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Settimana anarcofemminista a Torino

Settimana anarcofemminista a Torino

É cominciata con un presidio alla farmacia D’Algostino e De Michelis, che rifiuta di vendere la pillola del giorno dopo, la settimana di informazione e lotta transfemminista promossa dal collettivo anarcofemminista Wild C.A.T.
La farmacia, nota da anni in città per la fervente devozione mariana dei suoi proprietari era guardata a vista da due blindati dei carabinieri, da alcune auto dei vigili e dall’immancabile stuolo di polizia politica.
Nonostante la folla di angeli custodi, la farmacia, ha tenuto aperta solo la porta di ingresso, lasciando serrata la vetrina.
Uno striscione con la scritta “né stato né dio sul mio corpo decido io!”
Sono state offerte ai passanti ottime caramelle del giorno dopo, mentre diverse persone si fermavano per informarsi, mentre altre ben conoscevano le attitudini integraliste del proprietario.
Ne abbiamo parlato con Martina di Wild C.A.T., che oltre alla cronaca della giornata ha presentato gli altri appuntamenti della settimana.

https://radioblackout.org/2020/03/ne-dio-ne-stato-ne-patriarcato-una-settimana-di-info-e-lotta-transfemminista/
Di seguito il volantino distribuito al presidio davanti alla farmacia integralista:
“Preti ed obiettori tremate!
Le streghe son tornate

Non tutti lo sanno, ma a Torino ci sono farmacie che rifiutano di vendere la pillola del giorno dopo, che negano alle donne la libertà di decidere sulla propria vita.
La farmacia Algostino e De Micheli di piazza Vittorio Veneto 10 è una di queste.
I farmacisti obiettori sono una minoranza, mentre i medici obiettori sono il 70%. In alcune zone del sud Italia in molti ospedali tutti i medici sono obiettori.

Sino al 22 maggio del 1978 abortire era un reato. Per il codice penale causare l’aborto di una donna consenziente era punito con la reclusione da due a cinque anni, comminati sia all’esecutore dell’aborto, sia alla donna stessa (art. 546); procurarsi l’aborto era invece punito con la reclusione da uno a quattro anni (art. 547); istigare all’aborto, o fornire i mezzi per procedere ad esso era punito con la reclusione da sei mesi a due anni (art. 548).
Se una donna non voleva figli rischiava in caso di aborto la galera e con lei la rischiava chi la aiutava.
Le donne povere utilizzavano ferri da calza o decotti al prezzemolo, o pagavano le “mammane”, rischiando la salute e spesso la vita.
Chi aveva soldi pagava un medico o andava all’estero.

Qualcuno crede che la legge 194 che stabilisce le regole per l’IGV, l’interruzione volontaria di gravidanza, sia stata una grande conquista delle donne del nostro paese.
Noi sappiamo invece che le leggi sono il precipitato normativo dei rapporti di forza all’interno di una società. La spinta del movimento femminista degli anni Settanta obbligò una coalizione di governo composta da laici e cattolici, in cui i cattolici erano la maggioranza, a depenalizzare l’aborto.
La rivolta delle donne, la disobbedienza esplicita di alcune di loro, la profonda trasformazione culturale in atto, spinsero alla promulgazione della 194. Fu, inevitabilmente, un compromesso. Per accedere all’IVG le donne sono obbligate a giustificare la propria scelta, a sottoporsi all’esame di psicologi e medici, a sottostare alle decisioni di genitori o giudici se minorenni. In compenso i medici possono dichiararsi obiettori e rifiutare di praticare le IVG.
Da qualche anno “volontari” dei movimenti cattolici che negano la libertà di scelta alle donne, si sono infiltrati nei consultori e nei reparti ospedalieri, rendendo ancora più difficile accedere ad un servizio che in teoria dovrebbe essere garantito a tutte, come ogni altra forma di assistenza medica.

La legge 194, lungi dal garantire la libertà di scelta, la imbriglia e la mette sotto controllo. Dopo le ripetute sconfitte di referendum e iniziative legislative, la strategia di chi vorrebbe la restaurazione patriarcale, fa leva proprio sulle ambiguità di questa legge per rendere sempre più difficile l’aborto. In prima fila ci sono le organizzazioni cattoliche, che animano e sostengono i movimenti che arrivano a definirsi “pro vita”, e mirano a restaurare la gabbia familiare come nucleo etico di un’organizzazione sociale basata sulla gerarchia tra i sessi.
Non solo. In questi anni le politiche dei governi che si sono succeduti hanno privilegiato il sostegno alla famiglia, a discapito degli individui, in un’ottica nazionalista, razzista, escludente. Dio, patria e famiglia è la cornice di politiche escludenti, che chiudono le frontiere, negano la solidarietà e promuovono l’incremento demografico in un pianeta sovraffollato.
La libertà delle donne passa dalla sottrazione al controllo dello Stato della scelta in materia di maternità. Non ci serve una legge, ma la possibilità di accedere liberamente e gratuitamente ad un servizio a tutela della nostra salute. E su questa non ammettiamo obiezioni.

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Nel pomeriggio del 5 marzo ci siamo trovat* in via Lugaro, davanti alla sede di Stampa e Repubblica, per denunciare la narrazione tossica delle violenze di genere. Per l’occasione sono state consegnate alle relative redazioni giornalistiche scatole contenenti estratti di articoli di carta stampata, numerosi esempi di negazione della valenza politica di atti che a differenza di quel che si vorrebbe far credere non sono né dettati da “raptus di follia”, né derivanti da “tempeste emotive e passionali”. Sono femminicidi, ovvero assassinii di donne in quanto donne, commessi allo scopo di annientarle, di reprimere fino alle estreme conseguenze la loro libertà e la loro autonomia.
Se sfidi a viso aperto il patriarcato devi essere disciplinata, attraverso una violenza il cui carattere palesemente sistemico e strutturale viene spesso e volentieri taciuto, sminuito, distorto dai media. Il femminicidio viene erroneamente presentato in termini di eccezionalità, deviante rispetto alla presunta “normalità” dell’esistente. L’atto compiuto viene spogliato di significato politico, segregato nella sfera privata e più o meno velatamente giustificato.
La guerra contro le donne, nascosta, minimizzata, relegata alle pagine di cronaca nera, continua ad essere condotta senza esclusione di colpi, spetta perciò a tutt* noi spezzare attraverso la lotta quotidiana l’immaginario patriarcale dominante, fatto proprio anche dai media, che forniscono quotidianamente alibi a coloro che perpetrano violenza sessuale e fisica contro chi non intende piegarsi ai ruoli imposti, e che colpevolizzano chi subisce la violenza, scandagliandone le vite, i comportamenti, le scelte di libertà.
Durante la giornata di controinformazione e lotta su questi temi, sotto l’occhio vigile di carabinieri e poliziotti in borghese in grandi quantità, è stato distribuito ai passanti il seguente volantino:
“Uccise due volte. La narrazione che nega e cancella le vite delle donne
Ti amo da (farti) morire
I numeri della violenza patriarcale contro le donne disegnano un vero bollettino di guerra. La guerra contro la libertà femminile, la guerra contro le donne libere. Una guerra che i media nascondono e minimizzano, contribuendo a moltiplicarla, offrendo attenuanti a chi uccide, picchia e stupra.
Donne come Elisa, strangolata da un “gigante buono”, sono ammazzate due volte. Uccise dall’uomo che ha tolto loro la vita, uccise da chi nega loro la dignità, raccontando la violenza con la lente dell’amore, dell’eccesso, della passione e della follia.
L’amore romantico, la passione coprono e mutano di segno alla violenza. Le donne sono uccise, ferite, stuprate per eccesso d’amore, per frenesia passionale. Un alibi preconfezionato, che ritroviamo negli articoli sui giornali, nelle interviste a parenti e vicini, nelle arringhe di avvocati e pubblici ministeri. Questa narrazione falsa mira a nascondere la guerra contro le donne, in quando donne, che viene combattuta ma non riconosciuta come tale.
I media sono responsabili del perpetuarsi di un immaginario, che giustifica ed alimenta la violenza contro le donne e tutt coloro che non si adeguano alla norma eterosessuale.
I media colpevolizzano chi subisce violenza, scandagliandone le vite, i comportamenti, le scelte di libertà, per giustificare la violenza maschile, per annullare la libertà delle donne, colpevoli di non essere prudenti, di non accettare come “normale” il rischio della violenza che le colpisce in quanto donne.
Lo stereotipo di “quelle che se la cercano”, che si tratti di sex worker o di donne che non vestono abiti simili a gabbie di stoffa, è una costante del racconto dei media.
La violenza di genere è confinata nelle pagine della cronaca nera, per negarne la valenza politica, trasformando pestaggi, stupri, omicidi, molestie in episodi di delinquenza comune, in questioni private.
I media, di fronte al dispiegarsi violento della reazione patriarcale tentano di privatizzare, familizzare, domesticare lo scontro. Le donne sono vittime indifese, gli uomini sono violenti perché folli. La follia sottrae alla responsabilità, nasconde l’intenzione disciplinante e punitiva, diventa l’eccezione che spezza la normalità, ma non ne mette in discussione la narrazione condivisa.
La violenza maschile sulle donne è un fatto quotidiano, che però i media ci raccontano come rottura momentanea della normalità. Raptus di follia, eccessi di sentimento nascondono sotto l’ombrello della patologia una violenza che esprime a pieno la tensione a riaffermare l’ordine patriarcale.
Se la violenza domestica cade sotto il segno della malattia, la violenza operata da sconosciuti si inscrive nella metafora della giungla, del branco, della bestialità. I violenti, specie se stranieri, lontani, diversi è il perno di una narrazione mediatica, dove il nemico delle donne è posto costitutivamente fuori dal consesso sociale. Qui la violenza maschile esce dallo stereotipo del folle, per assumere quello della bestia. La società è sana: chi uccide le donne o è un pazzo o è una bestia. Non umano, fuori dall’umano.
L’ordine è salvo. Il lutto è privato.
La violenza sulle donne diventa strumento per rinforzare il razzismo verso i migranti: lo straniero è descritto come “bestia”, per poter invocare la chiusura delle frontiere ed espulsioni di massa.
Noi non ci stiamo. Non accettiamo che la libertà e la sicurezza delle donne possano divenire alibi per moltiplicare la pressione disciplinare, i dispositivi securitari e repressivi, il crescere del controllo poliziesco sul territorio.
La violenza patriarcale attraversa i generi, le frontiere, le classi, le culture.
La libertà che le donne si sono conquistate ha incrinato e, a volte, spezzato le relazioni gerarchiche tra i sessi, rompendo l’ordine simbolico e materiale, che le voleva sottomesse ed ubbidienti. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi dimostra che la strada della libertà e dell’autonomia femminile è ancora molto lunga. E in salita.
La narrazione della violenza proposta da tanti media rende questa salita più ripida.
A ciascun* di noi il compito di scrivere una storia diversa, che non è storia di vittime, ma storia di una lotta per la libertà che fa paura perché sta spezzando l’ordine simbolico e materiale del patriarcato.”
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Terza tappa della settimana di informazione e lotta transfemminista promossa da Wild C.A.T.
Sabato 7 marzo abbiamo dato vita ad un partecipato presidio nell’area pedonale di via Montebello, sotto la Mole.
Il solito stuolo di Digos si è assiepato sulle panchine.
Tirassegno antissessista, mostra e la performance “Ruoli in gioco – Rappresentazione de-genere”, hanno caratterizzato un inteso pomeriggio nel centro cittadino.

Di seguito il volantino distribuito:
“Senza dio, senza patria, senza famiglia. Liber*

Contro le donne è in atto una guerra, che mira alla distruzione degli itinerari di libertà ed autonomia che hanno contrassegnato gli ultimi decenni. Questa guerra durissima, nella quale ogni giorno, in ogni dove, ci sono morte, ferite, prigioniere, ha dato slancio ad un femminismo che sa bene che la posta in gioco è alta, che niente è per sempre, che la lotta al patriarcato è necessaria per ogni reale trasformazione verso la libertà e l’uguaglianza.
Formazioni populiste e sovraniste su scala planetaria fanno di patria, dio e famiglia la loro bandiera e si fanno forti nella negazione violenta dell’altro, che deve essere cancellato perché non umano.
Stranieri, migranti, profughi sono i nemici che vengono da fuori, i poveri che diventano capri espiatori di ogni male. Le donne sono il nemico interno, il loro asservimento è necessario alla riaffermazione della famiglia, nucleo politico ed etico del patriarcato.
I governi di sinistra, pur assumendo un orizzonte narrativo differente, perseguono politiche sociali centrate sul sostegno alle famiglie, che resta il fulcro dell’ordine sociale.
Sappiamo bene che invece la famiglia, luogo “privato”, separato dalla sfera pubblica, è l’incubatrice di infinite violenze di genere.
In Italia ogni tre giorni viene uccisa una donna. Gli omicidi diminuiscono, i femminicidi aumentano. Gli assassini in tre casi su quattro sono mariti, padri, fratelli, ex partner.
Sono ammazzate le donne che non si piegano, le donne che sono e vogliono restare libere.
Ma i giornali dicono che i proiettili, le coltellate che spezzano la vita, il fuoco che brucia le carni sono atti di amore, di follia, di gelosia. Chiamano raptus e follia un atto politico, per negare l’autonomia femminile. Chi uccide dice di farlo per amore, per eccesso di sentimento. L’amore è il travestimento del patriarcato, del dominio, della gabbia familiare.
In famiglia avvengono quasi l’80% delle violenze rese pubbliche: è una relazione sociale che genera costitutivamente violenza, perché modellata sulla cultura patriarcale, gerarchica, fondata sul dominio dei corpi delle donne e dei bambini, su identità rigide e sulla divisione del lavoro su base sessuale.
La famiglia di preti e fascisti mira a costringere le donne ad adeguarsi ad un ruolo di cura, sostitutivo dei servizi negati e cancellati negli anni.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in buona parte cancellato le servitù maritali cui erano costrette dalle leggi, ma non sono riuscite a spezzare la gabbia familiare.
A sinistra come a destra il dibattito non è sulla famiglia ma solo su “quale” famiglia. Chi la vorrebbe estesa alle coppie omosessuali, chi la vuole plasmata sulla “sacra” famiglia.
La precarietà del lavoro investe in maniera fortissima le donne, il cui reddito non è concepito come forma di autonomo sostentamento, ma come reddito accessorio, di mero supporto all’economia familiare.
La donna lavoratrice si porta dietro la zavorra di moglie-mamma-nuora-figlia-badante anche quando è al lavoro. Il suo ruolo familiare non decade mai.
Il divario retributivo tra uomini e donne che svolgono la stessa mansione è ancora forte in molti settori lavorativi. In Italia è in media del 10,4%.
Alle donne viene chiesto di mettere al lavoro i loro corpi al di là del compito per cui vengono assunte: bella presenza, trucco, tacchi, sorrisi e gonne sono imposti per far rendere di più un esercizio commerciale, per presentare meglio un’azienda, per attrarre clienti.
Padroni, preti e fascisti non hanno fatto i conti con le tante donne che non ci stanno a recitare il canovaccio scritto per loro. Tante donne che, in questi ultimi decenni, hanno imparato a cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato e dalla religione.
La libertà di ciascun* di noi si realizza nella relazione con altre persone libere, fuori da ogni ruolo imposto o costrizione fisica o morale. In casa, per strada, al lavoro.
Vogliamo attraversare le nostre vite con la forza di chi si scioglie da vincoli e lacci.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.”

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Domenica 8 marzo. In occasione dello sciopero globale transfemminista abbiamo attraversato con i nostri contenuti alcuni centri commerciali di Torino, tra i principali luoghi di lavoro sessualizzato e sfruttato, oggi aperti a tutti malgrado l’epidemia, come tanti altri luoghi di produzione e consumo.
Di seguito il testo del volantino distribuito in questa occasione:

Diserzione transfemminista
Lo sciopero femminista dell’8 e 9 marzo è stato cancellato dai provvedimenti contro l’epidemia di Covid 19.
Eppure oggi, proprio l’epidemia rende più evidenti le ragioni dello sciopero.
Lo sciopero femminista contro la violenza maschile sulle donne e le violenze di genere, si articola come diserzione dal lavoro retribuito fuori casa, ma anche dal lavoro dentro casa, dai lavori di cura, dai lavori domestici e dai ruoli di genere imposti.
La rinnovata sessualizzazione del lavoro di cura non pagato riduce la conflittualità sociale conseguente all’erosione del welfare.
La riaffermazione di logiche patriarcali offre un puntello al capitale nella guerra a chi lavora.
Lo sciopero femminista scardina questo puntello, rimettendo al centro le lotte delle donne per la propria autonomia.
Un’autonomia che viene attaccata dalla gestione governativa dell’epidemia di Covid 19.
Siamo di fronte ad un terribile paradosso. Il governo vieta uno sciopero in nome dell’emergenza, ma non blocca nemmeno per un giorno la produzione. Non importa che si tratti spesso di produzioni inutili, a volte dannose, certo rimandabili a tempi migliori: le fabbriche di auto, vernici, plastica, laterizi, accessori, mobili non si sono mai fermate. Eppure lì si ammassa ogni giorno tanta gente, come a scuola o in un teatro.
In compenso sul lavoro femminile e femminilizzato si è riversata tanta parte del peso imposto dal diffondersi del virus e delle misure imposte dal governo.
Oggi tocca a tutti fare i conti con un sistema sanitario che è stato demolito, tagliando la spesa sanitaria mentre risorse sempre più ingenti venivano impiegate per armi e missioni militari.
La cura dei bambini che restano a casa perché le scuole sono chiuse, gli anziani a rischio, i disabili ricadono sulle spalle delle donne, già investite in modo pesante dalla precarietà del lavoro.
Una precarietà avvertita come “normale”, perché il reddito da lavoro non è concepito come forma di autonomo sostentamento, ma come reddito accessorio, di mero supporto all’economia familiare.
La donna lavoratrice si porta dietro la zavorra di moglie-mamma-nuora-figlia-badante anche quando è al lavoro. Il suo ruolo familiare non decade mai.
Il riproporsi, a destra come a sinistra di politiche che hanno il fulcro nella famiglia, nucleo etico dell’intera società, passa dalla riproposizione simbolica e materiale della divisione sessuale dei ruoli.
In questi anni il disciplinamento delle donne, specie quelle povere, è parte del processo di asservimento e messa in scacco delle classi subalterne. Anzi! Ne è uno dei cardini, perché il lavoro di cura non retribuito è fondamentale per garantire una secca riduzione dei costi della riproduzione sociale.
Il divario retributivo tra uomini e donne che svolgono la stessa mansione è ancora forte in molti settori lavorativi. In Italia è in media del 10,4%.
A livello globale le donne subiscono in media un divario retributivo del 23% ed hanno un tasso di partecipazione al mercato del lavoro del 26% più basso rispetto agli uomini.
Non solo. Alle donne viene imposto di essere accoglienti, protettive, multitasking, disponibili, di mettere a disposizione del padrone le qualità che ci si aspetta da loro come dalle altre soggettività che sfuggono alla norma eteropatriarcale.
Alle donne viene chiesto di mettere al lavoro i loro corpi al di là del compito per cui vengono assunte: bella presenza, trucco, tacchi, sorrisi e gonne sono imposti per far rendere di più un esercizio commerciale, per presentare meglio un’azienda, per attrarre clienti. L’agio del cliente passa dalla perpetuazione di un’immagine femminile che si adegui a modelli di seduttività, maternità, efficienza, servilità che riproducono stereotipi, che riprendono forza dentro i corpi messi al lavoro solo a condizione che vi si adattino. Una biopolitica patriarcale per il terzo millennio.
Disertare da questa gabbia non è facile, ma necessario. Tante donne non ci stanno a recitare il canovaccio scritto per loro.
Vogliamo attraversare le nostre vite con la forza di chi si scioglie da vincoli e lacci.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

Wild C.A.T. Collettivo Anarco-Femminista Torinese
Riunioni ogni giovedì alle 18 presso la FAT in corso Palermo 46
FB https://www.facebook.com/Wild.C.A.T.anarcofem

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