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Luigi Fabbri – L’ideale anarchico , 1911

Luigi Fabbri – L’ideale anarchico , 1911

In questo classico del pensiero anarchico, Luigi Fabbri sgombra il campo non solo dai pregiudizi su come il termine anarchia viene scientemente denigrato dai suoi oppositori (persino oggi, nelle manifestazioni il pericolo principale delle autorità statali è identificato dalla presenza degli anarchici) ma anche dall’idea che più leggi e ordinamenti rendono la società più ordinata e vivibile per il cittadino. La storia e l’argomentazione appassionata di Luigi Fabbri ci dimostrano il contrario e ci vien da pensare con un piccolo sforzo comparativo a come tutte le promulgazioni legislative dell’ultim’ora: ordinanze, DPCM, leggi statali o regionali in questo periodo, creino più confusione che altro. È in realtà solo il buon senso e la coscienza solidale delle persone o almeno della gran parte di queste a consentire una pacifica convivenza, nonostante e non grazie alle leggi. Utopia? I repubblicani dopo ed addirittura i liberali prima erano definiti tali nel periodo delle monarchie assolute. Oggi gli anarchici sono definiti così nel periodo della (finta) democrazia autoritaria, eppure sono fra i pochi nel mondo a sperimentare nuove forme di convivenza che si dimostrano maggiormente efficaci di un sistema che crea ricchezza per pochi e miseria per tanti.

(…) Anarchia significa, come dice la stessa etimologia della parola, negazione di autorità. E noi anarchici infatti neghiamo il principio di autorità combattendolo in tutte le sue manifestazioni di violenza e di coazione. Combattiamo l’autorità quando essa si personifica in un potere più o meno esteso od intenso, dei pochi sui molti ed anche dei molti sui pochi, il quale costringa, con la forza o con l’inganno o col ricatto o con la minaccia di un danno, una collettività e gli individui che la compongono a fare o non fare una data cosa, sia pure in nome di un principio astratto creduto buono ed utile alla generalità. Il governo che manda il carabiniere a prendere per il bavero il giovane di vent’anni per costringerlo a fare il soldato o ad arrestare un cittadino perché dice male del principe, è una forza dell’autorità; il prete, che con le fandonie religiose e lo spauracchio della vita futura mutila la natura umana costringendo l’uomo all’esercizio macchinale della preghiera, e vietandogli di pensar come vuole, è l’autorità che inganna; il padrone che costringe l’operaio a lavorare per pochi soldi molto tempo e gli impedisce così di godere la vita, con la minaccia di lasciarlo sul lastrico a morire di inedia, è l’autorità che affama con un ricatto; il legislatore infine che fabbrica le leggi, con cui si limita la libertà dei cittadini per tenerli sottomessi al governo, al prete ed al padrone, e l’osservanza delle quali è imposta con tutto un sistema punitivo che va dal carcere alla morte, è l’autorità – un’autorità che combattiamo insieme a tutto il complicato meccanismo che ella si è fabbricata attorno per sostenersi.

Questa è l’autorità che neghiamo, la quale ha fondamento nella violenza e nella coazione; ed abbiamo voluto spiegarci perché non ci si fraintenda. Infatti, quando noi affermiamo senz’altro il nostro principio di negazione d’ogni autorità, c’è sempre qualcuno che sorge ad obiettarci: “Ma come? In anarchia, non essendoci rispetto per alcuna autorità, ciascuno potrà fare il comodo suo, anche facendo cose pazze. I muratori che costruiranno una casa non vorranno ubbidire all’autorità dell’architetto, gli infermieri all’autorità del medico, i ferrovieri all’autorità del capo stazione, e così via di seguito. A questo modo la casa crollerà presto, i malati moriranno, i treni partiranno troppo presto o troppo tardi, provocando disastri.…”. Ragionar così vuol dire, con la scusa della logica, portare le idee fino all’assurdo; a cui noi invece non giungiamo, convinti che tutte le idee, anche migliori, condotte all’assoluto, divengono o cattive o impraticabili. Certo, in anarchia ci sarà ancora l’autorità — se così si può chiamare — della scienza e dell’esperienza, ed anzi io credo che quest’autorità sarà molto maggiore e più sentita che non oggi. Ma ad essa si conformeranno tutti, senza bisogno di un organo coattivo che ve li costringa, sia per la coscienza collettiva ed individuale più evoluta, sia per un miglioramento psicologico dell’umanità cui condurrà il nuovo assetto sociale — ma sopratutto perché tutti vi troveranno il proprio interesse, e tutti vi saranno costretti dal bisogno. Del resto, anche oggi c’è forse bisogno del carabiniere per costringere, il muratore a dar retta al capo-mastro, l’infermiere a seguire il consiglio del medico, il ferroviere a stare scrupolosamente attento alle indicazioni del capo-stazione?

La violenza e l’inganno sono oggi soltanto necessari per costringere gli uomini ad ubbidire all’autorità del governo, del padrone e del prete; e questa precisamente è una prova che ciò che vogliono i preti, i padroni e i governanti non corrisponde più ai bisogni ed alla coscienza evoluta della società. Consci di tutto questo, per questo appunto noi anarchici crediamo d’interpretare le necessità dei tempi nuovi combattendo l’autorità sotto il suo molteplice aspetto violento, nelle istituzioni che ci sembra non più corrispondano ai bisogni dell’umanità. Tacito, nel descrivere il periodo della decadenza della repubblica romana, che fu pure il periodo in cui furono fatte più leggi, dice appunto che le molte leggi sono indice d’un pessimo governo; e ciò vuol dire che quanto più certe istituzioni per reggersi hanno bisogno di leggi, tanto meno per le condizioni evolute della società, quelle date istituzioni hanno ragione di esistere. Se Tacito aveva ragione, e l’aveva certamente, mai una società è stata più alla vigilia di una rivoluzione della attuale, in cui i governi sono così rimpinzati di leggi da non averne riscontro in alcun altro periodo storico. Dunque, l’assenza assoluta d’ogni padrone, sia esso quello invisibile della metafisica, o qualsiasi altro politico ed economico, ha per risultante l’armonico stato di cose cui è stato dato il nome d’anarchia. A formulare l’ideale anarchico siamo giunti attraverso un lavorio intellettuale con cui siamo andati sbarazzando il nostro cervello da tutti i pregiudizi, e innanzi tutto dal pregiudizio religioso. Così è avvenuto, in specie nei paesi latini, dove fino a ieri credere in dio voleva dire credere al prete, il quale poi con la paura dell’inferno cercava impedire la ribellione alle autorità, sempre legittime (secondo lui) anche quando palesemente si mostrassero ingiuste o cattive.

Siccome di filosofia trascendentale ci curiamo e ci occupiamo poco, così — al punto di evoluzione delle nostre coscienze a cui siamo giunti — ci pare ed è forse certo inutile l’occuparsi dell’esistenza di dio. Che dio ci sia o non ci sia, pensiamo, su questa terra vogliamo fare il comodo nostro. Ma storicamente e scientificamente la questione è molto più importante. Il concetto deista è in fondo la consacrazione, la sublimazione del principio di autorità. Ad esso fan capo tutte le religioni rivelate, le quali predicano tutte la rassegnazione e l’ubbidienza ad un’autorità. Che cosa è dio per la mente che crede, se non il padrone dei padroni, il re dei re di tutto l’universo? È il prepotente massimo che, come dice Bakunin, in forma paradossale, se ci fosse bisognerebbe distruggerlo. Il vero anarchico dunque non può non sentire il bisogno di ribellarsi innanzi tutto, coscientemente, a questa autorità fantastica che violenta la sua individualità, a questo essere immaginario che gli imprigiona il pensiero e gli vieta di ribellarsi a tutte le altre autorità ben altrimenti reali, e direttamente nocive, che l’opprimono sulla terra dove vuol essere una buona volta libero e felice. La scienza non conosce dio, ed egli — l’anarchico — uomo moderno che non ignora la scienza, rinnega iddio, di cui la scienza non gli parla, e che l’ipotesi scientifica più positiva nega e distrugge.

(…) Ebbene? Quando noi in uno slancio di entusiasmo esponiamo agli avversari il nostro ideale di ricostruzione sociale nelle sue linee più generali, troviamo sempre qualcuno che ci deride lanciandoci in viso come uno schiaffo la parola: Utopia! E coloro che prima ci dicevano malfattori, quando ci hanno uditi, credono di farci una degnazione col cambiare questo triste nome con l’altro ancor più triste di pazzi. È la freccia del Parto che essi ci lanciano, fuggendo dinnanzi alla logica acuta e stringente delle nostre ragioni. “Il vostro ideale è troppo bello per essere realizzabile” ecco come finiscono la discussione, a corto di altri argomenti, certi nostri contradittori. Se tutti gli uomini ragionassero sempre così, certo l’anarchia non si attuerebbe mai; ma noi facciamo la propaganda appunto per convincerne quanti più è possibile, e spingerli ad agitarsi per costituire la minoranza rivoluzionaria che dovrà determinare il nuovo ambiente, in cui si adagerà dopo una serie di lotte rivendicatrici la società avvenire. Agli scettici noi rispondiamo con la storia alla mano, mostrando come i pazzi di ieri siano i savi di oggi, e come l’utopia di oggi sia destinata ad essere la realtà di domani. A questa convinzione ci conforta lo studio della natura umana e della storia dei popoli e delle istituzioni; e la nostra convinzione è sempre quella che la venuta di un ordinamento sociale anarchico è fatale, inevitabile. La scienza, la filosofia, l’analisi degli avvenimenti e tutto il movimento intellettuale, politico ed economico moderno, preconizzano alla evoluzione tale risultato. (…)

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