Dall’inizio di marzo la scuola italiana ha cambiato volto. Un intero comparto – che coinvolge tutta la popolazione dai 3 ai 19 anni più una notevole quantità di insegnanti, personale amministrativo – tecnico ed ausiliario si è trovato coinvolto in una massiccia operazione di ristrutturazione. L’emergenza Covid ha determinato, insieme al blocco delle lezioni, la revisione totale delle forme di lavoro: si è infatti attivata una fase di lavoro agile del tutto inedita, priva di qualsiasi forma di protezione contrattuale e/o infortunistica, scaricando tutti i costi concreti dell’operazione su lavoratrici e lavoratori.
È in questo contesto che è partita la Didattica a distanza. Fino dai primi giorni, quando per decreto le lezioni sembrava che dovessero riprendere il 16 marzo e nessun obbligo veniva imposto ai docenti, è iniziato il bombardamento delle piattaforme private che in modo martellante ed invasivo proponevano modalità di gestione della DAD. Il Ministero ha attivato convenzioni con Tim (WeSchool), Microsoft (Office 365 Education A1) e Google (Google Suite for education) esternalizzando di fatto la didattica con un’operazione estensiva anche se non nuova.
Già da diversi anni la gestione burocratica di alcune fasi del lavoro dei docenti (tenuta del registro, operazioni di scrutinio e gestione delle valutazioni) è stata data in gestione a piattaforme (come il portale Argo) ma con i servizi connessi alla didattica a distanza si è oltrepassato il piano tecnico. Infatti il gigante che si è affermato nella maggioranza dei casi, Google Suite, ha ad esempio fornito non solo sistemi di gestione della didattica (invio/ricezione/archiviazione di materiali, creazione di gruppi-classi virtuali, di meets per videolezioni, di agende per la gestione degli appuntamenti on line); sono anche cominciati a fioccare contenuti precotti, lezioni tipo, materiali didattici selezionati, definizioni di obiettivi da raggiungere, griglie di valutazione. Oltre alla grande opportunità data ai giganti dell’informatica di immagazzinare e mettere a valore dati, si è avuta un’intrusione potente, laddove si è realizzata, nel condizionamento culturale e nell’orientamento degli apprendimenti.
Fin qui le grandi opportunità per i giganti dell’informatica. È stata però ghiotta anche l’opportunità per la Pubblica amministrazione, di cui il Ministero dell’Istruzione fa parte e per il Governo, che ha infatti investito una prima tranche di 85 milioni di euro tutti sull’informatica, cui è seguito l’impegno per una seconda tranche sempre assai consistente. La DAD infatti, nata in emergenza, può avere applicazioni utili “in tempo di pace”, consentendo forme nuove di razionalizzazione, preziose per chi è sempre alla ricerca di tagli su un settore come quello scolastico.
La didattica a distanza, con la smaterializzazione fisica della lezione e del gruppo classe, consentirebbe infatti vari scenari, dai più realistici ai più fantasiosi (ma nemmeno poi tanto): un massiccio taglio di posti di lavoro, strutture scolastiche e spese di funzionamento oltre che dei cosiddetti rami secchi, come scuole di comuni montani o zone periferiche; potrebbe essere utilizzata per corsi di recupero, supporto a studenti nei periodi estivi, nelle vacanze natalizie o pasquali, in tutti quegli spazi in cui i docenti non sono legalmente in ferie, intervenendo sull’orario di lavoro, portando a rivedere le retribuzioni eccedenti di tutte quelle prestazioni in presenza che attualmente sono retribuite, ecc. Soprattutto però potrebbe consentire lo sforamento ad libitum del numero massimo di alunni per classe. Insomma, uno scenario dell’orrore per chi lavora nella scuola ma anche per studenti e famiglie.
Nel frattempo, in questo periodo, come si è concretamente attuata la Didattica a distanza? Le prime circolari ministeriali emanate ad inizio marzo intervenivano con mano sostanzialmente leggera: non si parlava di obbligo formale per i docenti, né tanto meno per gli studenti. Ad essere chiamati in causa erano i Dirigenti scolastici, tenuti ad assicurare il diritto allo studio attivando forme di didattica a distanza.
La diffusione delle modalità di gestione informatica ha impresso una accelerazione potente a tutto quanto, proponendo in modo virtuale il modello di quella lezione che era invece sospesa per decreto. Lo strumento della videolezione si è rivelato a questo proposito particolarmente insidioso. Trattandosi di una modalità “sincrona”, per evitare sovrapposizioni ha prodotto la definizione di un orario delle lezioni virtuali, l’accertamento delle presenze degli studenti, la modalità di verifica sotto telecamera, ecc. Le direttive ministeriali, non certo per buon cuore ma per consapevolezza dei paletti contrattuali, facevano riferimento a lezioni sospese, a diritto allo studio, a valutazione formativa, a sensibilità deontologica nello scegliere le forme più adeguate, ecc; le piattaforme invece definivano tecnicamente modalità rigide di riproduzione delle lezioni sospese; i Dirigenti scolastici imponevano comportamenti rigidi più coerenti con il funzionamento delle piattaforme che con le indicazioni ministeriali; le disposizioni ministeriali approfittavano del contesto imponendo progressivamente comportamenti più definiti all’interno di questa modalità e derogando in continuazione dall’ambito contrattuale e pattizio, man mano che la decretazione d’urgenza diventava, in tutto il paese, la prassi.
Un contesto caotico in cui, oltre a tutto il resto, emergeva anche con chiarezza il ruolo della tecnologia nella ridefinizione del lavoro in senso ancora più gerarchico. È stato necessario un grande lavoro sindacale per contrastare queste manovre, per bloccare Dirigenti che chiedevano di svolgere un orario, di accertare la presenza degli studenti, di chiedere conto delle assenze, di fare compiti ed interrogazioni come se niente fosse, di mettere voti, di violare la privacy di studenti e famiglie pretendendo telecamere accese. È stato un lavoro duro, che ha utilizzato i canali della comunicazione e della propaganda per mantenere l’attenzione sveglia sui processi autoritari, che ha agito con impugnative e diffide ai Dirigenti e ai loro solerti staff; un lavoro duro fatto scuola per scuola, non certo ai tavoli centrali a cui i sindacati non concertativi non partecipano, in una situazione di confronto a distanza, priva di interazioni fisiche, di incontri collegiali reali, di assemblee sindacali, di discussioni sul luogo di lavoro, di praticabilità di azioni concrete di protesta all’esterno.
Eppure si è fatto e sulla DAD e tutto ciò che la accompagna c’è stata un’operazione puntuale di controinformazione e di contrasto: anche perché nel frattempo la DAD ha mostrato tutta la sua inadeguatezza, e non solo dal punto di vista sindacale. Indicata come la strada per garantire il diritto allo studio, la didattica a distanza ha dimostrato di non garantire proprio nulla, tanto meno il diritto allo studio.
Prima di tutto il digital divide: è emerso fin da subito che il 33% delle famiglie italiane con figli in età scolare non possiede un device adeguato per lo svolgimento della DAD; in pratica uno studente su 3 è escluso. Si è cercato di compensare con la fornitura in comodato gratuito di alcuni portatili ma il numero delle disponibilità era comunque inferiore alle necessità e, in ogni caso, la procedura per la richiesta andava fatta… on line. Comunque questo non è certo stato l’unico problema. Il contesto domestico presenta non solo situazioni estremamente diversificate per il possesso dei mezzi tecnologici ma anche per disponibilità di spazi, interazioni familiari, competenze digitali individuali o familiari. Perché se quello dei ragazzi tutti nativi digitali si è rivelata una narrazione con poco fondamento, per i più piccoli c’è stata comunque necessità della mediazione dell’adulto, quando c’era, quando lo sapeva fare, quando ne aveva tempo e voglia. Quindi la DAD si è rivelata discriminatoria o, meglio, ha potenziato la caratteristica discriminatoria che già c’è nella scuola reale. Quindi diritto allo studio un bel niente. Sono considerazioni ormai acquisite, perché i limiti della DAD sono stati rilevati ormai su larga scala ed è finita la fase dell’esaltazione de “la scuola non si ferma”.
Il fronte delle critiche alla DAD è attualmente così ampio che merita qualche considerazione. Ovviamente è assai positivo che questa modalità didattica sia contestata in modo così diffuso. Qualche riflessione deve però essere fatta su tutta la variegata opposizione nata soprattutto da parte di associazioni di famiglie, recentemente costituitesi in comitati che invocano a gran voce la ripresa delle lezioni in presenza. Il panorama è variegato e mette in evidenza, assieme ad alcune posizioni più che condivisibili, anche tendenze che fanno riflettere. Innanzitutto il fastidioso rilancio di un familismo diffuso, che imperversa e che ambisce a proporre “le famiglie” come soggetto politico nella gestione della questione scuola.
Inoltre, è impossibile non considerare che questa insofferenza familiare alla DAD si è manifestata in modo già organizzato alla vigilia della fase 2, quando da parte di Confindustria e di molti settori politici ci sono state pressioni forti per la ripresa del lavoro. Gli stessi documenti prodotti dai comitati di famiglie più strutturati fanno riferimento, senza mezzi termini, alla necessità che la scuola sia a servizio dell’economia e della ripresa delle attività economiche; resta sullo sfondo la questione della sicurezza con cui la riapertura delle scuole dovrebbe essere garantita, su cui le opinioni sono molto vaghe.
Altrettanto colpevolmente vago è anche il Governo, che ha emesso recentemente le prime disposizioni per la riapertura delle scuole in totale incoscienza. Il primo banco di prova per la riapertura in sicurezza delle scuole è l’esame di stato. Il protocollo di sicurezza è stato stilato in convenzione con Protezione Civile e Croce Rossa ma sono curiosamente assenti INAIL e Ministero della Sanità. La sanificazione degli ambienti da parte di ditte specializzate nella fase di riapertura è un optional, concesso laddove le pressioni sindacali si fanno sentire; i dispositivi di protezione sono assicurati solo parzialmente.
Per la riapertura a settembre le cose sono ancora peggiori. Il Ministero dell’istruzione continua con i soliti tagli ed accorpamenti, formando classi fino a 30 alunni: le mirabolanti assunzioni di cui si parla non troveranno posti di lavoro (classi) su cui attivarsi nel concreto. Senza aumentare realmente gli organici l’operazione assunzioni è solo fuffa. In compenso si preparano doppi turni, riduzioni dell’orario di frequenza, esternalizzazioni al terzo settore, scuola all’aperto (che trovata!), mense con plexiglas fra le postazioni (sempre con la dicitura “ove necessario”, ove invece non è necessario non si sa) e si demanda ai Dirigenti di trovare la forma più adatta, cioè non si stanzia un bel niente. Intanto crescono le agitazioni, perché non è così che si rientra a scuola.
Insomma, la scuola è un fronte caldo, in cui Governo ed istituzioni manifestano, una volta di più, tutta la loro incapacità e brutalità. Sta a noi mettere a frutto tutta l’esperienza maturata in decenni di lucida presenza in un settore strategico per opporci all’ennesima manovra distruttiva, respingendo la vergogna della didattica a distanza ma pretendendo, come interesse collettivo, la piena sicurezza e non la riapertura al massacro.
Patrizia Nesti