Sono trascorsi tanti anni. Era la notte del 24 maggio del 2008. Nel CPT – ora CIE – di corso Brunelleschi tutto è nuovo, pulito, solido. Casette in muratura hanno preso il posto dei vecchi container di latta, gelidi d’inverno e bollenti d’estate inaugurati nella tarda primavera del 1999. I muri di cinta, il filo spinato, gli uomini in armi sono gli stessi ma il numero dei posti è raddoppiato.
La nuova struttura per immigrati senza documenti è stata inaugurata da pochi giorni. Fathi sta male sin dal mattino: gli danno un antibiotico ma la situazione non migliora. Intorno alla mezzanotte peggiora: i suoi compagni chiedono aiuto a lungo senza ottenere alcuna risposta. La mattina dopo gli uomini della Croce Rossa, l’organizzazione “umanitaria” che aveva in gestione il CPT, lo trovano morto nella sua branda.
Fathi era un poveraccio, tossico e senza documenti, i suoi parenti poverissimi non avevano neppure i soldi per il funerale.
Questa vicenda sarebbe rimasta sepolta tra le mura del “nuovo” CPT di corso Brunelleschi, ma i compagni di cella di Fathi, morto come un cane senza che nessuno chiamasse un’ambulanza, provarono a bucare le mura del CPT: telefonarono ad un giornalista di Repubblica che raccolse la loro testimonianza e scrisse un articolo che uscì sulla prima pagina del quotidiano. Il colonnello e medico Antonio Baldacci, interpellato da un’altra giornalista ebbe il coraggio di dichiarare “gli immigrati mentono, mentono sempre”.
Nei giorni successivi gli undici testimoni della morte di Fathi, che avevano dichiarato la loro disponibilità a raccontare in tribunale la storia del giovane tunisino, vennero deportati in fretta e furia.
L’inchiesta della Procura venne subito archiviata.
Un gruppo di antirazzisti torinesi non archiviò. Sin dalle prime ore dopo la morte ci furono iniziative di informazione e lotta.
Alcune di queste iniziative sono finite nel fascicolo dei PM Padalino e Pedrotta in un processo diviso in due tranche contro gli antirazzisti.
Si va dal cacerolazo di fronte alla villetta di Antonio Baldacci del giugno del 2008 al presidio di fronte alla casa del responsabile provinciale della Croce Rossa Calvano, sino alla visita alla sede della Croce Rossa di via Bologna per parlare con le persone, che seguivano un corso per volontari.
Volantinaggi, interventi al megafono, letture di volantini… tante banali iniziative di informazione trasformate in reati da codice penale. La denuncia dell’impianto razzista delle leggi sull’immigrazione, dalla negazione della libertà di movimento sino alla deportazione forzata sono finite in tribunale, mentre il silenzio è calato sulla morte di Fathi.
Il 22 gennaio, nella seconda tranche del processo agli antirazzisti torinesi, hanno preso la parola gli imputati. Alcuni hanno fatto dichiarazioni spontanee, altri due, Emilio e Maria, hanno accettato il confronto con il PM Padalino.
Il processo per qualche ora ha mutato di segno. La morte di un uomo lasciato morire senza soccorsi in una struttura di detenzione amministrativa, gestita da un’organizzazione “umanitaria”, lautamente pagata per il proprio lavoro di secondini, ha riempito la maxi aula tre del tribunale.
Anche le voci dei bambini rom che urlavano mentre la polizia mascherata e armata faceva irruzione nella casa abbandonata dove vivevano hanno trovato eco nei racconti degli antirazzisti alla sbarra.
Quei bambini, nati nelle baracche di via Germagnano tra il fango e i topi, per la prima volta in vita loro avevano potuto vivere in una casa. La casa di via Pisa, una struttura di proprietà dell’Enel, venne occupata da alcune famiglie rom rumene nell’estate del 2008. Il comune di Torino non poteva tollerare che i rom vivessero in una casa, non poteva tollerare che qualcuno gettasse il cuore oltre la rassegnazione di una vita vissuta ai margini, per affermare nella pratica la propria dignità, il proprio desiderio di un futuro per se e per i propri figli. Il loro esempio poteva diventare contagioso.
Furono deportati da un pullman della GTT che li ricacciò in via Germagnano. Lì sono cresciuti, mentre la casa di via Pisa, sino a pochi mesi fa era ancora vuota. Vuota come una “civiltà”, che si fa forte di “libertà/uguaglianza/fraternità”, valori che la democrazia reale riduce a parole gettate al vento.
Gli antirazzisti qualche giorno dopo fecero una contestazione con megafono, volantini e striscioni ad un dibattito dove l’assessore con delega all’immigrazione, la democratica Ilda Curti, parlava di “paure metropolitane”, ma era sorda di fronte alle vite di chi non può permettersi nemmeno la paura.
L’assessore non volle ascoltare e sporse denuncia.
Oggi Curti è ancora assessore. I rom che negli anni si sono ammassati in baracche sul lungo Stura Lazio vengono in parte cacciati, in parte ospitati in strutture simili a convitti per minorenni, con sorveglianza e regole da collegio militare. Chi gestisce queste strutture, cooperative legate a potenti cordate, guadagna bene. Per i rom una diversa storia di segregazione per un anno o due, poi, ancora, la strada e le baracche.
“La legge è uguale per tutti” è scritto nelle aule di tribunale. Una menzogna, perché l’eguaglianza di chi non è uguale è un farsa. Una farsa che per Fathi Neijl divenne tragedia. Una farsa che i bambini rom vivono ogni giorno da quando nascono.
Il 12 marzo ci sarà la requisitoria del PM, il 27 la parola passa ai difensori per le arringhe, il 13 aprile ci sarà la sentenza. Il 22 dello stesso mese si chiuderà anche l’altro processo agli antirazzisti nel quale il PM ha chiesto pene tra l’anno e mezzo e i cinque anni e mezzo.
m. m.