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Sta a noi essere tutto

Sta a noi essere tutto

In questo testo del 2010, Vaneigem, uno degli esponenti storici dell’Internazionale Situazionista, anticipa molte delle nuove caratteristiche della militanza politica che vede coinvolti comunità in varie parti del globo in un’azione di mutuo appoggio basata sul rifiuto della delega statale che, in periodi di crisi (finanziaria o sanitaria), adotta politiche ben lungi dal sostenere la parte povera dei paesi, anzi vede aumentare le disuguaglianze in maniera enorme. Azioni di mutualismo, creazioni di comitati di quartiere, scambio di competenze e servizi non mediati dal denaro trapelano dal discorso di Vaneigem, dal quale è importante prendere spunto per nuove forme di lotta che non escludono ne evitano ma preparano l’inevitabile conflitto .

(…) Parecchie questioni si presentano con un’ urgenza che lo scatenarsi degli avvenimenti rischia di far precipitare. Mi guarderò bene dal fornire delle risposte che, al di fuori delle condizioni pratiche e delle collettività in cui esse emergeranno, rischierebbero di cadere nell’astrazione e l’astrazione, in quanto pensiero separato dalla vita, risuscita sempre i vecchi mostri del potere. Mi sono accontentato di dar loro una qualche illustrazione.

1. Che cosa siamo pronti a mettere in atto per rimediare alla carenza di uno Stato che non solo non serve più i cittadini ma li dissangua per nutrire la piovra bancaria internazionale?

La forza d’ inerzia lavora contro di noi. Le tradizioni familiari, sociali, politiche, economiche, religiose, ideologiche non hanno smesso di perpetuare, di generazione in generazione, quella servitù volontaria che già La Boetie denunciava. È possibile, per contro, trarre vantaggio dallo choc che stanno per produrre il crollo del sistema, la disintegrazione dello Stato e la tentazione di guardare oltre alle meschine frontiere della merce.

C’è da aspettarsi un rovesciamento di prospettiva. Di là dell’eventuale saccheggio dei supermercati, al quale rischia di portare una pauperizzazione accelerata, molti consumatori minacciati di esclusione non mancheranno di accorgersi che la sopravvivenza non è la vita, che l’adulazione di prodotti adulterati e inutili non vale il piacere di un’ esistenza in cui la scoperta delle energie e dei beni prodigati dalla natura si accorda ai richiami del desiderio. Che la vita è qui, adesso, che è tra le mani della maggior parte della gente, che non chiede altro che di costruirsi e di propagarsi.

Smettiamo di versare lacrime sugli insuccessi dell’emancipazione che costellano la nostra storia, non per celebrare delle affermazioni occasionali – perché le nozioni di riuscita e di fallimento emanano un cattivo odore di concorrenza mercantile, di tattica e di strategia, di competizione predatrice – ma per sostenere delle esperienze che, abbozzate con felicità e audacia, aspettano che noi le portiamo avanti con l’attuazione di un progetto di autogestione e con l’istituzione delle assemblee di democrazia diretta.

Le collettività zapatiste del Chiapas sono forse le sole oggi ad applicare la democrazia diretta. Le terre messe in comune escludono già dall’inizio i conflitti legati all’appropriazione privativa. Ciascuno ha il diritto di partecipare alle assemblee e di prendervi la parola manifestando la propria scelta, anche i bambini. Non ci sono a dire il vero, degli eletti tramite un plebiscito assembleare. Si propone soltanto agli individui che manifestano interesse per certi settori (l’insegnamento, la salute, la meccanica, il caffè, l’organizzazione delle feste, i metodi di agricoltura biologica, le relazioni con l’esterno) di diventare i mandatari della collettività per un periodo limitato. Essi entrano allora in una “giunta di buon governo” e rendono regolarmente conto della loro missione per tutta la durata del mandato. Le donne, reticenti all’inizio a causa delle abitudini patriarcali dei Maya, occupano ora un posto preponderante nelle giunte.

Per definire la loro volontà di fondare una società più umana, gli zapatisti usano una formula che ricorda la necessità di una vigilanza costante: noi non siamo un esempio ma un’esperienza.

2. il denaro non si sta solo svalutando, è sul punto di scomparire. Durante la rivoluzione spagnola, alcune collettività dell’Andalusia , dell’Aragona e della Catalogna avevano stabilito un sistema di distribuzione che escludeva il ricorso alla moneta (altre hanno continuato a usare la peseta e altre ancora hanno battuto una nuova moneta locale, collaborando tutte benissimo insieme). Oggi sta a noi esaminare come soppiantare, con una relazione umana fondata sul dono piuttosto che sullo scambio, un rapporto di sfruttamento nel quale il commercio delle cose determina il commercio degli uomini.

Siamo stati schiavi di un funzionamento economico il cui instaurarsi ha segnato l’atto di nascita della civiltà mercantile, alterando i comportamenti individuali e sociali, favorendo una confusione permanente tra comfort e snaturamento, progresso e regressione, aspirazione umana e barbarie.

Certo, il modello di finanziamento concreto e virtuale costituisce ancora oggi un sistema coerente – una coerenza assurda, è vero, eppure in grado di continuare a governare i comportamenti. Per contro, che cosa rischia di succedere il giorno in cui il crac finanziario toglierà al denaro il suo valore e la sua utilità?

La sua scomparsa sarà salutata, non c’è dubbio come una liberazione da quanti gli negano il diritto di tiranneggiare la loro vita quotidiana. Tuttavia il feticismo del denaro è talmente incrostato nei nostri costumi che molti individui assoggettati al suo giogo millenario finiranno per trovarsi in preda a quegli scompensi emotivi su cui regna la legge della giungla sociale e per i quali si scatena la lotta di tutti contro tutti e imperversa la violenza cieca in cerca di capri espiatori.

Non sottovalutiamo i tentacoli del polipo ridotto alla difesa nei suoi ultimi ripari. La rovina del denaro non implica, infatti, la fine della depredazione, del potere, dell’appropriazione, degli esseri e delle cose.

L’esacerbarsi del caos, tanto utile alle organizzazioni statali e mafiose, propaga un virus di autodistruzione i cui rigurgiti nazionalisti, gli sfoghi genocidari, i conflitti religiosi, i rigurgiti della peste fascista, bolscevica o integralista rischiano di avvelenare gli spiriti se l’intelligenza sensibile del vivente non rimette al centro delle nostre preoccupazioni la questione della felicità e della gioia di vivere. L’abiezione ha sempre avuto un fascino che, dopo qualche imbarazzo, si apre una strada segreta e, infettando tutti gli strati della popolazione, si aspetta di poter garantire l’impunità e la legittimità alla barbarie banalizzata (l’ascesa del nazismo in Germania ha mostrato come l’umanesimo astratto potesse trasformarsi in efferatezza sfrenata).

Non bisogna, per contro, permettere che la disumanità del passato cancelli la memoria dei grandi movimenti di emancipazione e quel che ebbero di più radicale: la volontà di liberare l’uomo alienato e di far nascere in lui quella vera umanità che riappare di generazione in generazione.

La società a venire non ha altra scelta che quella di riprendere e sviluppare i progetti di autogestione che dalla Comune di Parigi alle collettività libertarie della Spagna rivoluzionaria hanno fondato sull’autonomia degli individui una ricerca di armonia in cui la felicità di tutti sia solidale con la felicità di ciascuno.

3. Il fallimento dello Stato obbliga le collettività locali a mettere in atto una gestione del bene pubblico più adatta agli interessi vitali degli individui. Sarebbe illusorio pensare che liberare dei territori dal dominio mercantile e instaurare delle zone in cui i diritti umani sradichino il diritto del commercio e della redditività si possa compiere senza scontri. Come difendere le enclave della gratuità che cercheremo di impiantare in un mondo controllato da un sistema universale di spoliazione e avidità?

(…) La coesione non può che fondarsi su un progetto di vita individuale e sociale. L’avvenire apparterrà alle collettività locali capaci di pensare globalmente. Intendo dire: quelle che scommettono sulla loro radicalità e sulla sua diffusione per gettare le basi di un’internazionale del genere umano. Questo è il solo modo di evitare la trappola del comunitarismo, prodotto del giacobinismo statale.

L’idea dei comitati di quartiere istituiti a Oaxaca merita di essere esaminata come un percorso praticabile (…). I comitati di quartiere non rappresentano una minaccia armata, non sono un pericolo identificabile per il potere. Formano un luogo dall’identità imprecisa, nel quale ci si occupa di approvvigionamento alimentare, acqua, energia. Si sviluppa così una solidarietà su temi apparentemente anodini che fa cambiare la mentalità, aprendole alla coscienza e alla creatività. L’uguaglianza dell’uomo e della donna, il diritto alla felicità, il miglioramento della vita quotidiana e dell’ambiente perdono così il loro carattere astratto e modificano i comportamenti.

Dando priorità alle questioni poste dalla vita quotidiana si rendono poco a poco antiquati i problemi tradizionalmente rimasticati dalle ideologie, dalle religioni e da quella vecchia politica che è la politica del vecchio mondo. Si ritorna così al senso originale del termine “politica” : l’arte di gestire la città, di migliorare il luogo sociale e psicologico nel quale le persone aspirano a vivere secondo i propri desideri.

Abbiamo tutto da guadagnare ad attaccare il sistema e non gli uomini che ne sono contemporaneamente i responsabili e gli schiavi. Cedere alla peste emozionale, alla vendetta, allo sfogo, vuol dire partecipare al caos e alla violenza cieca di cui lo Stato e i suoi apparati repressivi hanno bisogno per continuare a esistere.

Non sottovaluto il sollievo rabbioso cui si abbandona la folla che incendia una banca o saccheggia un supermercato. Sappiamo, però, che la trasgressione è un omaggio al divieto e che offre una via d’uscita all’oppressione poiché non la distrugge ma la restaura. L’oppressione ha bisogno di rivolte cieche. Per contro, non vedo mezzo più efficace per dedicarsi alla distruzione del sistema mercantile che propagare la nozione e la pratica della gratuità (qui e là, per esempio, si abbozza timidamente il sabotaggio dei parchimetri con gran dispiacere delle imprese che pretendono di rubarci lo spazio e il tempo).

Ci mancano a tal punto immaginazione e creatività da non sapere abolire gli obblighi legati al racket delle lobby pubbliche e private? Quale strumento potrebbero opporre a un movimento collettivo che decretasse la gratuità dei trasporti pubblici, che rifiutasse di pagare tasse e imposte allo Stato truffatore per investirli a beneficio di tutti, dotando una regione di energie rinnovabili, migliorando la qualità dell’assistenza medica, dell’insegnamento, dell’alimentazione, dell’ambiente?

Non è forse restaurando una vera politica di prossimità che getteremo le basi di una società autogestita? Anziché indire scioperi dei trasporti (treni, autobus e metro) che ostacolano gli spostamenti dei cittadini, perché non decidere di farli circolare gratuitamente? Il vantaggio sarebbe quadruplo: nuocere alla redditività delle imprese di trasporti, ridurre i profitti delle lobby petrolifere, spezzare il controllo burocratico dei sindacati e, soprattutto, incoraggiare l’adesione e il sostegno massiccio degli utenti.(…).

Tratto da VANEIGEM, Raoul, Lo Stato Non È Più Niente, Sta a Noi Essere Tutto (Luglio 2010)

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