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Pensare i giubbotti gialli

Pensare i giubbotti gialli

Quando leggiamo od ascoltiamo le reazioni provenienti dalle nostre conoscenze all’estero, abbiamo avuto più di una volta l’impressione che, a seconda delle informazioni e delle analisi diffuse dai media, non abbiano compreso specifiche dinamiche del movimento francese dei gilet gialli e sono spesso rimaste chiuse nell’immagine di un movimento semplicemente reattivo e violento nelle sue manifestazioni. Questo piccolo testo del settembre 2019 vuole cercare di trasmettere di esso un’immagine più vicina alla realtà.

Precisiamo subito che, sebbene siano rimasti un minoranza, i giubbotti gialli sono stati costantemente supportati da un’ampia parte dell’opinione pubblica, anche quando la violenza delle forze repressive ha dissuaso sempre più persone dal prendere parte alle loro dimostrazioni.
In Francia, i media dominanti si sono concentrati sul movimento dei giubbotti gialli sin dall’inizio, evidenziando la natura sorprendente del suo scoppio e delle caratteristiche di massa delle sue manifestazioni – decise senza l’aiuto di alcuna organizzazione stabilita e senza chiedere permesso a nessuno. Ma, dai primi violenti interventi della polizia, furono principalmente concentrati sul lato spettacolare degli scontri per cercare di screditarlo. Fin dall’inizio, tuttavia, alcune caratteristiche del movimento sono state interessanti.

La maggior parte di coloro che hanno preso parte alle manifestazioni del sabato provenivano da piccole città della profonda Francia e, non avendo mai dimostrato prima, non conoscevano le «regole» dell’azione militante che consisteva nel segnalare la loro intenzione di manifestare alla prefettura e nel negoziare il percorso. Per loro, scendere in strada per essere ascoltati, era esercitare un loro diritto fondamentale. Alcuni arrivarono addirittura a gridare «La polizia venga con noi!» convinti della loro piena legittimità. Essere attaccati dagli sbirri, bersagliati, gasati, fatti oggetto del lancio di granate e flashball li ha presi di sorpresa, prima che alcuni iniziassero a reagire e confrontarsi con la polizia.
L’uso dei social network per prendere appuntamenti ha dato imprevedibilità alle manifestazioni del movimento, certamente, ma i media che volevano vedere in questo uso le ragioni di ciò che non potevano cogliere hanno dimenticato che, prima delle loro azioni di blocco o manifestazioni, i giubbotti gialli si erano incontrati fisicamente alle rotonde, si erano scambiati idee, emergendo così dal loro isolamento e stupidità di fronte alla TV e creando nuove amicizie e solidarietà. È proprio questa dimensione – la liberazione della parola, il desiderio di discutere, di scoprire altre esperienze e altri punti di vista – che ha maggiormente colpito nelle manifestazioni dei primi mesi. Un elemento che ha ricordato fortemente il clima del maggio ’68 agli amici che l’avevano vissuto.

La dinamica
La goccia che ha fatto traboccare il vaso nella vita di coloro che si sarebbero autoproclamati gilet gialli è stato l’annuncio, nel novembre 2018, dell’aumento delle tasse sul carburante. La loro rabbia è facilmente comprensibile: la scarsità di servizi pubblici e piccole imprese nelle aree rurali e la crescente distanza dai centri cittadini incoraggiata dalla speculazione del territorio hanno reso l’uso dell’auto indispensabile per gli abitanti della «Francia periferica» per fare acquisti, accompagnare i bambini a scuola o al lavoro. Di conseguenza, i media hanno sottolineato la natura anti-tasse del movimento, presentandolo come una jacquerie poujadista, in qualche modo un’estensione nazionale del movimento bretone dei berretti rossi.[1]

Pertanto potremmo essere colpiti solo dalla rapida evoluzione delle posizioni e delle rivendicazioni. Dopo la petizione contro l’aumento del prezzo dei carburanti dell’inizio, intervenendo in un clima in cui il sostegno della destra e dell’estrema destra ha incoraggiato le espressioni nazionaliste e anti-immigrati, anche razziste, i giubbotti gialli, a partire dall’osservazione delle loro difficoltà comuni crescenti, sono rapidamente passati ad una denuncia sempre più marcata delle disuguaglianze («Noi siamo sempre più poveri, loro stanno diventando più ricchi»). All’improvviso, il sostegno delle destre è rapidamente sparito: nella seconda settimana di dicembre, Wauquiez (leader della destra classica) ha chiesto il ripristino dello stato di emergenza e Le Pen ha preso le distanze dal movimento. Allo stesso modo, le richieste hanno assunto un contenuto sempre più sociale, anche se la dimensione fiscale è rimasta centrale (restituzione dell’imposta sul patrimonio, eliminata da Macron, tassazione del trasporto aereo, ma anche aumento del SMIC) e se né i potenti politici né il capitalismo sono stati attaccati come tali – un’assenza di riferimento alla lotta di classe che ha portato Samuel Hayat a parlare della difesa di una «economia morale»[2] che, ai suoi occhi, avrebbe avvicinato i giubbotti gialli ai movimenti sociali anteriori al movimento operaio.
Allo stesso tempo, si è sentita una critica diretta alla cosiddetta «democrazia rappresentativa» («Voi non ci rappresentiate non siete del nostro mondo»), rapidamente legata a richieste di «democrazia diretta»: l’introduzione del referendum di iniziativa dei cittadini (RIC) e la convocazione di un’assemblea costituente sono diventati e rimangono richieste dominanti all’interno del movimento. Ciò presuppone una fede un po’ ingenua nell’ordine costituzionale, ma allo stesso tempo inscrive la lotta dei gilet gialli nella continuità dei movimenti per una «democrazia reale» dell’ultimo decennio (movimenti di piazza in Spagna e Grecia, Notte in Piedi in Francia nel 2016). Senza dubbio deve essere visto come l’espressione di una profonda richiesta del nostro tempo.
Infine, è notevole che, inizialmente criticato dagli ecologisti per la sua opposizione a una tassa «ecologica», il movimento ha rapidamente preso in considerazione la questione ambientale nelle sue esigenze, dando vita allo slogan che farà fortuna: «Fine del mondo, fine del mese, stessi responsabili, stessa lotta».

Lo scontro
Il campo di scontro non può essere la fabbrica, a causa delle delocalizzazioni, lo smantellamento di quelle che venivano chiamate le «fortezze operaie», le continue chiusure di fabbriche, la repressione interna e la facilità del licenziamento concesso ai padroni, ma anche la collaborazione sindacale. I datori di lavoro non sono percepiti come nemici diretti e il Medef non sarà preso di mira direttamente. I giubbotti gialli attaccano lo Stato perché distribuisce prestazioni sociali inadeguate, peggiora il trattamento dei disoccupati, chiude gli ospedali e riduce i servizi pubblici, aumenta le tasse sui prodotti di prima necessità come i carburanti, facendo attenzione a non tassare il trasporto aereo e marittimo.
Il terreno dello scontro sono quindi le rotonde e la strada. Si inizia radunandosi alle rotonde, poi si passa ai blocchi, che minano il fatturato della grande distribuzione (che il giorno del Black Friday fa un grande flop) e con i blocchi dei pedaggi autostradali, che contribuiscono alla popolarità del movimento tra gli automobilisti.
Poi si inizia a dimostrare nelle città vicine e presto – in risposta alla provocazione macroniana («Se vogliono un responsabile, è davanti a voi, venite a prenderlo!») – si va a trovare il responsabile a casa sua a Parigi, e si investono gli splendidi quartieri in cui si accumulano i luoghi del potere, dove si è sicuri di essere visti dai media, ma che non sono abituati a vedere gente arrabbiata per strada! Inoltre in strada ci si può organizzare senza dover ottenere il consenso ed il sostegno dei sindacati. E per strada tutti possono mostrare ciò che gli sta più a cuore, su un cartello e soprattutto sul suo giubbotto, portando il suo contributo in un insieme giallo felice e combattivo, composito quanto tollerante.
Puntare all’Eliseo, in un clima di carnevale – come per l’episodio del carrello elevatore usato per rompere la porta di un ministero – dare fuoco ai cassonetti per cercare di proteggersi dagli attacchi della polizia, tutto non ha molto a che fare con la violenza organizzata dei «radicali», come li chiamano le autorità. I «radicali», sì, entreranno in gioco non appena verranno alla luce opportunità di confronto con la polizia, ma la loro violenza viene utilizzata per giustificare la violenza repressiva dello stato attraverso i media.

L’Intervento militante
La demonizzazione mediatica dei giubbotti gialli inizialmente ebbe effetti negativi, anche su attivisti di estrema sinistra e libertari. Ma l’evoluzione delle richieste, il relativo successo ottenuto alla fine del primo mese di mobilitazione e la natura comunicativa delle manifestazioni del sabato hanno rapidamente superato la riluttanza di molti di loro, inclusa la maggioranza dei sindacalisti. Di conseguenza, la loro diretta partecipazione al movimento ha contribuito ad influenzarne il carattere. Nelle manifestazioni, bandiere rosse si mescolavano a bandiere tricolori, giubbotti rossi o arancioni con giubbotti gialli, slogan anticapitalisti con le «dimissioni di Macron» e gruppi di giubbotti gialli si erano gradualmente formati nei quartieri e nei comuni suburbani delle grandi città, in un’atmosfera gioiosa ed infinitamente meno settaria di quella dei «classici» incontri militanti. Le azioni hanno iniziato a colpire le aziende più grandi in modo più diretto ed a mostrare solidarietà per le altre e continue lotte in corso. La nozione di «democrazia diretta» stessa ha assunto un contenuto diverso, incentrato sulla pratica delle assemblee locali, in particolare seguendo l’«Appello di Commercy», che poi ha dato alla luce tre «Assemblee delle Assemblee» (AdA), dove purtroppo i metodi dei partitini di estrema sinistra hanno contribuito molto a soffocare la potenziale ricchezza delle relazioni in un interminabile gioco di mozioni ed emendamenti che imitavano il gioco parlamentare. Questi AdA hanno comunque portato avanti il tema del municipalismo, con riferimento a Bookchin ed al Rojava, al punto che i tentativi di municipalismo (liste civiche costituenti in vista di forme consolidate di assemblee municipali) appaiono oggi come l’unico «sbocco politico» considerato dal movimento.[3]

Nelle dimostrazioni del sabato, il progressivo coinvolgimento di gruppi di sinistra, antifascisti ed autonomi da gennaio, che praticavano il loro sport preferito, non sempre in modo intelligente, a volte assumeva la forma di scontri con la polizia o di attacchi contro i simboli del «capitalismo»: bancomat, McDonald’s, concessionari di auto di lusso, cartelloni pubblicitari… fino al giorno del 16 marzo, dove gli elitari luoghi del lusso degli Champs-Elysees vennero degradati ed il Fouquet bruciato tra l’applauso di migliaia di giubbotti gialli. Ciò ha ampiamente contribuito a diffondere l’immagine di un movimento che esercita apertamente la violenza in tutto il territorio francese; è invece piuttosto sorprendente il basso livello di violenza dei manifestanti in risposta alla polizia più violenta in Europa e ad un livello di repressione senza eguali dalla guerra algerina.

La non-risposta del potere
Oltre al supremo disprezzo di classe di Macron verso l’espressione del malcontento popolare, un fattore ha svolto un ruolo significativo nella radicalizzazione e persistenza del movimento: il rifiuto di qualsiasi concessione da parte delle gerarchie statali (almeno fino alla fine del 2018, quando Macron è costretto ad anticipare le misure previste per i prossimi anni rilasciando una decina di miliardi), accompagnato da una feroce repressione, ampiamente eseguita da una giustizia obbediente.[4] Un atteggiamento demenziale che alimentava regolarmente il fuoco, al punto che molti osservatori si chiedevano se Macron fosse davvero stupido o se avesse tentato una strategia di scontro duro come Cavaignac nel 1848.
Si può anche dire che la pratica macronista di emarginare ed indebolire i corpi intermedi, in particolare i sindacati, non ha permesso loro di controllare la strada, come avevano fatto durante gli scioperi e manifestazioni contro le riforme pensionistiche condotte sotto Chirac, Sarkozy ed Hollande. La sfiducia della maggior parte dei giubbotti gialli verso i sindacati, percepiti come co-gestori delle politiche governative, non poteva che essere mantenuta a causa dalla loro inazione (CGT) o dalla loro complicità con il potere (CFDT).
Tuttavia, tra gennaio e marzo 2019, Macron ha cercato di riannodare una relazione con alcuni organi intermedi istituendo il suo «grande dibattito»: all’operazione di propaganda, diretta alla popolazione, e la divisione/depistaggio nei confronti del movimento, si è aggiunta un’operazione di seduzione e pedagogia verso i sindaci, sempre più dei quali esprimono una forma di disagio.

Alcuni elementi sconcertanti per la sinistra
Molto inchiostro è stato versato sulla questione della composizione sociale del movimento, denunciato come interclassista dai puristi dell’azione operaia. Tuttavia, va notato che in un contesto di deindustrializzazione avanzata del paese, le figure sociali presenti alle rotonde sono quelle atomizzate del proletariato periurbano[5] (casalinghe, badanti, infermiere, operai, gestori, camionisti, precari «uberizzati», disoccupato, pensionati…) così come dalla classe media alle prese con prestiti immobiliari od al consumo. L’ovvia importanza del ruolo delle donne è commisurata al loro ruolo crescente in un mondo del lavoro in cui il settore terziario è diventato dominante. Un vero movimento, quindi, non una copia delle immagini stereotipate della classe operaia.
Un altro elemento che sconcerta la sinistra è il fatto che i loro riferimenti storici (ed i suoi simboli) sono totalmente inoperanti. Quelli dei giubbotti gialli sono tratti dalla Rivoluzione francese del 1789: i sans-culottes, la marsigliese, la bandiera blu-bianca-rossa… Un immaginario di orgoglio nazionale più che nazionalista o di estrema destra, costruito
Vedremo al momento delle elezioni europee che, indipendentemente dal fatto che la maggioranza dei francesi mantenga la loro sfiducia nei confronti dei partiti e continui ad astenersi, lo spettro del fascismo agitato da Macron, che ancora una volta si presenta come ultimo bastione contro Le Pen, non funziona più. La lista macroniana arriverà al secondo posto dietro al partito di Le Pen (per il quale molti gilet gialli sembrano aver votato con l’idea di far perdere Macron), assorbendo i voti della destra classica, che hanno apprezzato in lui l’aspetto di uomo d’ordine.

Gli elementi di forza del movimento dei giubbotti gialli sono allo stesso tempo semplici e complessi. Usa la diversità delle idee come una forza e non come un fattore di divisione. Ha saputo nutrirsi di discussioni interne, non aveva paura delle differenze di opinione o delle forme di azione. Si è affermato come un movimento d’azione e non di rappresentazione. Fa cose concrete, dice e non negozia. Esiste nella strada: questo è ciò che costituisce la sua unità interna. Fino ad ora, non si è diviso in base alle preferenze elettorali. Il suo motto potrebbe essere: la lotta ci unisce, le elezioni ci dividono. Non ha capi, né rappresentanti che possono essere usati come ostaggi dai media e dal potere vigente. Certamente ci sono un certo numero di «figure carismatiche», in parte prodotte dai media ma anche molto popolari nei social network, con opinioni disparate. Intorno ad alcuni di essi si sono formati gruppi che influenzano gli appelli alle manifestazioni e le cui divisioni hanno conseguenze visibili anche in strada. Ma ogni desiderio palese di affermarsi come leader del movimento ha sempre suscitato disprezzo ed è stato apertamente combattuto.

La repressione della polizia (sempre negata dal potere) è di un’intensità mai vista nell’ultimo mezzo secolo. A breve termine produce paura e smobilitazione, ma spinge anche il movimento a superare le sue contraddizioni. Diventa persino un argomento avanzato da alcuni collettivi che intervengono nei quartieri della periferia per spingere i giovani che vivono lì ad essere coinvolti nel movimento – con risultati molto modesti, in parte eredità della scarsa solidarietà ricevuta durante i disordini del 2005. Disdegnando le aperture ed i negoziati col governo, lo scontro diventa l’unica possibile relazione con lo Stato, che non cede ormai su nulla. Nel lungo periodo, d’altra parte, la repressione alimenta la perdita di fiducia nello Stato, che lascia vedere le sue reali funzioni. Questo potrebbe spianare la strada ad altre rivolte imprevedibili.

Gato Soriano et Nicole Thé

Testi Utili
Diverse decine di testi sono usciti sul movimento dei giubbotti gialli. Ne citiamo alcuni che ci sembrano particolarmente significativi e utili per comprendere il movimento. A differenza dei libri, sono tutti recuperabili su Internet.
Sul sito della rivista Temps critiques «Sur le mouvement des gilets jaunes» e tutti gli articoli successi in merito.
Sul sito della rivista A contretemps F.G. «Eclats de fugue en jaune majeur» et Camille Freyh, «À visages humains», tra gli altri.
Jacques Chastaing, «D’où vient et où va l’extraordinaire mouvement des Gilets Jaunes».
Yves Cohen, «Les “gilets jaunes” parmi les mouvements sans leader des années 2010».
Pierre Dardot et Christian Laval, «Avec les gilets jaunes: contre la représentation, pour la démocratie».
Freddy Gomez, «Jeux et enjeux d’une sécession diffuse».
Samuel Hayat, «Les Gilets Jaunes, l’économie morale et le pouvoir»; «Les Gilets jaunes et la question démocratique».
Entretien avec le sociologue Michalis Lianos, «Une politique expérientielle, Les gilets jaunes en tant que “peuple”».
Fréderic Lordon, «Fin du monde?»
Gérard Noiriel, «Les gilets jaunes et les “leçons de l’histoire”»
Jacques Philipponneau, «Quelques éclaircissements sur le mouvement des Gilets jaunes à l’adresse d’amis étrangers».
Max Vincent, «Remarques critiques sur le mouvement des Gilets jaunes».
Da consultare anche in numerosi articoli apparsi sul sito di Lundi matin, ma anche di Mediapart e Reporterre.

NOTE
[1] In risposta a tali accuse, si può citare, ad esempio, la risposta del gruppo di giubbotti gialli Belleville (Parigi) nel loro opuscolo «Agli Altri», preso sul sito di Mediapart, e la lettera aperta al giornale Il Manifesto inviata da un gruppo di giovani italiani che vivono a Parigi, da leggere su http://www.archiviolfb.eu/gilets-jaunes-la-stampa-italiana-lettera-aperta-manifesto/.
[2] Samuel Hayatt, «I Gilet Gialli, l’Economia Morale ed il Potere»: https://samuelhayat.wordpress.com/2018/12/05/the-goldets-yellow-morality-and-the-power/ .
[3] A ciò dobbiamo aggiungere anche un coinvolgimento nella battaglia per il referendum di iniziativa condivisa (PIR) sulla privatizzazione degli aeroporti di Parigi, che il governo si stava preparando a realizzare e che ha suscitato l’opposizione congiunta di tutte le forze parlamentari non governative, da sinistra a destra.
[4] Al punto che le Nazioni Unite hanno chiesto a Michelle Bachelet, ex presidente del Cile, di presiedere una commissione d’inchiesta sull’uso sproporzionato della forza contro i manifestanti e che ACAT, LDH ed Amnesty International continuano a denunciare la violenza poliziesca. Per informazioni dettagliate sulle vittime della repressione, consultare il sito Web di David Dufresne http://www.davduf.net/alloplacebeauvau?lang=en .
[5] La regione di Parigi è per il movimento un mondo a parte. Da un lato, poiché i problemi delle popolazioni che vivono lì sono molto diversi da quelli che hanno portato alla nascita del movimento (i trasporti pubblici sono molto sviluppati e si può vivere senza auto, qualcosa di impossibile nelle campagne; ci sono più offerte di lavoro, il problema degli alloggi è invece molto più drammatico che nella provincia). D’altra parte, a causa del peso delle città suburbane soggette quotidianamente a una repressione sociale e razziale più marcata. Il movimento si è sviluppato lì in seguito, sotto l’impulso e con una presenza schiacciante dell’estrema sinistra. E la città di Parigi è stata un campo di confronto con lo Stato più che di radicamento del movimento.

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