Una notizia nei giorni scorsi ha fatto il giro della rete: in occasione del World Economic Forum di Davos, l’organizzazione non governativa Oxfam ha dimostrato, cifre alla mano, come il patrimonio accumulato dall’1% dei più ricchi al mondo ha superato lo scorso anno quello del 99% della popolazione mondiale, con un anno in anticipo rispetto alle previsioni. Inoltre, all’interno di questo dato, i 62 uomini più ricchi del mondo hanno una ricchezza equivalente a quella della metà più povera della popolazione mondiale – all’incirca 62 contro 3.600.000.000, più o meno 1 contro 58.064.516: in pratica, ognuno di questi uomini guadagna all’incirca quanto un numero di essere umani pari al numero degli abitanti dell’Italia. Il dato è certo impressionante, ma ancora di più dovrebbe impressionare la rapidità di crescita del fenomeno di concentrazione della ricchezza in poche mani: solo per fermarsi al numero dei “paperoni” la cui ricchezza era pari alla metà della popolazione mondiale più povera, solo cinque anni fa, nel 2010, erano 388 – sei volte tanto. Questo come altri dati similari segnalano una progressiva e velocissima polarizzazione della distribuzione delle risorse economiche, a livello sia mondiale, sia locale. Di la dell’aspetto episodico, vale la pena analizzare il fenomeno a livello di storia delle società industriali, in quanto, da un certo punto di vista, esso non è nuovo, da un altro punto di vista, ci permette di ripercorrere il rapporto tra distribuzione della ricchezza e lotte sociali.
Primi Momenti del Capitalismo Industriale
I dati documentari inerenti i primi momenti della storia delle società industriali – 1740 ca / 1850 ca – sono molto frammentari, perciò è difficile capire quali siano state le dinamiche precise, in termini di distribuzione/polarizzazione delle ricchezza, rispetto alle società preindustriali. Ciononostante, un dato è evidente: l’industrializzazione ha comportato da subito un aumento della ricchezza prodotta, a vantaggio soprattutto dei detentori del capitale necessario all’acquisto ed alla conduzione delle nuove imprese: è perciò pressoché sicuro, anche se la quantificazione precisa è difficile, che il reddito del padrone di fabbrica relativamente al lavoratore dipendente superasse di molto la differenza di reddito tra il latifondista ed il suo fittavolo. In ogni caso, vari studi hanno sicuramente dimostrato che le condizioni di vita medie, intese in termini di reddito/accesso ai beni, di un contadino dell’età preindustriale erano migliori, e di molto, di quelle dei lavoratori della prima fase della industrializzazione (e, ancora oggi, di quelle dei lavoratori delle fabbriche delle zone di “recente industrializzazione” – in altri termini, i paesi dove si tende a “delocalizzare” la produzione).(1)
Lo stesso si può dire per un confronto tra le condizioni di vita degli artigiani e degli operai.(2)
Anche questi sono indici sicuri dell’avvio di un processo di polarizzazione della ricchezza sin dagli inizi della società industriale; non che prima non esistessero disuguaglianze sociali, ma la cosiddetta “forbice” del fenomeno cominciò ad assumere dimensioni imparagonabili a quelle delle società preindustriali.
Dalla metà dell’Ottocento alla Prima Guerra Mondiale
Nel periodo centrale del XIX secolo, la formazione delle prime associazioni operaie dovette – ma anche qui i dati non permettono una quantificazione precisa del fenomeno – portare ad un miglioramento facilmente avvertibile nelle condizioni di vita del proletariato: in ogni caso la ricerca storica è pressoché unanime sul tema. La formazione della Prima Associazione Internazionale dei Lavoratori e la Comune di Parigi sono il momento più alto di questo processo, che vede anche la definizione delle principali correnti teoriche del socialismo, un processo che viene però interrotto dalla “Grande Depressione” che va dal 1873 al 1896.
Come in quella successiva del 1929, la Grande Depressione del 1873 iniziò con una serie di crolli in borsa (il fenomeno qui però nacque in Europa, alla Borsa di Vienna l’8 Maggio, per poi successivamente spostarsi negli Stati Uniti il 18 Settembre), cui seguirono la chiusura di molte imprese, forti riduzioni salariali ed occupazionali, l’indebolimento del movimento operaio e socialista e, dal punto di vista che qui stiamo privilegiando, una concentrazione della ricchezza ed una “forbice” in termini di possibilità di accesso a beni e servizi che si incrementò sempre più. La fine della crisi coincise con la ripresa in grande stile delle lotte operaie (è il periodo della formazione delle grandi centrali anarcosindacaliste, che saranno le protagoniste di questo risveglio di attività e di conquiste): le conquiste salariali ed in termini di accesso ai servizi sociali innescò il meccanismo economico del moltiplicatore, portando ad un periodo di relativo benessere passato alla storia come la Belle Époque. La genesi del periodo storico della Belle Époque è raramente associata alla ripresa delle lotte operaie, preferendo la maggioranza degli storici soffermarsi sulla questione delle conquiste coloniali. Molti studi empirici, però, hanno mostrato come, in realtà, dal punto di vista del rapporto costi/benefici, le colonie fossero, per l’occidente, un affare in piena perdita.(3)
Di conseguenza, la fine della Grande Depressione è da attribuirsi in maniera pressoché esclusiva alle conquiste operaie in termini di reddito e di accesso a servizi.
Il relativo benessere conquistato dal proletariato non interrompe, però, la tendenza che si era andata delineando alla concentrazione della ricchezza in poche mani. Fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale, anzi, questa si concentra sempre più visibilmente: è il periodo dei grandi monopoli/oligopoli, della “finanziarizzazione” dell’economia tramite la creazione di enormi banche anch’esse tendenzialmente oligopolistiche, dei primi “paperoni” che divengono anche personaggi mediatici. In effetti, lo sviluppo economico delle possibilità di consumo delle classi lavoratrici è una conquista completamente dovuta al ciclo di lotte dell’epoca, che vede il padronato costretto a concedere maggiori fette di reddito. Nel frattempo, però, aumenta sempre più il divario tra le classi che possiedono il capitale ed il resto della società. Secondo il documentato studio di Piketty,(4)
in questo periodo nei paesi maggiormente industrializzati la disuguaglianza raggiunse il picco tra il 1900 e il 1910: l’1 per cento superiore della popolazione possedeva circa il 50 per cento delle ricchezze, il 10 per cento superiore circa il 90 per cento ed il resto della società il rimanente (per la maggior parte in forma di proprietà delle case di abitazione). Insomma, una situazione paragonabile a quella denunciata da Oxfam per il presente, caratterizzata anche da un altra somiglianza: la tassazione sui redditi da capitale, nel periodo considerato, così come oggi, a livelli minimi. Qui, ovviamente, si è trattato, ieri come oggi, di una decisione politica: la concentrazione delle ricchezze mostra, perciò, una sensibile dipendenza dalle politiche statali, come si vedrà adesso.
La Grande Guerra dei Trent’Anni del Novecento
Lo storico inglese Hobsbawm ha definito a ragione il periodo che va dal 1914 al 1945 la “Grande Guerra dei Trent’Anni del Novecento”.(5)
In effetti, fu un periodo in cui lo stesso gruppo di potenze, con qualche aggiustamento in corso d’opera delle alleanze, si batterono continuamente: a parte l’invasione francese di alcune parti della Germania negli anni venti ed il periodo spagnolo del 1936-1939 (Albert Camus, ma non solo lui, negli anni cinquanta, suggeriva di considerare il 1936 il vero inizio della Seconda Guerra Mondiale),(6)
basta spostare l’attenzione al resto del mondo, particolarmente all’Asia invasa dalle truppe giapponesi molti anni prima dell’epopea spagnola per accorgersi che i periodi di pace tra le potenze in lotta, in quei trent’anni, furono ben pochi. Il che comportò un enorme sforzo economico per sostenere il continuo impegno bellico; uno sforzo che ricadde, come sempre, sulle spalle delle classi lavoratrici ma, per l’enormità delle spese in gioco, gli Stati cominciarono ad innalzare anche le tasse sui redditi da capitale e da profitti di impresa. Questo comportò una qual certa riduzione della forbice della ricchezza tra le classi sociali, perché la tassazione sui redditi delle classi superiori fu davvero consistente. Lo Stato, in questo periodo, ripaga però in qualche modo le classi abbienti della diminuzione dei loro redditi tramite le politiche istituzionali totalitarie, (7)
che misero in ginocchio il movimento operaio e socialista, dando al padronato un comando assoluto sulla forza lavoro. Inoltre, le ingenti spese statali danno fiato anche a tutta una serie di imprese medio/piccole, quasi del tutto scomparse durante il periodo precedente.
All’interno di questo periodo, avvenne la Grande Depressione (la Grande Crisi, se si preferisce) del 1929 che, come quella del 1873, comportò la chiusura di molte imprese, forti riduzioni salariali ed occupazionali, l’indebolimento del movimento operaio e socialista ma, appunto, mancò l’aspetto che aveva caratterizzato la crisi del 1873, insomma l’aumento della concentrazione della ricchezza e della forbice di essa tra le classi sociali. Il che, ovviamente, non implicò affatto un miglioramento delle condizioni di vita della classi lavoratrici che persero enormi quote di reddito e, nonostante le favole sulle “politiche sociali” dei governi totalitari, di accesso ai servizi sociali.
I Trent’Anni Gloriosi
Gli anni che vanno dal Secondo Dopoguerra sono oramai passati alla storia come i “Trent’Anni Gloriosi”, per il notevole incremento del reddito e dei servizi dedicati alla classi lavoratrici che, nelle fasce generazionali che l’hanno attraversata, pensano ad essa come ad una sorta di “periodo d’oro” delle loro condizioni di vita e di lavoro. Anche in questo caso, gli storici sottovalutano il ruolo delle lotte dei lavoratori nel portare a questi “anni gloriosi” (sempre relativamente al presente, ovvio). Innanzitutto, non è casuale che le prime esperienze di “stato sociale” avvengano, a partire dal 1933, in quegli Stati Uniti dove il nazifascismo non era riuscito a prendere piede e, nonostante una democrazia dai caratteri decisamente autoritari, il movimento operaio era molto forte, radicato e dai caratteri marcatamente libertari – il che, come abbiamo visto per la ripresa che porto alla Belle Époque, non è un dato secondario. Insomma, in un luogo dove era più facile che la crisi del 1929 (che tra l’altro aveva “buttato a sinistra” e non a destra le classi medie) portasse a sbocchi rivoluzionari e, di conseguenza, le classi dominanti erano più propense a concessioni. Inoltre, nel dopoguerra europeo, le masse lavoratrici uscivano dall’esperienza resistenziale – in altri termini, erano armate (anche se non ufficialmente) e facilmente disposte ad esiti insurrezionali: lo “stato sociale” di matrice keynesiana (8)nasce anche qui come meccanismo di mediazione sociale.
Questo meccanismo di mediazione è funzionale allo scopo ma è altrettanto costoso, dal punto di vista del capitale, della “Grande Guerra dei Trent’Anni” ed ha comportato un sistema di tassazione progressiva notevolmente oneroso per le classi ricche. Diremo meglio: per i “paperoni”, in altre parole per quelli che il sociologo statunitense Vance Packard analizzò in un suo famoso testo,
non a caso pubblicato nel 1989 quando era oramai evidente che questi si erano riaffacciati sulla scena, insieme alla concentrazione delle ricchezze in poche mani ed ad un nuovo allargamento della forbice sociale delle condizioni di vita. Infatti, come negli anni dal 1914 al 1945, le enormi spese pubbliche (stavolta fortunatamente in buona parte rivolte ai servizi sociali), si riversarono non solo a favore del proletariato, ma anche delle classi medie; inoltre anche il numero delle aziende di medie e piccole dimensioni aumentò, portando ad una redistribuzione della ricchezza, nel senso di una maggiore diffusione di essa, anche tra le classi davvero ricche e non semplicemente benestanti. A metà degli anni Settanta, però, terminata la paura della rivoluzione e dietro il paravento ideologico del “nuovo che avanza”, il vecchio tornò alla grande.
Enrico Voccia
continua sul prossimo numero
1 Vedi, p. e., THOMPSON, Edward, Whigs e Cacciatori: Potenti e Ribelli nell’Inghilterra del 18° Secolo, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989.
2 Vedi il classico ENGELS, Friedrich, La Situazione della Classe Operaia in Inghilterra confrontato con quanto scriveva nel 1728 in merito alle condizioni delle classi lavoratrici preindustriali Daniel Defoe: “Vediamo le loro case ed alloggi tollerabilmente ammobiliati o almeno ben provveduti delle utili e necessarie masserizie; anche coloro che chiamiamo poveri, gli operai [gli artigiani dipendenti, ndr], la gente che lavora e fatica, hanno questo modo di vita: dormono al caldo, vivono con agio, lavorano sodo e non sono sforzati a conoscere il bisogno.” (citato in LANDES, David S., Prometeo Liberato. Trasformazioni Tecnologiche e Sviluppo Industriale nell’Europa Occidentale dal 1750 ai Giorni Nostri, Torino, Einaudi, 1978).
3 Vedi, p. e., SHLESINGER J., Arthur M., I Cicli della Storia Americana, Pordenone, Tesi, 1991.
4 PIKETTY, Thomas, Il Capitale nel XXI Secolo, Milano, Bompiani, 2014.
5 Vedi HOBSBAWM, Eric J., Il Secolo Breve. 1914-1991, Milano, BUR, 1997.
6 CAMUS, Albert, “Calendario della Libertà”, in Témoins, primavera 1954, pp. 1-10, tradotto in Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filosofia…, lemma “Rivolta”, pp. 27-30.
7 Il nazifascismo, ovviamente, ma non solo. Chi scrive legge le esperienze del marxismo leninismo all’interno della storia del capitalismo e come una controrivoluzione antioperaia ed anticomunista.
8 Si tratta di un argomento che esula dal tema di questo articolo, ma sarebbe interessante notare come molte delle tesi economiche con cui il matematico inglese fondò la disciplina della macroeconomia erano, fino a quel momento, circolanti solo nell’ambito del movimento anarchico. Si pensi solo al famoso aneddoto che lo ricorda rispondere a chi gli obiettava come non si possano costruire edifici se non ci sono i soldi, che, invece, si possono tranquillamente fare perché non mancano né uomini né mattoni. Fino a quel momento, una risposta del genere l’avrebbe data solo un anarchico reduce dalle letture di Kropotkin o Malatesta.
9 PACKARD, Vance, I Super Ricchi, Milano, Bompiani, 1990.