Truffe, profitti e resa dei conti nel sistema in crisi

La scoperta dei trucchi usati nel software per alterare le emissioni nocive delle auto diesel Volkswagen prodotte tra il 2009 ed il 2014 ha innescato una nuova crisi borsistica. Dopo aver toccato 262 euro nel marzo del 2015, il titolo del colosso tedesco era già sceso parecchio nei mesi scorsi, ma l’esplodere dello scandalo l’ha trascinato giù del 50% in tre sole sedute. Sono andati in fumo almeno 12 miliardi di euro, il doppio di quanto l’azienda abbia accantonato per cautelarsi dalle sanzioni in arrivo. Si parla di possibili class action per 50 miliardi di euro e di 11 milioni di veicoli “da richiamare”. Con mirabile effetto contagio, la depressione dei titoli automobilistici ha coinvolto anche tutti i concorrenti (che in teoria avrebbero dovuto avvantaggiarsi della caduta di credibilità del gigante teutonico, secondo produttore mondiale). Segno che i trucchetti VW non sono un fenomeno isolato, ma pratica diffusa di tutti i produttori, magari con meno sfacciataggine e più professionalità, oppure semplicemente con meccanismi di corruzione più oliati verso controllori ed autorità locali.

La stagionalità che contraddistingue i puntuali crolli azionari, a cavallo tra l’estate e l’autunno, non deve però trarre in inganno. II ritorno di una elevata volatilità sui mercati finanziari era attesa e temuta: se rappresenta il carburante principale per gli speculatori professionisti, che ne traggono grande motivo di soddisfazione e guadagno, essa ripropone drammaticamente ai governi, alle istituzioni e alle classi subalterne che ne subiscono le decisioni un quadro di instabilità pesante e pericoloso. A pagare i costi di queste montagne russe finiscono per essere i soliti noti: i lavoratori e i pensionati, che fronteggiano politiche di tagli e di sacrifici; i disoccupati, che senza sosta crescono di numero; i precari, che vedono ormai la stabilizzazione come un miraggio.

Il ritorno dell’instabilità finanziaria ci ricorda che la crisi, questa crisi, non è finita, che la ripresa resta un fantasma, evocato strumentalmente dai venditori di illusioni, e che la situazione economica, sociale e produttiva continua ad avvitarsi verso il basso in una spirale senza fine.

Era stata la crisi greca, a giugno, a produrre le prime crepe, interrompendo un ciclo di ripresa delle quotazioni che durava sostanzialmente dal 2009, pur con la crisi del debito sovrano dei Piigs nel 2011 (rapidamente tamponata dalla svolta aggressiva di Draghi nella gestione della BCE). L’accordo sulla Grecia, peraltro, è palesemente inapplicabile e rappresenta solo un modo per prendere tempo e dilazionare il problema di un paese insolvente e fallito in seguito alle illuminate imposizioni della troika.

Era seguita l’esplosione della bolla cinese, con lo Shangai Shenzen Index caduto del 30% tra giugno e luglio, dopo che nel solo primo semestre 2015 erano stati aperti ben 56 milioni di conti di negoziazione in mano a clienti al dettaglio.

Ora il caso Volkswagen apre una serie di incognite sulla tenuta del modello tedesco export-oriented, perché il settore auto esporta 200 miliardi di euro l’anno e rappresenta almeno il 10% della produzione industriale della Germania: il colpo inferto all’affidabilità del prodotto e alla credibilità del sistema non sarà privo di ripercussioni a livello globale. Prassi commerciali scorrette, truffa in commercio, violazione delle normative, aggiramento delle regole, sono solo alcuni dei reati che hanno portato al cambio di management e all’individuazione del capro espiatorio di turno (mentre gli utili sono andati in tasca a tutti gli azionisti, stato e lander compresi). Questi reati sono, con tutta evidenza, pratica diffusa: nel caso specifico rappresentano, probabilmente, un banale episodio di ritorsione, partito dagli Usa, per boicottare la produzione europea di motori e veicoli diesel, e favorire la produzione a stelle e strisce di motori a benzina con tolleranze superiori sul piano inquinante.

Tuttavia la possibile ed eventuale crisi del settore auto, dopo i primi, consistenti, segnali di recupero giunti di recente, non è solo attribuibile alle malefatte teutoniche. L’eccedenza di capacità produttiva presente nel settore spinge verso un consolidamento che potrebbe vedere, ad esempio, la Fiat Chrysler aggredire la General Motors (che peraltro pesa tre volte tanto), così come altri produttori potrebbero essere costretti a fondersi per reggere gli enormi investimenti richiesti per competere su scala globale nei prossimi decenni. Indebolire un “competitor” potrebbe aiutare…

E’ tutto il sistema economico, comunque, a trovarsi di fronte alla resa dei conti dopo anni di ripresa drogata. Dopo la Lehman, solo l’illimitata offerta di moneta da parte delle banche centrali ed il salvataggio delle banche private tramite fondi pubblici hanno consentito la sopravvivenza del sistema finanziario internazionale. E’ stato il Quantitative Easing di Bernanke a permettere il salvataggio dei capitali e la ripresa dei mercati. Quando ha cominciato a mostrare la corda, per l’appesantimento del bilancio della FED con troppi titoli tossici e a lungo termine, il testimone è stato raccolto prima dalla Bank of Japan con la Abenomics e poi dalla BCE di Mario Draghi, che ora intende prolungare anche oltre il settembre 2016 l’acquisto mensile di 60 miliardi di titoli per stabilizzare i prezzi e sostenere i bilanci statali. Se tutto questo ha finora contribuito a mantenere i tassi artificialmente bassi, adesso cominciano ad emergere contraddizioni insanabili. Il sostegno alla finanza non ha prodotto effetti di rilievo nell’economia reale: sono state gonfiate le bolle, sono cresciute le diseguaglianze, si sono ampliati gli squilibri, ma non sono stati impostati riaggiustamenti strutturali risolutivi. Il debito dei mercati emergenti è cresciuto a 9.600 miliardi di dollari ed ora il crollo delle materie prime (petrolio in primis), sia per carenza di domanda, che per eccesso di offerta, compromette le condizioni minime per la puntualità della restituzione.

La Fed si è resa conto di essere in un vicolo cieco: da una parte non può mantenere in eterno le condizioni anomale dell’attuale politica monetaria, dall’altra non osa alzare i tassi per paura di scatenare una reazione da panico, che rischierebbe di produrre quella situazione da orlo del baratro che già si verificò nel 2008. Con una differenza importante: le armi pesanti usate in quell’occasione non sono più disponibili, ora, tali e quali a prima, perché è impensabile in “un’economia di mercato” pensare di espandere ulteriormente i bilanci pubblici oltre i livelli di debito che sono già stati raggiunti.

La caduta della Cina, partner interdipendente degli Usa nello scambio titoli-Usa-contro-merci-cinesi, resta un enigma complesso: tutti sanno che i dati ufficiali non sono affidabili, il tasso di crescita “governativo” del 7% è in realtà vicino al 3-4% e alcuni analisti indipendenti parlano di -2%. Il passaggio dal modello export al consumo interno è denso di incognite e la svalutazione imprevista dello yuan sembra segnalare sinistri scricchiolii. Se la Cina smette di tirare e la Germania (che non l’ha mai fatto) rallenta ancora, non ci si può aspettare dagli Usa un grande contributo: il dato osannato della disoccupazione al 5.1% nasconde lavori malpagati, redditi familiari ridotti, statistiche aggiustate. L’economia mondiale naviga alla deriva, senza timoniere, seguendo il motto “si salvi chi può”.

Chi davvero comanda sono le grandi imprese multinazionali che usano il pianeta come terreno di caccia, che producono merci e sfruttamento, che inquinano l’ambiente e avvelenano gli essere viventi, anche truccando i dati sulle emissioni. Oggi sono in grado di sottrarsi al potere di condizionamento degli stati, manovrare i politici come marionette, aggirare le normative di sicurezza, modellare lo spazio geografico e politico in modo da pagare zero tasse e sganciarsi senza costi appena diventa consigliabile farlo.

Hanno vinto la partita, anche se qualche intoppo si presenta ogni tanto ad interrompere o sospendere il gioco, persino nell’invidiatissimo modello tedesco (ieri la Thyssen-Krupp con il rogo di Torino, oggi la Volkswagen con i guai sulle emissioni).

Sarà così fin quando i movimenti anti-sistemici, le classi subalterne ed il ritorno, ciclico, del movimento operaio consentiranno una ripresa di iniziativa e torneranno ad essere soggetti “per sé”, con un proprio ruolo autonomo e antagonista sul piano storico, strategico, politico.

Renato Strumia

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