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Continua la lotta per la verità e la giustizia. A 31 anni dalla strage del Moby Prince.

Continua la lotta per la verità e la giustizia. A 31 anni dalla strage del Moby Prince.

Che cos’è una strage? Quando centoquaranta persone muoiono sembra normale parlare di strage ma, se è comune definire così il disastro del traghetto Moby Prince del 10 aprile 1991, è solo perché per oltre trent’anni i familiari delle vittime e i soggetti solidali non hanno mai cessato di far sentire la propria voce e hanno sempre ribadito con fermezza che non si è trattato di una fatalità, strappando ogni parola, ogni brandello di verità, all’oblio e alla menzogna del potere. Anche le parole sono un terreno di lotta, sul quale chi ha il potere non è disposto a cedere di un millimetro.

Soprattutto se queste parole hanno un peso in quelle aule di tribunale che non hanno mai voluto riconoscere il reato di strage perché questo potrebbe mettere sotto accusa, tra gli altri, grandi armatori e ufficiali dello Stato per un reato non prescrivibile. Per la legge la strage è definita dall’articolo 422 del Codice Penale come atto che pone in pericolo la pubblica incolumità compiuto al fine di uccidere. Far partire un traghetto che non era in condizione di navigare in sicurezza significa decidere che il pericolo per l’intero equipaggio e i passeggeri è un rischio che deve essere calcolato se si vogliono mantenere i profitti di una compagnia di navigazione. Se le autorità incaricate di gestire le operazioni di soccorso in mare non sono intervenute in soccorso di equipaggio e passeggeri del traghetto significa che hanno deciso di non intervenire e di non salvare quelle persone. I tribunali non solo hanno deciso di non procedere per strage, ma hanno emesso sentenze che coprono le responsabilità di armatori e autorità. Dalle decisioni dei giudici e dalle parole dei pubblici ministeri la “verità” delle aule giudiziarie è ancora che 140 persone sono morte dopo solo mezz’ora dalla collisione tra il Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno per colpa del destino cinico e baro.

La realtà dei fatti che non ha spazio nelle aule di tribunale è però presente nella società grazie alla lotta per la verità e la giustizia condotta in questi anni dalle associazioni dei familiari delle vittime. Una realtà che sta emergendo, grazie alla continua pressione esercitata dalle associazioni, anche nella commissione d’inchiesta parlamentare. Il traghetto Moby Prince non era nelle condizioni di navigare e a bordo, dopo la collisione numerose persone, tra passeggeri ed equipaggio, sono rimaste vive per ore nella disperata attesa di soccorsi. Tutto questo è stato ribadito anche dalla Federazione Anarchica Livornese e dal Collettivo Anarchico Libertario in un comunicato pubblicato lo scorso anno a trenta anni dalla strage:

L’impegno dei familiari ha permesso in questi anni che la verità si affermasse a livello collettivo, nella società, dissipando gli strati di menzogne costruiti sulla vicenda, ricordando sempre le responsabilità dell’armatore della Navarma Onorato, che faceva viaggiare un traghetto senza le minime condizioni di sicurezza, e della Capitaneria di Porto di Livorno, comandata da Albanese, che non ha soccorso chi si trovava sul Moby Prince avvolto dalle fiamme. Il Moby Prince non doveva viaggiare. Il traghetto aveva l’impianto antincendio sprinkler disattivato, due radar non funzionanti su tre, aveva malfunzionamenti alla radio legati a cali di frequenza, inoltre il traghetto viaggiava con il portellone di prua aperto, circostanza che avrebbe facilitato la propagazione delle fiamme e dei fumi all’interno del garage del traghetto dopo la collisione con la petroliera Agip Abruzzo.

Come a Viareggio, a Pioltello, a Andria, come nella strage alla Thyssen di Torino, anche a Livorno nella strage del Moby Prince le responsabilità sono chiare. Ad uccidere 140 persone sono stati armatori e manager che per avere maggiori profitti e premi hanno risparmiato sulla sicurezza, sono state le autorità che prima hanno concesso il certificato di navigazione al traghetto, poi non hanno soccorso chi si trovava sulla nave, e infine hanno coperto le responsabilità degli armatori. L’impegno costante dei familiari delle vittime del Moby Prince ci mostra allora quanto sia importante la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori per la salute e la sicurezza, ad ogni livello, anche su una sola postazione di lavoro, su un solo mezzo.”

Quest’anno, per il trentunesimo anniversario della strage, a Livorno sono riprese le commemorazioni che negli ultimi due anni si erano svolte in formato ridotto a causa della pandemia. Oltre al folto drappello di delegazioni istituzionali, erano presenti varie centinaia di persone al corteo che aperto dallo storico striscione “Moby Prince: 140 morti nessun colpevole!” ha attraversato le vie del centro fino a raggiungere al porto la lapide dedicata alle vittime della strage. Una partecipazione che deve essere di stimolo per riprendere a fare di questa questione un piano di lotta, in solidarietà con le associazioni dei familiari, ma soprattutto per lottare quotidianamente contro lo sfruttamento assassino che viviamo sui luoghi di lavoro, contro l’arroganza del potere, che difende privilegi e profitti. Riportiamo quanto scritto da Giacomo Sini, figlio di una delle vittime del Moby Prince e compagno del Collettivo Anarchico Libertario, che ci ha inviato le parole che avrebbe dovuto pronunciare la scorsa domenica 10 aprile durante la commemorazione nella sala consiliare del Comune di Livorno, alla quale non ha potuto partecipare per problemi di salute.
“In un giorno così difficile e così importante mi ritrovo in quarantena senza la possibilità di sentire la vicinanza e la solidarietà di chi negli anni ci è sempre stato vicino. È solo grazie alle battaglie nate e cresciute dal basso, a chi c’era 31 anni fa e non ci ha mai abbandonati, a chi ha seguito le nostre lotte, che si è arrivati anche solo a riparlare sempre del nostro caso, a tentare di strappare uno stralcio di verità ufficiale. 31 anni, senza che sia stata fatta verità e giustizia dagli organi ufficiali dell’apparato statale. Tante parole, tante promesse, pochi fatti e tanto dolore. Ogni anno quel babbo che mi tiene in collo in questa foto sbiadita viene ucciso dalla mancanza di una giustizia che distrugge.

Non ce la facciamo più ogni anno a dover ripetere sempre le stesse cose. Vorremmo un giorno poter solo commemorare le nostre ed i nostri cari, senza dover ribadire la necessità di giustizia. Vorremmo ogni anno non dover piangere altri morti sul lavoro, vorremmo non dover ricordare che ci sono ancora persone che muoiono in mare in cerca di una vita migliore senza esser soccorse o chi muore per progetti assassini di alternanza scuola lavoro. Vorremmo non dover ricordare che la sicurezza sul lavoro e nella mobilità devono essere priorità assolute.

Invece in nome di una sicurezza armata sentiamo parlare di “spese militari in aumento”, giustificate da un’emergenza nazionale. L’emergenza reale è la guerra quotidiana alle lavoratrici ed ai lavoratori ed in questo caso non si parla mai di un aumento di investimenti a garanzia della sicurezza di queste e quest’ultimi sul posto di lavoro. Non dimentichiamoci mai che la nostra strage è stata la più grande su di un posto di lavoro in Italia.

Mai smetterò di ricordare che i signori Onorato facevano viaggiare quel maledetto traghetto senza alcune delle misure di sicurezza basilari da seguire per una navigazione tranquilla. Mai messi sul banco d’imputazione. Allora continuerò a pensare che lo Stato ed i suoi apparati a loro giustizia la hanno già fatta, da anni. Siamo stufe e stufi.”
Se vogliamo parlare di giustizia dobbiamo partire dalla costruzione di reti di solidarietà e lotte dal basso, per liberarci dallo sfruttamento e dall’oppressione su cui si fonda l’ordinamento di questa società e che minacciano la vita di tuttx noi.

Dario Antonelli

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