Il presidente del consiglio ha presentato la legge di stabilità per il 2017. L’anno scorso il tormentone fu la contrapposizione fra austerità e crescita, quest’anno dovrebbe essere quella tra il merito e il bisogno: il merito di chi riesce a tagliare di più sui servizi e il bisogno creato dalla continua rapina dello Stato. E’ inutile cercare nei resoconti degli organi d’informazione, come nei discorsi del presidente del consiglio, un’indicazione sulle cifre che dovrebbero servire a capire meglio la situazione, in particolare il deficit, cioè la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato nell’anno, e l’indebitamento, cioè il peso con cui la macchina dello Stato schiaccia l’economia reale. Nella narrazione confezionata dal Governo sulla manovra per il 2017 si fa un gran parlare, ancora una volta, di “spending review”. Con questo termine, mutuato dall’inglese, si intende l’esame delle spese sostenute dallo Stato, per il funzionamento del suo apparato e per i servizi erogati alla cittadinanza. La manovra diventa quindi l’occasione per tagliare le spese dei ministeri, in particolare la sanità e la scuola, con la scusa di ridurre gli sprechi e migliorare il bilancio. Per capire qualcosa di più bisogna rivolgerci ai dati degli anni passati: il debito pubblico negli ultimi anni è cresciuto continuamente, così come la spesa per gli interessi. Secondo i dati del ministero del Tesoro, il debito pubblico è passato da 1,989 miliardi nel 2012 a 2.171 nel 2015, mentre secondo la Banca d’Italia è a 2.247 miliardi ad agosto 2016. Il debito pubblico è per l’84% costituito da titoli di Stato di vario tipo, emessi sia sul mercato interno sia su quello estero, pari a 1.887 miliardi di euro in valori assoluti; il resto è costituito da debiti di altre amministrazioni e degli enti di assistenza e di previdenza, si tratta in altre parole dei debiti degli enti di previdenza per le pensioni e altri servizi su cui non gravano interessi. Stando alla legge di stabilità approvata l’anno scorso, la spesa per interessi crescerà nel triennio 2016-2018 da 84 miliardi di euro a quasi 88. In percentuale, sul debito pubblico complessivo, lo Stato si trova a pagare interessi medi del 3,78%. Tenendo conto solo dei titoli di Stato, il tasso di interesse sale invece al 4,46%, si tratta di tassi che sono più del doppio di quelli a cui sono stati aggiudicati i buoni del Tesoro poliennali nell’ultima asta dal 13 ottobre. Gli alti tassi sono evidentemente dovuti a debiti contratti, cioè a titoli emessi quando i tassi d’interesse erano più alti rispetto a quelli attuali; proprio questa sfasatura permetterebbe al governo, attraverso l’uso di titoli a breve, con cui riacquistare i vecchi titoli, di ridurre il peso degli interessi. Per fare un esempio, ridurre di un punto la forbice tra i tassi medi e i tassi spuntati nell’ultima asta, cioè passare dal 4,46 al 3,46 medio comporterebbe un risparmio di quasi 19 miliardi di euro. Si tratta di un provvedimento che non ha nulla di rivoluzionario: tutte le aziende ricontrattano i prestiti quando sul mercato si presentano condizioni più favorevoli; lo potrebbe fare anche lo Stato italiano, evitando di salassare in continuazione i contribuenti e di tagliare i servizi a chi ne ha più bisogno. Quali sono le controindicazioni di questa politica? Il sistema creditizio, in particolare banche e assicurazioni, ne sarebbero danneggiati. La sostituzione di titoli a lunga scadenza con titoli a scadenza più breve avrebbe un impatto sulla situazione patrimoniale degli istituti perché i titoli a breve, che hanno una durata massima di 12 mesi, non possono essere messi a riserva, come avviene per i titoli poliennali. La riduzione degli interessi, che rappresenta un risparmio per il debitore, incide sui ricavi degli istituti finanziari, solo in parte compensati dalle commissioni relative al collocamento più frequente dei titoli. Le chiacchiere sul “merito” e sul “bisogno”, l’APE, la rottamazione di Equitalia nascondono il carattere di questa finanziaria e di quelle che l’hanno preceduta: il predominio dell’oligarchia finanziaria, che controlla i grandi gruppi monopolistici (il “salotto buono”), e stringe alla gola il governo, concedendogli o negandogli i mezzi finanziari per la sua azione. La “spending review” è una presa in giro, così come i vincoli alle amministrazioni locali e la centralizzazione della spesa sono solo fumo negli occhi dei cittadini, per nascondere la continua rapina degli interessi passivi.
Tiziano Antonelli