I referendum, dal punto di vista del movimento libertario, sono sempre un po’ una rogna: ogni volta che in Italia, la cui Costituzione prevede quasi solo la forma referendaria abrogativa, si presenta una situazione che tocca un tema di qualche interesse, il movimento tende ad andare in ordine sparso. In effetti, da un punto di vista strettamente logico, di coerenza con i principii, a differenza delle elezioni, un referendum abrogativo non differisce sostanzialmente da una manifestazione di piazza indetta contro una determinata norma e/o azione giuridica: in entrambi i casi si devono percorrere determinate prassi istituzionali per poterli mettere in atto, non si tratta di un’azione diretta ma nemmeno si mette direttamente in atto una prassi giuridica positiva. Certo, dopo un referendum l’apparato legislativo può sempre mettere capo ad una nuova norma, magari peggiore della precedente, ma lo stesso vale anche dopo un’iniziativa di piazza che risultasse vincente. Da un punto di vista empirico, invece, partecipare ad un referendum in qualche modo può portare individui e movimenti libertari a confrontarsi a lungo con pratiche ed organizzazioni poco o per nulla antiistituzionali, praticando mediazioni continue, con il rischio di un appannamento della propria identità. La discussione, pertanto, difficilmente perviene ad una prassi unitaria.
Relativamente al recentissimo Referendum sulla questione “trivelle”, la questione si è complicata con l’atteggiamente “antiistituzionale” – l’invito all’astensione – preso in carica paradossalmente proprio dal governo (detto per inciso, mettendo platealmente in atto davanti a decine di milioni di persone un reato penale punibile da sei mesi a tre anni di reclusione, a dimostrazione ulteriore del fatto che la legge agisce solo contro gli individui senza potere), che rendeva non impossibile, ma di sicuro difficile, propagandare una posizione astensionistica ed a favore dell’azione diretta, dato il rischio di confusione con i seguaci del potere politico ed economico. Oltre all’invito all’astensione, infatti, il governo aveva intenzionalmente bruciato trecento milioni di euro delle casse pubbliche per far svolgere il referendum in un’unica giornata domenicale, separata dalle giornate delle tornate elettorali comunali che si sarebbero svolte di lì a poco, mentre il sistema dominante dell’informazione, sia le testate in mano governativa sia quelle in mano ai grandi potentati economici, ha altrettanto intenzionalmente trattato la notizia riducendola ai minimi termini, se non, quando possibile, facendola sparire del tutto durante il periodo precedente la consultazione (secondo alcuni, inoltre, persino al di sotto del minimo legale).
Oltre a ciò, nonostante il continuo riferimento propagandistico al vittorioso referendum sull’acqua pubblica, i referendum sulle trivellazioni in mare nascevano con un difetto fondamentale: erano stati indetti direttamente a livello istituzionale, da parte di un certo numero di Consigli Regionali, in buona parte anche come espressione di un conflitto interno al Partito Democratico. I referendum sull’acqua pubblica, invece, avevano avuto una lunga gestazione, con un impegno di base capillare nella società civile, per cui, pur di fronte ad un identico trattamento da parte di governo e media, il superamento del quorum era stato in qualche modo preannunciato dall’enorme numero di firme raccolte per la sua indizione.
In una situazione del genere, un 31% ca di elettori comunque andati a votare ed in stragrande maggioranza schieratisi su posizioni antigovernative possono paradossalmente essere considerati quasi un successo, dal punto di vista di chi ha indetto un referendum del genere e, comunque, indica l’esistenza di oltre tredici milioni di italiani adulti auto (questo è il punto chiave) informati e tendenzialmente contrari alle politiche liberistiche nel loro complesso. Il numero non è per niente piccolo ed anche per chi, come noi, predilige l’azione diretta, va considerato un punto di partenza da non disprezzare.
Non si tratta, questo è sicuro, di milioni di rivoluzionari, altrimenti la rivoluzione sarebbe già in atto: la maggioranza di loro sono anche diversi – e di molto – dalle persone che ritroviamo solitamente nei nostri luoghi, assemblee e cortei. Il loro numero però indica altrettanto certamente un’insofferenza verso lo stato presente delle cose, che riesce ad essere canalizzato abbastanza facilmente ogni qual volta viene messa in ballo un’istanza in qualche modo istituzionale – come può essere appunto un referendum – e, molto più difficilmente, quando si tratta di passare ad altre forme, maggiormente dirette ed in prima persona, di espressione del dissenso.
Strategicamente, la strada migliore per incontrare queste persone e cercare di portarle oltre i loro limiti, è, senza perdere la nostra specificità, quello di incontrarle sulla strada delle rivendicazioni concrete, senza pretendere che questi individui si adeguino ad un modello/stile di vita e di azione precostituito – insomma senza quell’atteggiamento che viene avvertito come “spocchia”. Come diceva un vecchio compagno, la rivoluzione sarà vicina quando sfileranno insieme il rockettaro e l’amante della lirica.
Enrico Voccia