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Ristrutturazione in Stellantis

Ristrutturazione in Stellantis

Dopo il licenziamento politico del delegato Cub a Cassino e gli scioperi a Mirafiori e Pomigliano torniamo a comprendere le strategie industriali del gruppo ex Fiat. Espulse le avanguardie di fabbrica, delocalizzate le produzioni, dopo anni di mancati investimenti tecnologici e produttivi cosa resta della produzione italiana di auto?

Generosi finanziamenti pubblici non hanno fermato il lento declino della produzione ex Fiat che oggi esce con le ossa rotte dalla alleanza con Renault in Stellantis. Tagli occupazionali, richieste di sussidi statali e grave ritardo nella innovazione tecnologica, dopo anni di delocalizzazioni i nodi vengono al pettine…

Se vogliamo capire cosa va accadendo nel settore meccanico e automobilistico iniziamo a guardare oltreoceano. Dagli Usa arriva il processo di contenimento della produzione e di riduzione del personale che poi si estende rapidamente al vecchio continente, in Italia, con il licenziamento temporaneo a Mirafiori di migliaia di operai che operano sulle linee Maserati e Fiat e il ritorno dei licenziamenti politici con svariati motivi (scarsa produttività, il venir meno del rapporto di fiducia aziendale, mancato rispetto di circolari e ordini di servizio…), la presenza di Stellantis si materializza nella classica veste repressiva.

La catena industriale delle 4 ruote viene attraversata da feroci processi di ristrutturazione all’insegna della transizione energetica e dell’auto elettrica ma anche da continue richieste di finanziamenti pubblici e statali che poi, per Stellantis, rappresentano una costante da più di 40 anni.

Qualche giorno fa Reuters pubblicava un articolo impietoso sull’operato di Stellantis, articolo poi ripreso in Italia da Scenari Economici, ove si evidenzia che il tasso di utilizzo della capacità produttiva del gruppo nelle sue fabbriche europee si è attestato al 56%, in netto calo non solo rispetto al 64% del 2019 ma assai inferiore alla capacità produttiva di Volkswagen (71%).

Sarà la tradizionale competizione tedesca con Italia e Francia a scatenare la critica della stampa renana ma si punta direttamente il dito sui sussidi offerti negli Usa da funzionari statali e federali per non chiudere uno stabilimento Jeep in Illinois; dal canto suo Stellantis avrebbe chiesto un pacchetto di finanziamenti al Governo Italiano sotto forma di incentivi statali per l’acquisto di veicoli elettrici, tagli ai costi dell’energia e investimenti per potenziare la rete di ricarica dei veicoli elettrici. A distanza di pochi anni dalla nascita del marchio Stellantis, in Francia si producono circa 700 mila auto in più della ex Fiat e gran parte delle stesse sono tecnologicamente avanzate. Qualora il Governo italiano volesse riequilibrare la produzione dovrà sborsare cifre considerevoli sotto forma di aiuti economici al gruppo.

Quando, mesi or sono, discutevamo degli scioperi statunitensi nelle fabbriche produttrici autovetture si evidenziavano 3 aspetti:

  • non eravamo davanti alla nascita di un movimento operaio combattivo e conflittuale né tanto meno di una svolta radicale del sindacalismo statunitense
  • la mobilitazione scaturiva dalla erosione salariale che in 30 anni aveva quasi dimezzato lo stipendio nelle fabbriche indebolendo anche i contributi aziendali alla sanità e previdenza integrativa…insomma la situazione era divenuta insostenibile.
  • le grandi aziende avevano concesso aumenti salariali solo dopo lunghi scioperi per partire poi, nelle settimane successive alla fine dello stato di agitazione, con riduzioni produttive, esuberi, licenziamenti…

Con il senno di poi, anche senza grande sforzo, possiamo asserire che la vittoria degli operai statunitensi è stato preludio alla loro sconfitta, smobilitate le lotte sono partiti i licenziamenti proprio quando gli scioperi iniziavano ad aprire contraddizioni nelle politiche commerciali e produttive dei principali marchi di autovetture e rappresentavano un esempio per molti altri settori che stavano subendo feroci ristrutturazioni. Disinnescare gli scioperi diventava allora vitale per il capitale Usa ma anche per il sindacato, che per sua natura negli Usa è ultra-corporativo, e per lo stesso Partito Democratico, il quale poteva ergersi a paladino degli operai in presenza di qualche accordo firmato alla vigilia delle primarie Presidenziali, sperando di riconquistare un bacino di voti (almeno negli ultimi anni) passato negli anni ai Repubblicani.

Queste considerazioni dovrebbero essere completate da analisi specifiche sull’auto elettrica, sui ritardi dei marchi occidentali rispetto a quelli cinesi, sulla crisi tedesca, sulla reinternalizzazione della produzione di alcuni componenti negli Usa, ma limitiamoci invece alle questioni essenziali focalizzando l’attenzione sul rapporto tra crescita esponenziale dei profitti e politiche di smantellamento industriale

A 20 miliardi di dollari ammontano i profitti di Stellantis nel 2023 che, nel secondo semestre dell’anno passato, sono passati da 12,16 miliardi di dollari del 2022 a 10,96 proprio a causa degli scioperi.

Eppure, sempre nello scorso autunno, i dividendi tra gli azionisti di Stellantis sono cresciuti mentre è stata ridotta la quota di partecipazione agli utili destinata ai lavoratori statunitensi.

Quindi i profitti si mantengono elevati, le operazioni di borsa redditizie ma oltre 5 mila lavoratori Stellantis sono stati esclusi dalla partecipazione agli utili con tanto di accordo sindacale (parliamo dei lavoratori temporanei e dei dipendenti supplementari). Il pagamento medio della partecipazione agli utili è calato del 6% nel 2023 rispetto al 2022, a diminuire è non solo l’importo ma anche il numero effettivo dei beneficiari.

Sarebbe sufficiente questo elemento, oltre ai licenziamenti partiti dopo la fine dello sciopero, per trarre un giudizio meno entusiastico sull’operato del sindacato statunitense o coltivare pie illusioni sul ritorno di una classe operaia conflittuale che manca negli Usa da quasi 100 anni.

800 milioni di dollari di profitti nei mesi dello sciopero ma le mosse successive di Stellantis non sono dettate dalla rivalsa verso il sindacato quanto invece dai processi di ristrutturazione che la mobilitazione operaia ha solo in parte considerato per volontà sindacale.

Il CEO di Stellantis ha affermato che il 2024 sarà migliore in termini di risultati e profitti dell’anno precedente, stando alle prime settimane dell’anno queste dichiarazioni appaiono alquanto avventate.

Il programma di riacquisto di azioni dell’azienda per i massimi dirigenti e gli azionisti facoltosi supera di gran lunga la partecipazione agli utili e i bonus destinati a operai e impiegati, i profitti alla fine saranno anche conseguenza della chiusura di alcune linee produttive, dell’abbattimento dei costi; analogo discorso vale per le mancate assunzioni di personale interinale e a tempo determinato, per la chiusura di produzioni in ogni continente. Un capitolo specifico merita invece la incessante richiesta dei gruppi agli stati nazionali, dove sorgono i loro stabilimenti, aiuti anticrisi tra ammortizzatori sociali, sgravi fiscali, detassazioni di vario genere. Reuters accusa Francia e Italia di aiuti fin troppo generosi alle aziende nazionali ma stando ad altre statistiche di un anno fa sarebbero proprio, in ordine di aiuti, Germania, Francia ed Italia a elargire maggiori finanziamenti pubblici.

La transizione verso i veicoli elettrici è tutt’altro che semplice e lo è soprattutto per i marchi meno attenti agli investimenti tecnologici e ai processi innovativi.

Dai giornali Usa si apprende del licenziamento in blocco del terzo turno nello stabilimento di Detroit, tagli considerevoli anche nel complesso di assemblaggio di Toledo ed esuberi arrivati anche in Europa, a Mirafiori e a Mulhouse, nella Francia orientale.

I vertici di Stellantis devono raggiungere la contrazione dei costi per la produzione della macchina elettrica al fine di vendere i veicoli elettrici allo stesso prezzo delle auto con motore a combustione; quanto riesce alla Cina sembra invece non essere ancora alla portata di Stellantis che, per raggiungere l’obiettivo di contenimento delle spese, taglierà migliaia di posti di lavoro automatizzando alcune linee. Ma prima dell’avvento dei robot, intanto, la vecchia e sempre verde (il colore non è casuale) soppressione dei posti di lavoro e delle linee produttive meno attrattive sul mercato restano le soluzioni più facili da perseguire. E quindi aspettiamoci migliaia di tagli occupazionali e di licenziamenti politici e un ricatto costante ai Governi nazionali di accordare maggiori aiuti alle imprese se non vogliono trovarsi alle prese con plessi industriali delocalizzati o chiusi per la carente richiesta dei mercati.

Federico Giusti

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