Il lavoro infinito. Straordinari, notturni e festivi

Detassare lo straordinario e il lavoro festivo: il nuovo volto della servitù volontaria

La legge di bilancio del governo Meloni celebra il lavoro infinito: chi rinuncia al tempo, al riposo e alla vita sociale viene premiato con qualche euro in più. Il salario accessorio diventa lo strumento di un ricatto morale e fiscale.

Nella proposta di legge di bilancio il governo Meloni annuncia con toni trionfali la detassazione del lavoro straordinario, notturno e festivo. Una misura che, a prima vista, potrebbe sembrare a vantaggio dei lavoratori: meno tasse significa più soldi in busta paga. Ma dietro questa apparente generosità si nasconde un messaggio preciso e inquietante: lavora di più, rinuncia al tuo tempo, e forse potrai permetterti di sopravvivere un po’ meglio.

Il senso di dominazione è completo. Dopo anni di retorica sul “merito” e sulla “produttività”, lo Stato torna a proporre il lavoro come virtù morale, come dovere patriottico. Chi accetta di lavorare di notte, nei giorni di festa o oltre le otto ore viene elevato a modello civico. È l’ennesima forma di disciplinamento, mascherata da incentivo fiscale.
Lo Stato premia la sottomissione volontaria, e il capitalismo ringrazia: più ore di lavoro a minor costo, senza bisogno di assumere.

In questo modo si ribalta il senso delle conquiste sociali. La riduzione dell’orario, il riposo settimanale, il diritto a una vita oltre la fabbrica e l’ufficio erano stati i risultati di decenni di lotte. Ora tornano ad essere variabili economiche da monetizzare.
Non si parla più di liberare tempo ma di vendere tempo, come se la vita fosse un serbatoio da svuotare per il profitto altrui. La domenica, un tempo simbolo di libertà collettiva, diventa un’occasione individuale di guadagno.

L’argomento è sempre lo stesso: “chi si impegna di più deve essere premiato”. Ma in realtà il premio è un’elemosina fiscale che non cambia la sostanza della precarietà, né la disuguaglianza strutturale. Chi lavora di più non diventa libero, diventa solo più stanco.
E mentre il governo taglia sanità, scuola e welfare, si propone come benefattore di chi accetta di rinunciare al riposo, trasformando la fatica in merito.

Non è una novità. Dalla propaganda corporativa del fascismo fino al “Piano del lavoro” e alle riforme neoliberali degli ultimi decenni, ogni crisi del capitalismo italiano è stata affrontata nello stesso modo: invocando il “dovere di lavorare di più”.
Oggi, con un linguaggio aggiornato, la Meloni ripropone quella stessa ideologia. L’idea che la libertà consista nel poter scegliere di lavorare sempre, che la felicità sia una detrazione Irpef, che la dignità dipenda dal numero di ore vendute.

Ma la prospettiva anarchica rovescia il paradigma.
Non chiediamo di essere pagati di più per lavorare oltre misura: chiediamo di lavorare meno per vivere di più.

La libertà non nasce dal sacrificio, ma dal tempo liberato. Il lavoro non è un destino, è un mezzo; e quando diventa fine, diventa dominio.
Per questo ogni detassazione del sacrificio è una tassa sulla libertà.

In un paese dove si muore di lavoro e si sopravvive di straordinari, la promessa di “qualche euro in più se rinunci alla tua domenica” è una beffa. È il patto sociale del nuovo millennio: lo Stato ti lascia respirare, purché tu continui a produrre.

La libertà, invece, comincia proprio quando si smette di obbedire a quell’ordine antico che confonde la fatica con la virtù e la sottomissione con il merito.

Antonio Caggese

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