Riflessioni sulla situazione, prima parte.
Sotto i nostri occhi si sta riproponendo il fenomeno politico che più di tutti ha segnato il Novecento in Occidente in modo significativo: la tendenza, sempre negata da entrambe le parti in commedia, all’alleanza tra liberali e fascisti.
È una tendenza che vediamo in atto in forme diverse rispetto a quelle prese nel ventennio tra le due guerre perché significativamente differente è la situazione complessiva. Il Novecento vedeva un movimento operaio e un lotta di classe dispiegata che venne abbattuta e silenziata solo grazie alla mobilitazione violenta e omicida delle classi medie con la copertura dei corpi dello stato.
Oggi le classi subalterne in Occidente sono un corpo senza unità e progettualità e stanno subendo la lotta di classe da quasi mezzo secolo più che produrla. Soprattutto in Francia e parzialmente negli Stati Uniti settori di queste hanno dato vita a momenti anche importanti di resistenza ma dentro una solitudine collettiva che inevitabilmente si fa rancorosa e impotente.
Sembra quindi inutile, quasi anacronistico, l’avvio del passaggio dalla modalità “democratica” a quella fascista di governo della società. Le evidenze politiche, però, sono chiarissime e passano attraverso una modalità di gestione della questione sociale che sempre più è demandata alla polizia e agli apparati repressivi in generale. Su questo occorre spendere qualche parola in più: la polizia non è uno dei tanti apparati dello Stato. La polizia non è solo un potere che conserva il diritto ma che lo fonda; è il vero potere costituente sempre in atto, una sorte di guerra civile continuamente in esecuzione.
Il potere legislativo interviene sempre successivamente a sancire quello che è già stato deciso sulla base dei rapporti di forza e sul dispiegamento della violenza repressiva.
La legislazione italiana contro le manifestazioni non violente come i blocchi stradali, la limitazione per legge del diritto di sciopero, così come l’intervento in Germania contro il diritto di espressione (si pensi solo all’incriminazione di chiunque si permetta di criticare lo stato di Israele) e in modo più che evidente la libertà di uccidere nelle strade francesi e americane non solo chi dissente ma anche la parte di popolazione razzializzata per la propria (a volte lontana) origine etnica, sono epifenomeni di uno stesso processo che fonda la sopravvivenza delle nostre formazioni sociali sulla possibilità data al potere di controllare la situazione con la violenza massima dispiegabile.
Si tratta di quello che i filosofi della politica chiamano stato di eccezione e che è ampiamente normato nella Costituzione del paese centrale dell’Unione Europea, la Francia con l’articolo 16 che prevede la dittatura presidenziale, e negli Stati Uniti dove i decreti presidenziali hanno forza di legge.
Liberalismo e fascismo hanno il loro luogo di convergenza in questo spazio preciso del diritto che permette ampiamente il passaggio da una forma all’altro di dominio. Così è stato per il liberalismo classico nel Novecento, così è con il neo liberalismo oggi. Quest’ultimo non a caso è nato ed è cresciuto all’interno dell’ultimo esperimento fascista novecentesco: quello delle dittature militari dell’America Latina. Senza la violenza repressiva e il controllo assoluto delle leve del potere il modello neoliberale non si sarebbe mai potuto affermare nel mondo. Il fatto che in Europa o negli USA per decenni il binomio Stato-Capitale non abbia avuto necessità di utilizzare livelli di violenza simili dipende proprio dal fatto che questi erano ampiamente dispiegati nel Sud globale. Tocqueville teorizzava già nell’Ottocento che la democrazia in Francia potesse reggersi solo sulla dittatura contro i musulmani d’Algeria (colina dal 1830). Là si poteva esercitare la violenza sovrana, quella che prevede un potere assoluto nella quotidianità, proprio allo scopo di permettere una violenza relativa e mitigata dallo stato di diritto all’interno della metropoli. Salvo poi trasferire in quest’ultima le stesse modalità di governo quando si ritenesse necessario farlo allo scopo di salvaguardare la formazione sociale borghese all’interno della quale il capitalismo è cresciuto ed ha prosperato in questi secoli.
La violenza repressiva mostra la realtà dei fatti nascosta sotto la copertura dello stato di diritto: lo Stato contiene in se la dittatura e il dispotismo; sono armi a disposizione per essere usate in caso di necessità, non solo nelle periferie mondiali ma all’interno della stessa metropoli. Il fondamento del potere nelle realtà politiche dell’Occidente, non meno che nei paesi a dittatura o ad autoritarismo proclamate e dispiegate, non è democratico. Lo stesso pronunciamento della corte suprema USA sull’irresponsabilità penale del Presidente americano nell’esercizio del suo potere è paradigmatico di questa verità.
L’uso sempre meno dotato di senso della parola democrazia ed il suo svuotamento in una tecnica amministrativa è funzionale al recupero del fondamento oligarchico dello Stato. Dal punto di vista dell’ideologia politica si è trattato di cancellare la mancanza di fondamento della democrazia, il suo essere sempre insorgente e in perenne mutazione in quanto sottoposta al necessario conflitto che regola le formazioni sociali umane, per farne una semplice modalità di governo delle oligarchie dei ricchi che, semplicemente, chiedono alla popolazione il gradimento a scadenze più o meno fisse.
La similitudine sempre più evidente tra i paesi occidentali e le autocrazie come quella russa, così come quella tra Israele, la sedicente “unica democrazia del Medio Oriente”, e le dittature più o meno nazionaliste, più o meno militari dei paesi arabi circonvicini a questo, sono lì a rendere evidente l’assenza di vere e proprie differenze nella gestione del potere tra il mondo liberale e i paesi considerati “cattivi” e dittatoriali.
Così come lo stato democratico contiene in sé la realtà della dittatura, dell’arbitrio e del dominio, allo stesso modo il capitalismo anche in Occidente contiene in sé la tendenza inarrestabile a cancellare gli orpelli dello stato di diritto ed a promuovere la violenza come forma di gestione della società. Recentemente Maurizio Lazzarato ha ricordato come Krahl sostenesse che la tesi di Marx per il il quale il capitalismo concorrenziale del XIX secolo portava in sé una tendenza allo sviluppo favorevole al socialismo, non aveva validità alcuna per il capitalismo monopolistico che, al contrario, serbava nel proprio “cuore nero” un’irresistibile attrazione per la barbarie fascista.
La tendenza al fascismo del capitalismo senza antagonisti organizzati e visibili come potenza alternativa a quella del binomio Stato-Capitale potrebbe sembrare incomprensibile se pensiamo il fascismo come reazione delle classi al potere contro la minaccia di una sovversione dal basso organizzata. Così in effetti è stato con il fascismo storico novecentesco, quando la Rivoluzione d’ottobre divenne lo spauracchio delle classi capitalistiche d’occidente e la presenza di un vasto ed organizzato movimento operaio nelle stesse metropoli, poteva far temere a lor signori che la formazione sociale borghese che aveva generato il capitalismo e la sua vite senza fine di continua produzione di profitto fosse alla fine.
Oggi, lo abbiamo scritto sopra, la situazione è evidentemente diversa anche agli occhi del più ingenuo tra i commentatori. Cionondimeno, la tendenza alla crisi è emersa nuovamente in modo radicale con il crollo dei mercati nel 2008 e il conseguente tsunami sui debiti sovrani degli stati che hanno segnato la morte della governabilità neo liberale. Quest’ultima è funzionata come forma “dolce” della guerra civile mossa dalle classi capitalistiche contro quelle lavoratrici per una trentina di anni. Lo scopo di questa guerra interna ai vari stati, diversa nelle modalità ma univoca negli obiettivi, è stata quella di riprendersi quanto strappato dalle seconde alle prime durante il quarantennio segnato dalla grande espansione economica, dal pieno impiego, dalla “minaccia sovietica” e dall’istituzionalizzazione del movimento operaio. La strategia delle classi dominanti è stata quella di gestire una condizione di crisi continua della formazione sociale perseguendo la concentrazione della ricchezza in mano a pochi e il conseguente impoverimento dei molti. Una strategia che la crisi del 2008 e la sua continuazione in altre forme rende sempre più difficile da gestire. Le rivolte francesi e quelle americane non sono state in grado di invertire il senso di marcia del mondo (o anche solo del paese) ma hanno segnalato che la pressione contro le classi subalterne è sempre meno accettata e rischia di portare a esplosioni di collera sociale sempre meno gestibili con gli strumenti classici dello stato di diritto.
A questo aggiungiamo la pressione sempre più forte delle economie non appartenenti all’Occidente per una partecipazione non subordinata alla ricchezza mondiale. L’evidente declino dell’occidente globale è un incubo per classi dominanti abituate a dominare senza alcuna necessità di mediazione con altri attori di potenza simile o di poco inferiore.
La guerra in Ucraina è una delle conseguenze della diminuzione di controllo occidentale sull’economia mondiale e sulla produzione globale di ricchezza. La mondializzazione trova qui la sua verità: si accettano commensali finché si accontentano del tavolo dei ragazzi accanto a quello degli adulti, non certo quando pretendono di sedere allo stesso banchetto e di mettere in discussione i rapporti di potere complessivi.
La tendenza alla guerra è confermata dall’appoggio dell’Occidente alla pulizia etnica in corso in Palestina ad opera di Israele. Se solo venti anni fa gli USA e l’occidente globale avrebbero fermato l’alleato riottoso (che, sia ben chiaro, persegue propri obiettivi sempre più in linea con la fascistizzazione dell’intero blocco alleato), oggi si limitano a qualche reprimenda per gli “eccessi” e agli auspici di una tregua.
Sono facce di uno stesso prisma che converge in un punto ben preciso. La guerra statale come mezzo di disciplinamento delle potenze locali che cercano di mettere in discussione il controllo occidentale della sfera globale, la pulizia etnica in Palestina come mezzo di disciplinamento di popolazioni “eccedenti” le necessità dello sviluppo complessivo, non diversamente dagli accordi tra nord e sud del Mediterraneo per disciplinare e selezionare l’immigrazione dal sud del mondo.
Crisi dentro e non del capitale – necessità di controllare nuove materie prime – trasformazione del paradigma produttivo. Queste sono le poste in gioco che vengono aggredite da parte delle potenze occidentali e dal blocco proprietario che le innerva con una ferocia sempre maggiore. Da parte occidentale si tratta di ridisegnare un mondo nuovo dell’accumulazione in cui i padroni del gioco restino sempre gli stessi.
Per farlo, gli istituti della democrazia liberale all’interno dei confini dell’occidente diventano sempre più un ostacolo e un problema. I governi tecnici, il There Is No Alternative, la decisionalità rapida ed efficiente sono armi che non bastano più a un blocco dominante che sta giocando la partita della vita per garantirsi di restare sempre e comunque il dominus del gioco mondiale. La soluzione fascista diventa allettante in questo quadro e viene giocata a corrente alternata, sempre in modo da non rompere completamente le società del capitale ma ogni giorno in modo più deciso e pervasivo.
Dentro questa tendenza quello che manca da parte nostra è la capacità di tenere in piedi in modo reticolare i movimenti di resistenza ed opposizione che pure continuano ad esistere anche in occidente. Assistiamo ad una deriva identitaria che rischia di renderci ogni giorno più deboli a fronte di un’iniziativa offensiva da parte delle classi dominanti che ha una violenza raggiunta solo durante il periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale. La costruzione o il ripensamento di categorie che permettano ai ed alle dominate di resistere efficacemente e di controbattere a questo attacco è un compito che dobbiamo prenderci sulle spalle, con tutte le difficoltà che sono davanti agli occhi di tutte le persone.
(1. continua)
Stefano Capello