“Io, ragionier Total, non sono diverso da voi, né voi siete diversi da me.
Siamo uguali nei bisogni, diseguali nel loro soddisfacimento.
Io so che non potrò mai avere nulla più di quanto oggi ho.
Fino alla morte. Ma nessuno di voi potrà avere più di quanto ha.
Certamente molti di voi avranno più di me. Come tanti hanno meno.
E nella lotta legale, o illegale, per ottenere ciò che non abbiamo,
molti si ammalano di mali vergognosi, si riempono il corpo di piaghe, dentro.
E fuori. Tanti altri… cadono, muoiono, vengono esclusi, distrutti, trasformati.
Diventano… bestie. Pietre. Alberi morti. Vermi.
Così nasce l’invidia e in questa invidia si nasconde l’odio di classe, decomposto in egoismo e quindi… reso innocuo.
L’egoismo è il sentimento principale della religione della proprietà.
Io sento che questa condizione mi sta diventando insopportabile, così come lo sta diventando per molti di voi.”
(scena iniziale del film “La proprietà non è più un furto,” regia di Elio Petri)
Quante volte abbiamo letto e/o sentito “il cibo italiano è sicuro e genuino”? O “i prodotti agroalimentari italiani sono il nostro orgoglio nazionale”?
In nome della difesa e valorizzazione di prodotti e lavorazioni annesse, la proprietà diventa una vera e propria religione da difendere ad ogni costo. È così che i gestori dei settori agro-alimentari e ristorativi, insieme ai mass-media specializzati in questi campi, portano avanti questa retorica “sovranista nazionale.”
Attraverso l’esempio del “grano duro” siciliano, tracceremo un’analisi generale di questo fenomeno e della cucina ristorativa.
Il grano della discordia
Il 15 Marzo 2018 al porto di Pozzallo, il Nucleo operativo del Corpo forestale, gli ispettori del servizio fitosanitario regionale e il personale della sanità marittima hanno eseguito un accertamento sulla nave “ANNA 2005”, battente bandiera di St Vincent & Grenadine, che trasportava cinquemila tonnellate di grano duro.
La nave proveniva, stando all’ultimo dato dell’AIS (Sistema di identificazione automatica)(1), da Novorossijsk, città della Russia meridionale e principale porto russo sul mar Nero, ed era arrivata prima ad Augusta e, infine, a Pozzallo(2).
Dai controlli eseguiti, la merce è risultata contaminata da ruggine, proveniente dalle pareti della nave, fosfina e micotossine. È scattato immediatamente il sequestro della merce, valutata 1,3 milioni di euro.
Non è la prima volta che arrivano navi del genere nel porto di Pozzallo. Già nel settembre del 2017 era arrivata la nave cargo “Erdogan Senkaya”, battente bandiera turca e trasportante grano ucraino. Il senatore Giuseppe Lumia del Partito Democratico era intervenuto sulla questione, sottolineando che l’Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera (USMAF) stava facendo dei controlli per constatare la presenza di radionuclidi nella merce. (3)
A differenza del mese di settembre, oggi la classe politica ed economica siciliana si trova in grosso fermento per l’attuazione e/o potenziamento delle infrastrutture economiche e di trasporto(4).
“Il mio Governo”, aveva dichiarato il presidente della regione Sicilia Nello Musumeci nel gennaio di quest’anno, “lavorerà per ridurre la dipendenza della Sicilia dalle imprese del Nord, soprattutto per l’agroalimentare e lo sfruttamento delle nostre risorse. L’Isola è diventata un mercato di consumatori di prodotti non locali. Invece, e non è sciocco protezionismo, vogliamo lavorare per incoraggiare il made in Sicily.”
Con il blocco e il sequestro dell’ “ANNA 2005”, Musumeci sbandiera la “tolleranza zero” verso “chi pensa di continuare a introdurre in Sicilia merce non in regola con le norme sanitarie, specie se si tratta di prodotti destinati all’alimentazione” e annuncia: “Con l’assessore Edy Bandiera abbiamo intensificato i controlli e ringrazio le guardie forestali regionali e gli ispettori fitosanitari per l’impegno profuso.”
Il citato Edy Bandiera, assessore regionale all’agricoltura, sviluppo rurale e pesca mediterranea, non può che confermare la linea di Musumeci, mettendo in campo il salutismo: “Terremo alta l’attenzione e sono sicuro che grazie alla nostra intransigenza, i tentativi di far sbarcare in Sicilia prodotti pericolosi per la salute e che danneggiano le produzioni regionali saranno sempre più limitati.”
Le associazioni di categoria plaudono al sequestro. Il presidente di Confagricoltura Sicilia Ettore Pottino sottolinea che “il blitz al porto di Pozzallo ha evidenziato quanto da tempo andiamo denunciando circa la commercializzazione di prodotti di dubbia provenienza ed il più delle volte spacciati come nazionali o comunitari. Il pericolo maggiore per i consumatori è quello di acquistare derrate che non rispettano le ferree regole dettate dall’Unione Europea in materia di sicurezza alimentare. L’auspicio è che quest’opera di controllo possa essere intensificata ed estesa a tutte le strutture che operano nell’ambito della filiera, anche in quelle della trasformazione. Non è sicuramente una coincidenza il tracollo del prezzo del grano in questo periodo e ciò anche in presenza di previsioni non ottimistiche sulla prossima campagna cerealicola nazionale. Il rammarico maggiore, visti i primi risultati, è quello di aver disatteso per lungo tempo la richiesta in tal senso formulata da tutto il mondo agricolo.”
Anche la Coldiretti Sicilia dichiara che “la qualità del nostro prodotto con l’indicazione dell’origine potrà remunerare il cerealicoltore che attualmente ha un profitto esiguo. Rimandare al mittente un prodotto non adeguato è un atto di grande responsabilità soprattutto per la salvaguardia della salute.”
A dar man forte a questa narrazione “difensiva dei prodotti locali”, ci pensano ex esponenti politici e alcuni siti internet inserendo con dovizia la questione salutista.
Cosimo Gioia, ex dirigente del Dipartimento Infrastrutture dell’assessorato all’Agricoltura Regione Sicilia e imprenditore agricolo, dichiara che l’arrivo del grano duro “di pessima qualità” serve “per far precipitare il prezzo del grano duro siciliano, che è già basso”.
Secondo Gioia, per ovviare al problema, “il grano, là dov’è possibile, dovrebbe essere consumato a Km zero! Ed è semplicemente incredibile che una terra come la Sicilia, vocata per il grano duro, importi grano duro dai Paesi esteri! Per giunta grano duro trasportato con le navi. Tutto questo perché c’è chi deve speculare e guadagnare penalizzando gli agricoltori siciliani. E lo stesso discorso vale per la Puglia e, in generale, per tutte le Regioni del Mezzogiorno d’Italia. Detto questo, poi, voglio manifestare un dubbio a proposito dei controlli”.
I Nuovi Vespri, noto sito che difende a spada tratta i prodotti siciliani e del Sud Italia dall’invasione dei prodotti stranieri, scrive: “Per il controllo delle navi cariche di grano che arrivano in Italia si batte GranoSalus (di cui fa parte Cosimo Gioia, ndr), associazione che raccoglie consumatori e produttori di grano duro del Mezzogiorno d’Italia. Insieme – GranoSalus e I Nuovi Vespri – stanno conducendo una battaglia a tutela del grano duro del Sud Italia, con una campagna di controlli sui derivati del grano.”
Anche Greenme supporta la linea de I Nuovi Vespri: “la Sicilia, produce ottimo grano. Perché importarlo dall’estero, rischiando come in questo caso di consumare un prodotto malsano, ricco di muffa? Una cosa è certa. Siamo noi consumatori a fare la differenza quando scegliamo di comprare italiano. Secondo Coldiretti, un pacco di pasta su 3 in vendita in Italia è prodotto con grano straniero. Il grano da filiera 100% italiana è certamente più sicuro di quello importato perché è controllato dal campo alla tavola. Per questo, nel nostro piccolo, non possiamo che scegliere grani di produzione locale o comunque nazionale.”
Agli inizi di aprile, il Mulino Rocca Salva di Modica, a cui doveva andare il grano arrivato a Pozzallo, ottiene dal TAR Sicilia Sezione di Catania lo sblocco del grano non contaminato presente nella nave(5). Nonostante l’assessore Edy Bandiera affermi che sia “stata riconosciuta unicamente la possibilità di effettuare, ante causam, un’operazione di cernita del cereale danneggiato a causa della presenza di muffa e umidità, da quello apparentemente sano, che sarà ulteriormente sottoposto ai controlli di legge”, piovono le polemiche da più parti sia per l’assenza di strumentazione di analisi che per la sfiducia nel controllo del carico. Polemiche che, giusto per ripeterci, sottolineano la difesa ad oltranza dei prodotti tipici siciliani.
Sopravvivenza aziendale
Secondo i dati Istat su Agricoltura e Zootecnia del 2017, la produzione raccolta di grano duro in Italia è stata di 42.127.682 quintali. Nella sola Sicilia sono stati prodotti 7.966.312 quintali su una superficie di 285.525 ettari coltivata a grano duro: più di 1/6 della produzione nazionale.
Nonostante la produzione di grano duro continui a crescere a livello nazionale e regionale, i produttori devono sostenere i costi variabili e fissi e la mole di produzione annuale di grano duro. Complice l’importazione di grano duro estero (6), la vendita di grano duro locale degli ultimi anni, riportato dall’Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), si aggira tra i 15-22 centesimi al chilo (150-220 euro a tonnellata).
Partendo da questi dati, Confagricoltura, Coldiretti Sicilia, Cosimo Gioia, I Nuovi Vespri e Greenme affermano che il prezzo è così basso per via dell’importazione di grano duro “straniero” (canadese, moldavo, russo ed ucraino) e ciò impoverisce sempre più i produttori di grano duro siciliani.
In realtà non è proprio così.
La “riforma agraria” (legge stralcio n.841 del 21 ottobre 1950) con le successive modifiche (1951-1952) ed abrogazione (2002), da una parte ha consentito ai braccianti e mezzadri siciliani l’indipendenza economica dai latifondisti e la possibilità di costituire delle cooperative agricole, dall’altra, però, ha trasformato le coltivazioni da estensive in intensive.
Murray Bookchin, usando lo pseudonimo di Lewis Herber, scrisse un articolo dal titolo “The problem of chemicals in food,” pubblicato su “Contemporary Issues” nel 1952. In questo articolo, Bookchin parte dalle “monocolture intensive”, divenute predominanti negli USA e in tutta Europa dopo la seconda guerra mondiale, per criticare sia la gestione produttiva agricola sia l’utilizzo di pesticidi (in particolare insetticidi) e di fertilizzanti sintetici organici ed inorganici.
Nonostante le migrazioni verso il nord Italia o l’estero, negli anni ‘50 e ‘60, l’utilizzo delle tecnologie all’interno delle grandi cooperative agricole siciliane servì ad incrementare la produzione.
Nel maggio del 1966, il governo italiano istituì l’AIMA, il cui compito “era sovrintendere l’attività di intervento nel mercato, in quanto le operazioni d’acquisto, conservazione e vendita dei prodotti agricoli erano affidate a soggetti terzi detti assuntori che dovevano essere iscritti ad appositi albi”(7).
Chi dominava il mercato agro-alimentare era la Federconsorzi che “si accaparrava tutti i fondi statali erogati dall’AIMA”(7) e decideva se un prodotto agricolo era una fonte di guadagno o meno.
Il grano duro in Sicilia soffrì di una crisi dovuta alle importazioni di grano duro sudamericano e sovietico negli anni ‘60 e ‘80. Nonostante questa concorrenza e il continuo abbassarsi del prezzo del grano duro, le aziende sono riuscite a preservare la produzione e i guadagni attraverso la costituzione di cooperative e consorzi agricoli.
Tra questi prenderemo in esame tre casi.
Il Consorzio C.R.I.S.M.A. (acronimo di Consorzio Regionale di Imprenditori per lo Sviluppo del Mongibello e dell’Amedeo) è nato grazie ad alcune piccole e medie imprese e oggi conta 637 aziende associate (588 solo le aziende agricole sparse sul territorio siciliano). Lavora 4,5 milioni di quintali di grano duro (varietà Mongibello e Amedeo) e ha un fattore annuo di oltre 136 milioni di euro, piazzandosi come il principale Consorzio di grano duro siciliano.
La Cooperativa Agricola Valle del Dittaino, principale produttrice della Pagnotta del Dittaino DOP e di altri prodotti panificati in provincia di Enna, è composta da quasi cinquanta produttori agricoli. Produce tra i 200 e i 300 quintali giornalieri di prodotti panificati e ha un fatturato annuo che si aggira intorno ai 50-60 milioni di euro circa. Benché questa cooperativa abbia il “monopolio” sulla produzione del grano duro e dei prodotti panificati, vi sono altre piccole aziende che producono e lavorano il prodotto grezzo nel territorio in cui cade la disciplinare di produzione del marchio DOP(8).
Il Presidio Slow Food “Pane nero di Castelvetrano” è un consorzio che riunisce i panificatori, i mulini e gli agricoltori che coltivano grano antico timilìa nelle zone di Castelvetrano (provincia di Trapani). La certificazione del Presidio Slow Food, in generale, serve a rafforzare la consapevolezza del produttore e a definire l’area di produzione, la storicità del prodotto e le descrizioni dettagliate delle fasi di coltivazione (o allevamento) e lavorazione. Questa certificazione, a differenza della disciplinare di produzione dei marchi IGP e DOP, è molto più rigida in quanto vuol sostituire un criterio di analisi e scelta fatto dagli organi pubblici con uno associativo privato.
Se nel caso della Pagnotta del Dittaino gli introiti sono molto alti e prospettano ai produttori singoli e riuniti in cooperative di poter sopravvivere e allargare il bacino di clienti, nel caso del Pane Nero di Castelvetrano vi è il fattore del “grano duro antico di Sicilia.”
Da un paio di anni a questa parte, complice sia una maggior sensibilità alla tematica alimentare sia l’intento di sfruttare nuovi settori di mercato, hanno preso piede quei tipi di grani duri chiamati “antichi”. Attraverso operazioni di marketing, in cui il cliente non è più un destinatario passivo ma una parte importante del processo produttivo, il termine “antico” è utilizzato a livello commerciale per comunicare al cliente non solo l’idea del prodotto locale ma anche la sicurezza per la propria salute.
Per questi motivi i prodotti basati su grani duri “antichi” siciliani sono quelli più ricercati, e soggetti sia a speculazioni di mercato che a “sofisticazioni”, attuate introducendo altri tipi di grani duri “non antichi”. In questo modo inizia la “guerra” di farine e prodotti panificati a suon di richieste di etichette, di fondi europei per la tutela dei prodotti etc.
Ma questa sorta di “guerra” commerciale non è solo appannaggio dei grani duri “antichi”. Le citate “Cooperativa Agricola Valle del Dittaino” e “Consorzio C.R.I.S.M.A.”, per difendere i propri fatturati milionari annui, sono le prime a portare avanti la retorica della “difesa dei prodotti locali” contro quelli “stranieri”.
All’interno di questa retorica troviamo il “caso” dell’Ucciardone di Palermo. Il pastifico Giglio, in collaborazione con il Consorzio di Ricerca “Gian Pietro Ballatore” (al cui interno vi è la Cooperativa Agricola Valle del Dittaino), il Ministero di Grazia e Giustizia e la dirigenza carceraria, inaugura una linea di pasta medio alta fatta all’interno di un laboratorio lavorativo del carcere.
Utilizzando la vecchia e stantia retorica legalitaria del “contribuire alla rieducazione dei carcerati”, si assiste all’evoluzione dei laboratori di lavoro (presenti in particolare nei carceri minorili) che diventano luoghi dove le aziende possono sfruttare manodopera a basso prezzo.
Sfruttamento lavorativo carcerario, agricolo e ristorativo
Lo sfruttamento lavorativo nel campo agro-alimentare verrà analizzato in tre luoghi: all’interno delle carceri, nelle campagne e nei ristoranti.
All’interno delle carceri, il lavoro dei detenuti e delle detenute ha una retribuzione (chiamata mercede) diversa da quella dei lavoratori e delle lavoratrici considerati/e “liberi/e”. Stando alle nuove modifiche del Ministero di Grazia e Giustizia, dal 1 Ottobre 2017 la mercede del detenuto e della detenuta passa da 2,5 euro a quasi 7 euro l’ora. In apparenza sembrerebbe un piccolo traguardo nel raggiungimento di retribuzioni accettabili, in realtà la bassa retribuzione fa sì che i detenuti e le detenute non riescano a versare i contributi per accedere ad eventuali indennità di disoccupazione. A peggiorare la cosa vi è anche un decreto del Ministero di Grazia e Giustizia del 7 Agosto del 2015 per cui la quota di mantenimento (ovvero per stare in carcere) che ogni detenuta/o deve versare è di 3,62 euro giornalieri. Quindi se un detenuto o una detenuta lavorano in carcere, la quota di mantenimento verrà prelevata dalla busta paga, riducendo ulteriormente la magra retribuzione.
Se allarghiamo il discorso ai costi di un detenuto o di una detenuta, vediamo come lo Stato italiano versi quasi 2,6 miliardi di euro l’anno.
Stando a quanto riportato da Stefano Cerruti in due articoli(9), la suddivisione della spesa avviene in tal modo: il 65,4% delle risorse finisce nella voce “sicurezza”; il 15,1% in “funzionamento e manutenzione”; il 10,4% in “mantenimento e trattamento dei detenuti”; il 6,7% in “direzione, supporto e formazione del personale”; il 2,5% in “esecuzione penale esterna.” Il costo medio affrontato dallo Stato per ogni detenuto/a rinchiuso/a in un penitenziario è di 125 euro al giorno. Di questi soldi, scrive Cerruti, “solo 9,26 euro sono spesi per il mantenimento del detenuto; tutto il resto serve a mantenere la struttura, il personale amministrativo e la polizia penitenziaria”(10).
A 42 anni dall’uscita di “Sorvegliare e Punire” di Michel Foucault, nel mondo carcerario italiano, si assiste alla retorica falso-pietistica della classe dirigente e all’entrata delle aziende per sfruttare appieno i detenuti e le detenute.
L’esempio palermitano sarà un pericoloso apripista in tal senso, facendo abbassare ulteriormente il prezzo della forza lavoro manifatturiera ed eventualmente quella agricola “fuori” dalle carceri.
Prendiamo come esempi il “Contratto Provinciale del Lavoro (CPL) per gli operai agricoli e florovivisti”, firmato tra i sindacati confederali e le associazioni di categoria delle quattro provincie siciliane che hanno prodotto più di un milione di quintali di grano duro: Palermo, Enna, Caltanissetta e Catania.
Dai CPL presi in esame(11), notiamo come la paga di un operaio o di un’operaia agricolo/a a tempo determinato sia tra i 61 euro e i 76-77 euro giornalieri per trentanove ore settimanali.
Ma tra la teoria e la pratica ci sta di mezzo il mare. Le cifre e i documenti riportati sono puramente indicativi poiché in realtà i prezzi sono molto più bassi: se si è italiani, la retribuzione sarà tra i 40 e i 50 euro giornalieri; se si è rumeni o migranti nordafricani le cifre non supereranno i 20 euro giornalieri.
Riprendendo il discorso fatto su “Finanziamenti europei e governativi e strategie borghesi”(4), le aziende e multinazionali presenti sul territorio siciliano operano per creare e potenziare il marketing dei prodotti agrumicoli locali “attraverso la valorizzazione del prodotto e del territorio”(4).
E qual è la miglior forma di pubblicità e guadagno di questa valorizzazione se non il turismo eno-gastronomico?
Il turismo enogastronomico, detto in modo molto sintetico, è quell’insieme di strutture e arti che riuniscono le agenzie turistiche e le aziende ricettive e ristorative. Nel contesto di questo articolo, prenderemo in considerazione solo il caso delle strutture ristorative.
Apparsi verso la seconda metà del XVIII secolo in Francia, i ristoranti cominciarono, grazie all’espansione dei mercati francesi, a minare la concezione delle corporazioni composte da artigiani dediti ad un tipo di preparazione di cibarie e/o vivande. Con la rivoluzione francese del 1789 cambiò tutto: le corporazioni vennero eliminate e l’attività imprenditoriale venne promossa e incoraggiata; tutti quelli che fino ad allora avevano lavorato nelle cucine dei nobili, e nelle corporazioni, aprirono una loro impresa o andarono a lavorare alle dipendenze di qualcuno.
L’arrivo di prodotti alimentare da altri luoghi, l’evoluzione industriale del XIX secolo, e la collaborazione stretta tra Ritz ed Escoffier, portarono ad una rivoluzione radicale nell’organizzazione di ristoranti e alberghi: i menu vennero snelliti e inquadrati al meglio per quanto riguarda le tipologie di piatti; il personale in cucina diveniva specializzato in una di queste tipologie, attraverso un inquadramento militaresco (brigade de cuisine, ideato da Escoffier); il personale di sala e di cucina non era più separato ma interagiva per ottimizzare i tempi e massimizzare i guadagni. Si anticipavano in tal modo i processi produttivi esplicati da Taylor e messi in pratica da Ford riguardo alla divisione e specializzazione all’interno di una struttura aziendale.
Le evoluzioni dell’industria alimentare e i mutamenti sociali della seconda metà del XX secolo hanno portato sia ad un’ulteriore snellimento del personale all’interno della cucina ristorativa sia ad una sua specializzazione tecnologica.
Ciò che non è cambiato è la divisione del lavoro di sala e cucina e le ulteriori divisioni all’interno di queste; così i lavoratori e le lavoratrici affrontano il lavoro in modo concorrenziale, abitudinario e frustrante(12), cercando di alleviare lo stress subito con l’assunzione di droghe e/o alcol.
Il proprietario di un’azienda ristorativa incentiva maggiormente questa divisione, cercando sempre di ricavare il massimo profitto barcamenandosi tra tasse, concorrenza, ed eventi esterni (rivolgimenti sociali ed economici per esempio). Qualora qualcuno/a dei lavoratori e/o delle lavoratrici causi problemi, verrà licenziato/a senza troppi scrupoli(12).
Tirando le somme, vediamo come i discorsi sovranisti adottino delle metodologie dicotomiche (“o le multinazionali o le piccole imprese”) e avvantaggino strutture apparentemente diverse fra loro (carcere, campagne e ristoranti) ma accomunate da pratiche di sfruttamento e alienazione.
Per uscire da tutto questo, bisogna scardinare la catena produttiva agro-alimentare (piccola o grande che sia) e le creazioni culturali atte a dividere e discriminare i lavoratori e le lavoratrici; allo stesso tempo, è necessario passare alla creazione di reti di cooperazione e mutuo appoggio atte al rivolgimento di un sistema alienante e venefico.
Aggiornamenti
Il Mulino Rocca Salva di Modica ha rinunciato al grano contaminato perché avrebbe portato una cattiva pubblicità e conseguente calo dei guadagni all’azienda.
Stando a quanto affermato da Giuseppina Pignatello, responsabile dell’ufficio di Sanità marittima di Siracusa e Ragusa, “con il rientro obbligatorio in Kazakistan, scatterà un’allerta per cui per i prossimi dieci carichi che arriveranno in qualsiasi porto europeo dal Kazakistan si attiveranno automaticamente i controlli con la campionatura, così da essere certi che non si proverà a piazzare lo stesso prodotto giunto in Sicilia.”
Queste dichiarazioni stridono, sia con la presenza nel territorio kazako di aziende italiane dedite allo sfruttamento agroalimentare, logistico, manifatturiero e petrolifero (Bonatti, Enereco, Eni, Ferrero, Gruppo Cremonini, Impregilo etc), sia con dichiarazioni e firme di accordi economici tra rappresentanze istituzionali italiane e kazake.
L’ambasciatore Sergey Nurtayev in Italia dichiarò in un’intervista che durante l’EXPO 2015 “furono stipulati accordi economici per oltre 500 milioni di euro, tra cui progetti per la costruzione di impianti sul rilascio di tubi in Kazakistan (la compagnia Tenaris), le organizzazioni dei complessi serra per l’esportazione della produzione agricola, l’apertura di un centro per la produzione di flange, regolazioni della produzione delle attrezzature statiche ad alta precisione, macchinari da saldatura, costruzioni di parchi eolici.”
Nell’evento citato, il presidente dell’Istituto Italiano per il Commercio Estero, Riccardo Monti, si era dimostrato entusiasta perché il Kazakistan “è diventato un paese particolarmente attrattivo per i nostri investimenti, come testimoniano gli accordi stipulati oggi. Possiamo provvedere a far costruire la filiera agroalimentare di questo paese, così come possiamo dire la stessa cosa per la manifattura dove stanno nascendo degli interessanti distretti industriali.”
Anche il presidente kazako Nazarbayev, approfittandone per ringraziare il governo italiano, dichiarò che “la priorità sarà sempre quella di agevolare ed incentivare gli investimenti. In particolare, ha incontrato il nostro favore un progetto agroalimentare sulla KAZAKISTAN Pavillion Milano expo 2015 interno padiglione carne. Abbiamo delle agevolazioni fiscali per le nuove imprese, che sono esentate dal pagamento delle tasse sugli utili, ed inoltre rimborsiamo il 30% dei costi a chi investe. In quale altro paese è possibile tutto ciò?”
Alla luce di tutto questo, la tanto decantata sicurezza agroalimentare non è altro che una copertura e una costruzione giuridico-scientifica con cui si giustifica, col pretesto di tutelare il benessere umano (mettendolo al centro di tutto: antropocentrismo) e il “benessere” degli animali da allevamento (trasformandoli in cibi-merce più competitivi), tutto il discorso mercificatorio o capitalistico.
Gruppo Anarchico Chimera
Note
(1) Sistema automatico di identificazione, sussidio marino di navigazione usato dalle navi e dai servizi di traffico del vascelli (Vessel Traffic Services) principalmente per la loro identificazione e il loro posizionamento.
(2) https://www.vesselfinder.com/it/vessels/ANNA-2005-IMO-9369459-MMSI-377221000
(3) Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-08087 della 17a Legislatura.
(4) “Catania e Sicilia: tra capitalismo e cultura dominante autoritaria,” Umanità Nova, numeri 10-11 del 25 Marzo e 1 Aprile 2018.
(5) “Tar: è commestibile il grano sequestrato a Pozzallo,” Corriere di Ragusa dell’11 Aprile 2018
(6) Nel comunicato stampa “Import/export cerealicolo in Italia nell’intero anno 2017” dell’Associazione Nazionale Cerealisti, viene riportato che sono stati spesi 548,3 milioni di euro per importare 2.098.894 di tonnellate di grano duro.
(7) “Arance Siciliane,” Umanità Nova, numero 5 del 21 Febbraio 2016
(8) Il territorio ennese, stando ai dati Istat su Agricoltura e Zootecnia del 2017, produce 1.471.312 quintali di produzione raccolta su 51.625 ettari coltivati a grano duro. Più di tre quarti di questi ettari sono coltivati con i grani duri destinati alla produzione della Pagnotta del Dittaino DOP.
(9) “Quanto costa un detenuto. Raddoppiano le quote di mantenimento,” Il nuovo Carte Bollate, numero 6, Novembre-Dicembre 2015 e “Il lavoro di un detenuto vale 2,50 euro l’ora,” Carte Bollate, 1 Marzo 2016.
(10) I dati riportati da Cerruti nei due articoli citati nella nota 9 sono confermati anche dal dossier di Openpolis, “Dentro o fuori – Il sistema penitenziario italiano tra vita in carcere e reinserimento sociale” del Novembre 2016
(12) Nell’articolo “Vita da camerieri” de I Siciliani Giovani (14 Aprile 2018), vengono riportate le testimonianze di camerieri e cameriere nei ristoranti e bar di Catania dove sfruttamento, avvilimento e minacce di licenziamento sono all’ordine del giorno.