Liber3 dalla violenza patriarcale

Uno degli ultimi femminicidi assurti agli onori della cronaca è quello di Pamela Gerini, uccisa dall’ex compagno a Milano sotto gli occhi dei vicini, con la polizia sul pianerottolo. Mi ha molto scossa, non tanto per la giovane età della vittima quanto per la dinamica con cui si è svolta questa ennesima tragedia. Pamela Gerini aveva già sporto denuncia in due pronto soccorso di due diverse regioni, presso i quali in teoria sarebbe dovuto scattare automaticamente il codice rosso, dato che pare avesse risposto positivamente alle domande centrali per individuare casi di questo tipo; aveva inoltre cambiato regione per allontanarsi da lui. Ma nulla è bastato, nemmeno la polizia sul pianerottolo.
Nello stesso giorno veniva presentato un disegno di legge che vieta l’educazione sessuale nella scuola dell’infanzia e nella primaria – peraltro contro ogni indicazione dell’OMS – e che nelle medie e superiori subordina questa educazione al consenso dei genitori.
Dire che il patriarcato è un elemento strutturale della società, così come lo sono il razzismo, il classismo, l’abilismo ecc., significa riconoscere che il problema non è limitato all’attuale Governo della fiamma tricolore, ma riguarda noi tutt3, me inclusa. Liberarsi dalle discriminazioni di genere essendo cresciuti all’interno di un società che vi è basata strutturalmente è un arduo e quotidiano compito di umiltà e riconoscimento, di presa d’atto e di decostruzione. Una lotta costante in cui coinvolgere chiunque ci sta accanto, a partire da noi stess3.
Il patriarcato contribuisce a plasmare le persone che popolano il mondo in cui viviamo e si autorigenera, confermandosi generazione dopo generazione.
Il patriarcato individua due generi – quello maschile e quello femminile – sulla base di una differenza anatomica a cui è solitamente associata una specifica funzione fisiologica: le persone socializzate donne alla nascita si presume abbiano la capacità di procreare. In questa visione del mondo, le persone socializzate donne sono percepite come vasi, fragili, da proteggere e custodire proprio in virtù della loro potenzialità riproduttiva; devono quindi essere formate, guidate, indirizzate, affinché il loro “dono” possa contribuire a comporre un quadro sociale e politico ordinato.
Ai due generi sono poi attribuiti aspetti politico-sociali in scala gerarchica: il maschile viene prima, e stabilisce ciò che è giusto e normale, mentre il femminile segue e si sottomette alla norma, in una posizione di differenza, ma soprattutto di inferiorità. Anche alle caratteristiche e ai comportamenti individuali verrà attribuito tanto più valore – e potere – quanto più verranno percepiti come propri del maschile egemonico.
Tagliando con l’accetta: se ti presenti vestita con minigonna e tacchi a spillo sedurrai, ma quasi certamente non verrai presa troppo sul serio; la segretaria deve essere sexy e accogliente, il capo forte e sicuro. In una cornice che rimane sempre etero normativa.
Le persone socializzate donne hanno inoltre un valore diverso a seconda dello stadio di vita: quando non sono più fertili, il loro valore politico crolla bruscamente; resta invece inalterato il valore sociale relativo al ruolo di cura loro attribuito, funzionale a compensare le carenze strutturali dell’assistenza. I tanti femminicidi di donne anziane malate e/o disabili lasciate all’assistenza del compagno o dei familiari parlano della scarsa propensione dei governi ad investire ed occuparsi dell’assistenza; ma parlano anche delle differenze di genere nella cura, fenomeno che ancora fatichiamo a riconoscere.
Chi si sottrae alla visione patriarcale incorre in sanzioni che a seconda del periodo storico o della geografia possono essere di volta in volta ben individuate: dal controllo del corpo delle donne in generale, alla stigmatizzazione delle soggettività non conformi, alla repressione della sessualità non etero associata a questa visione binaria, al controllo della procreazione. La storia e le storie dei vari territori ci raccontano di come la violenza patriarcale colpisca e agisca, ordinando, punendo e riprogrammando; una ostinata riproduzione di morte, nel tentativo di imbrigliare le volontà e le vite di chi prende coscienza di sé o/e della struttura in cui ci costringono a vivere e sognare. Non bastano i tentativi di pulizia rainbow o queer messi in atto dal capitalismo, o da un certo statalismo democratico.
Questa violenza non è episodica o marginale, ma costituente e costruttiva; non merletto, ma stoffa dell’abito sociale nel quale siamo costrette a vivere, quell’abito sociale che ci cuciono addosso fin da piccole e col quale ci forzano ad andare in giro.
Vero, oggi in una certa parte di mondo se ne parla. Oggi sappiamo quasi tutt3 cosa significa “violenza di genere”; sappiamo di cosa parliamo quando affermiamo che viviamo immerse nella “cultura dello stupro”; sappiamo che la violenza di genere è una piramide di cui il femminicidio è solo la piccola punta emersa dell’iceberg, costituito in realtà da episodi di violenza “minori” e molto più frequenti. Sappiamo che per ogni persona che subisce violenza sessuale ce ne sono centinaia, migliaia, che subiscono battute sessiste o omofobe, palpeggiamenti non richiesti, richieste denigranti e sessualizzate – o denigranti in quanto sessualizzate.
Alla violenza maschile contro le donne, la famosa punta dell’iceberg, il governo Meloni reagisce con l’ennesimo atto di forza, dimostrando il pugno duro del potere del Padre che si abbatte sul colpevole per riportare giustizia.
L’8 marzo scorso la ministra Rocella presentò – non a caso nella giornata internazionale della donna – un disegno di legge contro i femminicidi, approvato poi all’unanimità dal Senato lo scorso 23 luglio, che introduce l’ergastolo per chi commette questo tipo di omicidio.
Questo disegno di legge è stato fortemente osteggiato da molte giuriste e avvocate per l’appesantimento delle procedure legali già esistenti, per l’inutilità dell’introduzione di misure punitive di cui già disponiamo e soprattutto per la totale assenza di una prospettiva di prevenzione.
Il ddl 2528/2025 introduce il reato di femminicidio – circoscrivendolo peraltro ad una formulazione che esclude tutta una serie di situazioni che hanno la stessa matrice d’odio e di discriminazione – e punta a comminare ergastoli che piacciono tanto alla pancia del popolo rabbioso e frustrato. Una mano forte in situazioni di grande precarietà: una dinamica che ha, da sempre, dato l’illusione della stabilità, illuso di fare giustizia spicciola compensando ingiustizie generalizzate.
Nulla si risolve davvero perché nulla si previene davvero, ma la scure del padrone interviene e colpisce, pulendo la bava dalle bocche di chi grida indignato che ci vuole la forca, una scure dalla lama ben orientata, inscritta nel patriarcato di destra, incentrato su dio patria e famiglia.
Continuiamo a commettere lo stesso errore, l’errore di chi non si sente responsabile, l’errore di chi pensa che un fatto del genere non lo riguarderà mai. Mentre basterebbe leggere i numeri per capire come muoversi. I numeri raccolti e analizzati, ad esempio, da parte dell’Osservatorio contro femminicidi, lesbicidi e transcidi attivato da NonUnaDiMeno, ci mostrano come questi omicidi siano trasversali per geografia, provenienza e classe, e come siano strettamente in relazione a fenomeni di emancipazione dal partner. Il femminicida ha le chiavi di casa: si tratta del marito o partner nel 49% dei casi, e dell’ex nel 29%. Così come lo stupratore è spesso una persona conosciuta: gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici (dati ISTAT 2024).
Una volta si diceva che prevenire è meglio che curare, ma ora pare che pure i tagli alla Sanità ci stiano raccontando un’altra verità. Prevenire ha innanzitutto un costo economico che nessuno sembra disposto a pagare, ma ha anche un costo morale, educante, trasformativo che sembra siamo ancora lontani dal realizzare. Prevenire significherebbe agire anticipatamente, lavorare affinché si vada verso la somma zero o potenzialmente zero di questi “errori/orrori sociali”, di questi dolorosi atti di violenza.
Oggi il termine patriarcato però non è più pronunciato a mezza bocca e con un sorrisino di scherno come accadeva solo fino a vent’anni fa in Italia, anche in certi ambiti di movimento, quando ci si sentiva tutti liberi da una condizione di dominio ormai superata dalla storia.
Per fortuna le compagne ci hanno aperto gli occhi.
Il patriarcato esiste. Esiste ancora – anche qui – questo vecchio merletto che credevamo esserci strappate di dosso. Sopravvive anche perché è funzionale al mantenimento dell’intero sistema. Serve al capitalismo per continuare ad alimentare il profitto, sia nella sua versione tradizionale che nella sua veste “anti” – al mercato in fondo interessa vendere e (s)coprire sempre nuove fette di mercato – serve ai politici per continuare a proporre politiche moraliste e securitarie, serve allo Stato per non fare investimenti adeguati nella cura sociale/sanitaria e per controllare i corpi e la loro organizzazione sessuo-affettiva, serve alla “patria” per rimpolpare gli eserciti, controllare i confini e perpetuare una mentalità coloniale.

L’unica soluzione, l’unica prospettiva risolutiva quindi è un cambiamento radicale dell’esistente, una trasformazione complessiva di tutte le relazioni, da quelle economiche a quelle sociali. È la prospettiva della rivoluzione sociale, della rivoluzione anarchica; che sia però transfemminista.


Argenide

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