La questione se la guerra in Ucraina potrà diventare l’inizio della terza guerra mondiale o rimanere un episodio della guerra permanente già in atto dipenderà dall’andamento della crisi capitalistica, iniziata ormai qualche decennio fa e ancora non risolta. Un episodio certamente doloroso per le distruzioni e le migliaia di vittime civili, emotivamente (e mediaticamente) più sentito di quanto avvenuto per la Siria o per la Libia in quanto più vicino a noi nel cuore dell’Europa. Se la crisi capitalistica in corso viene definita come una crisi ciclica dell’accumulazione, di cui è piena la storia del capitalismo, una sua soluzione attraverso una guerra generalizzata può essere una ipotesi sostenibile. Se la crisi in corso è però espressione del declino storico del modo di produzione capitalistico, pur con una sua accelerazione, l’ipotesi di una guerra generalizzata perde di vigore. Citiamo ancora Mattick:
“Nell’andamento ciclico del modo di produzione capitalistico una rapida accumulazione di capitale porta di conseguenza alla depressione e alla crisi, mentre il meccanismo stesso di risoluzione della crisi porta a una nuova fase di accumulazione e sviluppo. In maniera direttamente conseguente un periodo di pace capitalistica porta alla guerra e la guerra riapre a un nuovo periodo di pace. Cosa succede però se la depressione economica diviene permanente? Anche la guerra seguirà lo stesso andamento e quindi la guerra permanente è figlia della depressione economica permanente.” Mattick porta poi alle estreme conseguenze la sua analisi quando afferma: “Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica”.
Un ragionamento che ci riporta a quanto dicevamo nel libro citato all’inizio a proposito della pandemia. “Nell’articolo che apre il libro Philippe Bourrinet comincia col sottolineare che, nel passato, le grandi pandemie hanno sempre segnato i grandi passaggi epocali o, diremmo noi, i cambiamenti del modo di produzione. Così è stato per la ‘peste di Giustiniano’ che devastò le coste del mar Mediterraneo dal 541 al 767, segnando la fine dell’impero romano. Ancor di più la peste del 1300, che fece circa 30 milioni di morti, cioè un quarto, se non un terzo della popolazione di allora, segnò il passaggio dal Medioevo all’epoca moderna, cioè dal feudalesimo al decollo del capitale commerciale. E infatti le grandi epidemie sono state sempre molto legate agli scambi economici e commerciali e anche legate strettamente alla guerra. La peste del 1300 venne portata dai Mongoli che posero sotto assedio la città di Caffa, una colonia genovese in Crimea. I genovesi, seguendo le loro rotte commerciali portarono il terribile bacillo in Europa e verso il nord, fino in Scandinavia. [ma] se allora furono necessari tre anni perché la peste passasse dalla Crimea alla Norvegia, oggi, all’epoca della globalizzazione del capitale (e del coronavirus…), si deve ragionare in termini di settimane”.[12] Quindi la domanda che viene posta implicitamente, ma anche esplicitamente, nel libro è la seguente: la pandemia di Covid 19 può segnare l’inizio della fine del modo di produzione capitalistico? Naturalmente non stiamo parlando del prossimo futuro, stiamo parlando dei tempi lunghi della storia, come diceva Braudel; quello che conta alla fine è però la prospettiva in cui ci si pone.
Per concludere, ancora un paio di elementi che caratterizzano una economia di guerra. La produzione di armi, di più o meno alto livello tecnologico, continuerà comunque a crescere a dismisura. Il complesso militare-industriale non rinuncerà facilmente a una sua particolare “riproduzione allargata”, anche perché al suo interno si svolge il grosso della ricerca scientifica e tecnologica, con le sue crescenti propaggini nelle università private e pubbliche. I droni e i missili, una volta fabbricati devono però essere impiegati per poterli poi di nuovo fabbricare, qualche capitalista deve realizzare i suoi profitti, anche se la produzione di armi in generale costituisce un consumo improduttivo di plusvalore per il capitale sociale, tanto più per il fatto che questa produzione viene comprata quasi per intero dallo Stato.
A questo proposito destano quindi stupore le affermazioni di Draghi relative alla cosiddetta “Bussola Strategica per la Difesa Europea”, quando parla di una ripresa economica trainata dalla produzione di armi. Si riferisce evidentemente alle ordinazioni che possono arrivare alla media e piccola industria italiana dalla nostrana Leonardo Finmeccanica o, più ancora, dal progettato riarmo tedesco. A questo proposito si parla della nascita del “Polo Imperialista Europeo”, mentre all’orizzonte si profila un nuovo PNRR europeo appositamente creato per supportare questa politica di riarmo. A questo serve anche la risoluzione, recentemente approvata dal parlamento italiano, di portare la spesa militare al 2% del PIL, come già richiesto da Trump nell’ambito del finanziamento della NATO. Naturalmente questo porterà a tagli alla spesa pubblica per il welfare (pensioni, sanità, istruzione ecc.), che sono comunque salario indiretto dei lavoratori: siamo comunque lontani dalla politica di riarmo praticata, ad esempio, dalla Germania nazionalsocialista.[13]
Infine dobbiamo ricordare che da due anni noi ci troviamo in uno stato d’emergenza che da praticamente mano libera al governo di legiferare attraverso decreti legge, uno stato d’emergenza giustificato finora con motivi sanitari e che ora viene prorogato a causa della guerra. A questo punto risulta sempre più difficile distinguere fra un regime definito come democratico e uno bollato come autocratico. Già all’inizio della pandemia avevamo previsto che si sarebbero imposte forme di governo autoritarie e decisioniste e sarebbe aumentata la militarizzazione del territorio e della società. A questo proposito vogliamo ricordare che nell’aprile 2003 la NATO ha pubblicato un rapporto di 140 pagine denominato “Urban Operations in the Year 2020” (UO 2020). Nel rapporto l’ipotesi di partenza è l’aumento esponenziale della popolazione mondiale entro l’anno 2020 e il contestuale spaventoso aumento dell’urbanizzazione, con il 70% di questa popolazione che vivrà all’interno delle città. Tutto ciò provocherà crescenti tensioni economico-sociali, alle quali si potrà far fronte – secondo il rapporto – solo con una presenza militare massiccia, spesso su periodi di tempo prolungati. Nell’UO 2020 si consiglia di iniziare gradualmente ad utilizzare l’esercito in funzione di ordine pubblico all’avvicinarsi della crisi mondiale ipotizzata per il 2020. Ebbene siamo arrivati al 2022 e gli scenari ipotizzati nel rapporto NATO si rivelano molto attuali e quindi la raccomandazione contenuta nell’ultima parte “sull’esercito in funzione di ordine pubblico”, già operante in Italia da diversi anni, ha subito una accelerazione proprio in occasione dell’emergenza coronavirus, segnando una ulteriore militarizzazione del territorio.
Visconte Grisi
NOTE
[12] BOUTTINET, Philippe, “Capitalismo, Guerre ed Epidemie” in Lo spillover del profitto, op. cit.
[13] LIU, Larry, NATHAN, Otto, ROBINETT, Peter, HERBERT, Ulrich e HARRISON Mark, La politica economica del Nazionalsocialismo, Asterios, Settembre 2018.