Si sono svolti, tra la fine di ottobre e il 18 dicembre, presso il Feltrinelli Point di Terni, i primi tre incontri del ciclo Venerdì libert@ri, dedicato ad una esplorazione della cultura libertaria contemporanea, delle sue matrici, dei variegati ambiti e forme in cui si manifesta in campo etico, sociale, politico, artistico.
L’incontro di apertura, con Luisella Battaglia (30 ottobre), presentava la prima edizione italiana (2015) di un libro che si può considerare il primo manifesto antispecista della storia moderna: Animals’ Right (1892), dell’attivista Henry Stephens Salt, amico di Kropotkin e difensore della sua teoria secondo la quale, non solo per le società umane, ma anche per le altre specie viventi, il “mutuo appoggio” è più importante della “selezione naturale”. Era presente Bruno Forti, chirurgo che è stato tra i primi a introdurre in Italia il rifiuto della vivisezione.
Dopo una breve mia introduzione, mirata ad illustrare gli intenti dell’iniziativa, Battaglia ha discusso i contenuti del libro, la lungimiranza di Salt, l’estrema attualità delle problematiche da lui sollevate, in cui l’istanza animalista si intreccia con la questione ambientale e sociale, concludendo che, oggi più che mai, “il superamento della classica visione antropocentrica si collega, altresì, alla presa di coscienza che la sopravvivenza della nostra specie può assicurarsi solo con quella delle altre. La grande lezione dell’ecologia - è stato detto - è che ognuno è legato a tutti gli altri. Da qui una inedita solidarietà nei confronti di tutto ciò che è vivente, accomunato a noi da un’incerta sorte e il sorgere di un’attitudine di cura verso i non umani, minacciati con noi, come noi”.
Durante il dibattito, è stato sollevato il problema della estrema problematicità della categoria dei “diritti” cui Salt, come molti autori e movimenti contemporanei, si richiama, e sottolineata la distanza tra almeno due diverse opzioni antispeciste oggi in campo: quella di chi considera la liberazione umana e animale dall’oppressione sociale compatibile con il sistema liberale e realizzabile al suo interno; l’altra, di chi, invece, ritiene che la mercificazione di tutte le relazioni e attività umane, e la riduzione a merce di tutti gli enti naturali, messe in atto dal sistema capitalistico, non consentano, se non in circostanze, momenti, contesti in cui se ne riesce a spezzare, o per sua implosione si strappa, qualche loro ganglio cruciale, forme di effettiva liberazione. Personalmente, ho suggerito, quale possibile orizzonte di trascendimento del liberalismo e del capitalismo, la prospettiva di un comunismo libertario degli individui, dei generi, delle genti e delle specie.
Il secondo appuntamento, con Annamaria Rivera (27 novembre), messo in calendario come discussione sulla condizione dei migranti e le sue cause sociali, è stato parzialmente ripensato, dopo le stragi del 13 novembre, e proposto col nuovo titolo: La guerra dell’Europa-Fortezza contro migranti e profughi. La recrudescenza del razzismo dopo il 13 novembre. Scontando, probabilmente, l’effetto stesso che tematizzava, ovvero, il puntuale rinforzarsi, di fronte ad attentati e proclami che si richiamano alla religione islamica, di pulsioni e pratiche razziste alimentate da una speculazione politica mai sazia di lucrare voti, soldi e potere sulla morte altrui, l’appuntamento è stato, fra i tre, quello che ha visto minore affluenza. Ciò non ha impedito ai presenti di apprezzare la competente, disincantata, ma al contempo tutt’altro che rassegnata, analisi degli scenari interni di alcuni paesi nord-africani, come la Libia e la Tunisia, e l’individuazione delle gravissime responsabilità europee, negli esodi e nelle stragi che insanguinano il Mediterraneo e le autostrade del continente, proposte da Rivera. Opportunamente, la relazione ha toccato, fin dall’apertura, anche temi legati agli attentati rivendicati da Daesh e alle guerre del, e ‘contro’ il, ‘califfato’, sottolineando le innegabili connivenze, e l’enorme giro di affari legato a traffico di petrolio e armi, degli Stati occidentali e delle “Petro-monarchie del Golfo” con il presunto “nemico”. Il dibattito, vivace nonostante i pochi presenti, ha toccato, tra gli altri, i temi del “risentimento” , alimentato dagli infiniti lutti e soprusi inflitti dall’Occidente agli altri continenti, anche nella cosiddetta epoca “post-colonialista” e ai giorni nostri, come fattore che facilita l’adescamento, anche tramite web, di potenziali militanti per le formazioni dell’estremismo islamico.
Il terzo incontro (18 dicembre) era stato programmato con l’intenzione di discutere di repressione del dissenso e tenere alta l’attenzione sulla vicenda di persecuzione giudiziaria che ha investito, dal 23 ottobre del 2007, l’anarchico spoletino Michele Fabiani. Ricevuta la notizia (una volta tanto positiva) della sua liberazione per esaurimento della pena, abbiamo esteso a Michele stesso l’invito e deciso, con lui, di rimodulare il tema, discutendo insieme di: Prospettive libertarie nella fase attuale del capitalismo. Partecipavano una quindicina di persone, le cui “provenienze”, schematizzando (e scusandomene con loro), potrei ricondurre, rispettivamente, per quelli che conoscevo, a diverse aree e concezioni dell’anarchismo e del libertarismo, all’ex Autonomia, all’illuminismo critico della Scuola francofortese. Nell’introdurre la discussione, ho inteso porre, all’interlocutore e a quella eterogenea comunità di dialogo, alcune domande: come declinare, e praticare, oggi, in modo non velleitario, non semplicemente moralistico, né meramente resistenziale o testimoniale, l’anticapitalismo? Che significa, in un’epoca il cui il capitalismo appare, contemporaneamente, trionfante e incapace di gestire in modo non devastante anche gli aspetti più basilari della convivenza sociale, essere “anti-capitalisti”? Come andrebbe ripensata e praticata oggi l’istanza “rivoluzionaria” propria dell’anarchismo?
Michele ha innanzitutto rivendicato, riguardo all’epoca posteriore alla caduta del regime sovietico e alla crisi delle organizzazioni di ispirazione marxista che ne è seguita, una presenza attiva degli anarchici nel conflitto sociale che ne fa, a suo avviso, l’unico movimento effettivamente anticapitalista e rivoluzionario oggi esistente. Riguardo alle pratiche, il suo intervento mi è sembrato ribadire, pur prendendo le distanze da ogni enfasi violentista, la visione incarnata, all’interno del movimento anarchico italiano, nei decenni passati, dall’ala bonanniana.
Nel dibattito, animato da un ampio giro di interventi, sono emerse varie obiezioni e perplessità, rispetto alle prospettive offerte nell’introduzione e nell’intervento. A più di uno è parsa enfatica la rappresentazione del ruolo degli anarchici nei conflitti sociali degli ultimi decenni, proposta da Michele. Altri, pur impegnati da anni in lotte sociali, si sono detti ormai distanti dalla prospettiva della “rivoluzione”, non riscontrando modi concreti per declinarla. Personalmente, ho osservato che una parte dei movimenti ispirati all’anarchia, negli ultimi decenni, si è, a mio avviso, prestata, sotto vari aspetti, all’assimilazione di ruoli e stereotipi comportamentali prescritti dai media e a forme spettacolarizzate di conflitto, in cui si finisce per perdere la distinzione tra sfogo di frustrazioni personali (in ruoli e modi funzionali al ritratto che il regime vuol far circolare dei dissenzienti, degli anarchici e dei ‘rivoluzionari’), autopromozione mediatica, e azione sociale incisiva. La problematica è stata ripresa in vari interventi. Altri interessanti suggerimenti, relativi alla domanda “cosa significa anticapitalismo oggi?”, sono venuti da Giovanni, amico di lunga data, che osservava: in ogni atto che riesca a interrompere il ciclo delle merci c’è un momento di libertà; anticapitalistico è oggi, innanzitutto, contrastare, e se possibile spezzare, il trasferimento di intelligenza e conoscenza dalle persone alle macchine, tramite il quale il dominio e la spoliazione si diramano in ogni luogo, in ogni casa, in ogni mente.
Marco Celentano