All’arrembaggio del futuro – 2^ parte

Organizzazione della produzione e della società nella rivoluzione

(Clicca qui per la prima parte)

Ernest Mandel si domanda “Come è possibile aumentare contemporaneamente il ritmo dell’accumulazione e il volume reale del consumo mondiale? La chiave del mistero si trova evidentemente nell’esistenza di un immenso fondo di consumo improduttivo, la cui parte più considerevole – le spese militari – raggiunge assai probabilmente i 120 miliardi di dollari all’anno da molti anni a questa parte”.

Negli anni in cui scriveva Mandel, i primi anni 60 del secolo scorso, i capitali necessari alla rapida industrializzazione dei paesi sottosviluppati, sono stati valutati da una pubblicazione delle Nazioni Unite in 2500 miliardi di dollari solo gli investimenti che avrebbero consentito di assicurare a tutto il continente asiatico una produzione per abitante eguale a quella del Giappone alla vigilia della seconda guerra mondiale. Tenendo conto della popolazione dell’Africa e dell’America Latina, Mandel ha valutato in circa 3000 miliardi di dollari i fondi necessari per una industrializzazione senza lacrime di tutta l’umanità sottosviluppata. Se fossero state destinate per 30/40 anni le risorse in quel momento sperperate per il riarmo allo sviluppo del terzo mondo, il problema mondiale sarebbe stato risolto prima dell’inizio del 2000.

Oggi l’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo) stima che colmare il gap di finanziamento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile e del clima richiederà circa 500 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici internazionali e 500 miliardi di dollari di finanziamenti privati internazionali all’anno; in totale mille miliardi. La cifra stanziata nel bilancio degli Stati Uniti nel 2024 per le spese militari è di 850 miliardi di dollari.

Mandel prosegue sottolineando i problemi umani legati al mutamento di costumi e di abitudini, l’urbanizzazione, i problemi dell’istruzione (istruzione tecnica e formazione professionale). Questi problemi rischierebbero di ritardare considerevolmente il processo di trasformazione del processo produttivo in direzione della soddisfazione dei bisogni dell’umanità.

Credo in realtà che sia proprio il processo di trasformazione della produzione ad essere molto più lento di quanto ci può far credere la rappresentazione in termini monetari. Se è relativamente facile trasferire fondi pubblici dalle spese militari ai bisogni delle grandi masse, è molto più difficile trasformare una fabbrica che produce armi in una che produce, mettiamo, biciclette. Lo stesso discorso vale per la produzione agricola, orientata dalle multinazionali agroalimentari a produrre per il mercato, soprattutto per l’industria e non per il soddisfacimento dei bisogni collettivi.

Per ottenere questo risultato, bisogna cominciare a pensare il rapporto tra produzione e consumo, mediato dalla distribuzione, al di fuori dalla logica di mercato, non come rapporto monetario. Partire dai bisogni e a partire da questi costruire il nuovo modo di produzione e la nuova organizzazione sociale.

L’abolizione della proprietà privata permetterà di eliminare gli sperperi inerenti alla produzione per il profitto. Qui va ricercata la fonte principale, se non esclusiva di ogni fondo supplementare necessario per uno sviluppo economico più rapido e del fondo supplementare di consumo necessario per un parallelo aumento del benessere popolare.

Di conseguenza, elenchiamo di seguito le principali fonti della produzione socialista.

1) La piena utilizzazione permanente delle forze produttive esistenti. La produzione, in sistema capitalistico, è organizzata da ciascun capitalista per il suo profitto individuale e non già per soddisfare come sarebbe naturale, nel miglior modo possibile, i bisogni della popolazione. Quindi la produzione cessa non quando sono soddisfatti tutti i bisogni sociali, ma quando cessa il profitto del capitalista. Nel modo di produzione capitalistico, le forze produttive esistenti (innanzitutto i lavoratori e le attrezzature) subiscono periodicamente una sottoutilizzazione notevole in conseguenza delle oscillazioni cicliche. Anche durante gli anni di alta congiuntura la sottoccupazione degli uomini e la sottoutilizzazione delle attrezzature assumono proporzioni considerevoli. Bisogna infine menzionare un’altra forma di sottoutilizzazione delle risorse esistenti: la tesaurizzazione (aperta o mascherata) di queste risorse sotto forma di scorte eccessive, di fondi di accumulazione nascosti per mezzo delle pratiche finanziarie particolari delle grandi compagnie, ecc.

2) Eliminazione delle spese di lusso. In Italia “Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l’80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti, quando invece a loro per primi dovrebbe convenire far crescere il capitale nella propria impresa. Oltretutto, gli avari investimenti delle imprese sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni.” (Riccardo Gallo “Quel travaso di ricchezza dal lavoro al capitale” – il Sole 24 Ore 22/10/2024). L’equivalente di questa cifra è costituito da merci, beni e servizi, che devono essere considerati come una superflua dissipazione. Nessun uomo di buon senso può considerare normale una situazione in cui un paese spende per le scommesse sportive, per il gioco o per l’alcol più che per la ricerca scientifica e medica, per la lotta contro il cancro e per la formazione universitaria.

La semplice eliminazione delle spese di lusso, di sperpero, e delle spese manifestamente nocive, permetterebbe assai probabilmente di raddoppiare il consumo pubblico utile del mondo occidentale, cioè innanzitutto le spese per l’educazione, per le misure sanitarie, per i trasporti collettivi, per la conservazione delle risorse naturali ecc.

3) La riduzione dei costi di distribuzione. L’aumento dei costi di distribuzione ha in parte cause tecniche, ma implica egualmente una parte sempre più considerevole di costi che sono legati alla natura particolare dell’economia capitalistica contemporanea. La razionalizzazione della rete di distribuzione con la diminuzione del trasporto di prodotti a migliaia di chilometri di distanza, l’eliminazione degli intermediari, l’eliminazione della pubblicità, l’organizzazione delle scorte sulla base delle esigenze della popolazione, questo da solo permetterebbe di ridurre a metà i costi di distribuzione che oggi gravano per circa il 50% sul prezzo dei prodotti al dettaglio.

4) L’organizzazione razionale dell’industria. Il sistema della libera impresa, anche quando funziona in condizioni di piena occupazione, comporta sperperi considerevoli. Basti pensare alla crisi ambientale, provocata dall’espansione a ogni costo della produzione, dall’estrattivismo e della dispersione nell’ambiente degli scarti di produzione. Un’importante componente dell’immensa massa di rifiuti che ogni anno viene prodotta (circa 2000 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani) è composta da prodotti rapidamente deteriorati per l’obsolescenza programmata da parte delle multinazionali . A questo si aggiungono gli imballaggi necessari per il trasporto a lunga distanza di merci deperibili, e per reclamizzare il prodotto contenuto all’interno. A questo possiamo aggiungere il sistema dei brevetti privati e del segreto aziendale che ritarda l’adozione di innovazioni tecniche in grado di ridurre l’impatto ambientale della produzione.

5) La liberazione dell’energia creatrice dei lavoratori. Nell’industria capitalistica, le persone addette alle operazioni manuali si sentono ridotte alla funzione di appendici viventi di un meccanismo inanimato in un processo di produzione estremamente complesso. Queste stesse persone, investite di una responsabilità diretta o indiretta nella gestione della produzione libererebbero forze immense di inventiva e di ingegnosità, soprattutto se l’esperienza dimostrasse loro che ogni aumento della produzione e ogni riduzione del costo delle merci prodotte si traduce automaticamente in un miglioramento del livello di vita delle comunità in cui vivono.

A chi spetta una trasformazione così profonda della produzione e della distribuzione?

Come scrive esaurientemente Luigi Fabbri in “Dittatura e rivoluzione”, il giorno dopo l’insurrezione vittoriosa le attività produttive dovranno continuare a funzionare sotto il controllo diretto dei sindacati e dei consigli delle lavoratrici e dei lavoratori, bisognerà costituire subito organismi territoriali che permettano di raccogliere le esigenze della collettività, ed orientare la produzione secondo queste esigenze. Si tratta di un processo lento e complicato di costruzione di rapporti, di reti di consumo e di produzione, per cui non esistono scorciatoie. La scorciatoia è rappresentata dalla soluzione autoritaria: affidare la cura di questo complicato processo ad un’autorità centrale che decida cosa produrre, quanto, dove e come. Un governo, insomma. Ma per ottenere questo risultato il più inabile e incompetente di tutti è proprio un governo, composto di poche persone, che dirigano tutto dal centro secondo rigide direttive. Maggiore e migliore virtù organizzatrice (senza i difetti e pericoli della creazione di una nuova burocrazia statale) ha l’azione diretta proletaria e popolare. Le classi sfruttate devono agire senza delegare nessuno, attraverso organismi specifici formatisi nel loro seno. Tali organismi, incaricati di svolgere le funzioni della produzione e della distribuzione – e che nel contempo garantiranno un minimo di ordine e di coordinamento indispensabile – potranno essere, oltre i nuclei che scaturiranno spontaneamente dalla rivoluzione, le organizzazioni già esistenti, i sindacati e le organizzazioni di categoria e territoriali, gli organismi territoriali per l’ambiente, la sanità, la scuola ecc., i consigli di fabbrica, e infine i consigli dei delegati comunali, regionali e interregionali, eletti con mandato imperativo e revocabili in qualsiasi momento.

Fin dal primo momento, l’autogestione deve prendere il posto dell’organizzazione gerarchica, nella produzione e nella società. Un organismo centrale non sarebbe in grado di rispondere alle molteplici esigenze di una società che si è fatta sempre più complessa. Gli studi sull’organizzazione confermano che le reti paritarie sono in realtà più efficienti delle strutture centralizzate. L’esperienza storica inoltre ci mostra l’impossibilità della rivoluzione comunista a partire da un governo centrale.

Da questa breve riflessione emergono due conclusioni: la prima è che la rivoluzione comunista è possibile, è necessaria, e in ultima analisi porterà al miglioramento delle condizioni di vita di tutta l’umanità riducendo la produzione totale; la seconda è che questa rivoluzione deve avere per protagoniste le grandi masse oppresse e sfruttate, non una minoranza di governanti, in altre parole al comunismo si deve accompagnare l’anarchia.

Per completare queste riflessioni, tornerò sull’argomento per affrontare meglio le questioni del rapporto tra produzione e consumo, il ruolo della moneta, l’emergenza climatica, la libera sperimentazione e il superamento delle differenze di genere.

Tiziano Antonelli

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