di larga portata in cui l’uomo comincia a raffigurarsi l’universo in maniera sempre più meccanica e la cosiddetta vita attiva diventa centrale nell’elaborazione del sapere. Un altro motivo che probabilmente ha contribuito all’accentuazione degli aspetti meccanici dello sviluppo tecnologico europeo è stato, probabilmente, il fatto che nell’Europa pre-industriale vi era una scarsa produttività a causa della poca manodopera; il che ci fa pensare – tenendo presente il fatto che è solamente un’ipotesi – che una pressione di questo tipo, dovuta a continue pestilenze, abbia spinto l’uomo verso il tentativo di utilizzare e fabbricare macchinari.[18]
Insomma, è opportuno liberarsi da una logica binaria per dare un giudizio sulla tecnica: essa non è bene o male. Si tratta di capire dunque quale destino si profila per l’umanità della società tecnologica, a quali logiche risponde la tecnica e se vi è la possibilità, come nella prospettiva di Bookchin, di riassorbire la tecnica “in forme organiche di vita sociale e di soggettività umana”.[19] La scienza stessa può e deve contribuire alla risposta di queste domande: compito della scienza, infatti, è intuire relazioni nella molteplicità dell’essere. Cosa sono le formule scientifiche se non la descrizione di tale intuizione la quale non può che essere parziale?
In qualche modo la scienza moderna è, da un punto di vista puramente concettuale, essenzialmente inorganica in quanto è costretta ad operare una separazione nell’organismo costituito dalla totalità dell’Essere. L’oggettività delle leggi scientifiche è data dal fatto che questo essere di cui siamo parte è nella sua più profonda essenza Relazione: persino le leggi scientifiche ormai confutate sono vere nel loro essere parte di questa realtà. In un certo senso sono queste due dimensioni a costituire la grandezza e allo stesso tempo il limite della scienza moderna: essa intuisce relazioni ma, essendo limitata, non può che operare delle separazioni nell’organismo. Essa, separando l’organismo, può benissimo intuire leggi tra più elementi ma nell’applicazione di tali leggi vi può essere una controindicazione che incide negativamente su ulteriori elementi.
È stato così per il macchinismo che, agendo in un contesto di separazione tra l’uomo e l’ambiente naturale circostante, ha escluso la reciprocità tra uomo e natura, ponendo l’uomo in una condizione di supremazia e soggettività e la natura in una condizione di subalternità e passività e di questo oggi ne paghiamo le conseguenze. La scienza ovviamente non deve essere rifiutata, ma è opportuno, tuttavia, conferire ad essa degli obiettivi: legare il più possibile elementi per limitare la separazione e indagare la relazione intercorrente tra scienziato, oggetto di studio e ambiente sociale.
Scienza e tecnica non sono equiparabili e, per comprenderle appieno, è opportuno studiarne le radici sociali ed il sistema socio-politico e culturale che ne determina l’andamento. La parzialità della scienza ci permette di negarne la neutralità e di studiarne gli andamenti in relazione al contesto socio-culturale di riferimento.
Secondo Lorcon “l’utilizzo della tecnologia dipende dalle strutture sociali: la tecnologia potrà essere veramente utile per l’emancipazione sociale solamente dal momento in cui si liquideranno le strutture classiste e statali che ingabbiano l’uomo e i prodotti del suo ingegno nei cicli di accumulazione di capitale e, di conseguenza, di mercificazione dell’esistente, qui comprendendo anche la distruzione degli ecosistemi”.[20] Ritengo che la posizione di Lorcon sia vera ma parziale. Il superamento della struttura socio-economica capitalistica è, sicuramente, un momento necessario senza il quale non può esservi riconciliazione razionale né con l’ecosistema né con gli strumenti di lavoro. Eppure non basta. Tra i compiti che dobbiamo prefiggerci vi è anche l’interrogazione circa il rapporto di dominio e di separazione tra noi e l’ambiente naturale. Certo è che una prospettiva simile diviene problematica per la prospettiva transumanista, nella quale il dualismo spirito materia non sembra essere esaurito. Ancor più preoccupante si profila la faccenda dal momento in cui, come si legge nei principi dell’Associazione Italiana Transumanisti, la Terra viene considerata come una prigione e il profilo psicologico come limitato dalle circostanze e impossibilitato a generarsi mediante la volontà individuale come, invece, vorrebbero i membri dell’AIT. Ma come? La volontà individuale non è essa stessa il risultato di determinate circostanze? Valli a comprendere i rappresentanti italiani del transumanesimo! Quali reali possibilità vi sono di utilizzare la scienza e la tecnica in vista di un progetto di emancipazione sociale e di riassorbimento organico dell’ingegno umano? Risposte a tali domanda urgono! Persefone ha spezzato l’accordo; lo scontro tra Demetra e Ade è aperto. L’equilibrio è rotto e Zeus dormiente.
Manuel Pagliarini
NOTE
1 Collettivo Anarchico Incubo Meccanico, “Una risposta a ‘tecnologie ed emancipazione sociale’”, in Umanità Nova, 2/04/2017.
2 In CLASTRES, Pierre, L’Anarchia Selvaggia, Milano, Eleuthera, 2015, p.38.
3 Ibidem.
4 Ivi.
5 HARRIS, Marvin, Cannibali e Re, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 10.
6 Ivi.
7 Ivi.
8 Ivi.
9 Ivi.
10 CLASTRES, Pierre, L’Anarchia Selvaggia, Milano, Eleuthera, 2015, p 56.
11 BARCLAY, Harold B., Lo Stato, Milano, Eleuthera, 2013, p. 26.
12 Collettivo Anarchico Incubo Meccanico, “Una risposta a ‘tecnologie ed emancipazione sociale’”, in Umanità Nova, 2/04/2017.
13 BOOKCHIN, Murray, L’Ecologia della Libertà, Milano, Eleuthera, 2010.
14 Ibidem.
15 KOYRè, Alexandre, Dal Mondo del Pressappoco all’Universo della Precisione, Torino, Einaudi, 2000.
16 BOOKCHIN, Murray, L’Ecologia della Libertà, Milano, Eleuthera, 2010, p 348.
17 PRODI, Paolo, Storia Moderna o Genesi della Modernità?, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 33-51.
18 CIPOLLA, Carlo Maria, Storia dell’Europa Pre-industriale, Bologna, il Mulino, 2002.
19 BOOKCHIN, Murray, L’Ecologia della Libertà, Milano, Eleuthera, 2010.
20 Lorcon, “Sempre su Anarchismo, Tecnologia, Transumanesimo”, in Umanità Nova, 9/04/2017.


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