di Daniele Ratti
I noti fatti del carcere minorile Beccaria di Milano dell’8 marzo scorso, da cui l’arresto di 13 agenti della Polizia Penitenziaria e la sospensione dal servizio di altri 8, per le accuse di tortura, maltrattamenti aggravati, lesioni e falso, sono un anello di una lunga catena di abusi che da tempo si verificano sul territorio milanese da parte delle “autorità costituite” nei confronti degli ultimi della scala sociale. In questa casella possiamo mettere i pestaggi nel CPR di via Corelli, l’aggressione a Bruna, donna transessuale manganellata dalla vigilanza urbana, ed ora alla sistematica violenza da parte della polizia penitenziaria nei confronti di minorenni o poco più che maggiorenni, che dovrebbero essere ospiti di un centro di “rieducazione e reinserimento nel contesto sociale”.
Per rendere subito chiaro il clima all’interno dell’Istituto, riportiamo alcune testimonianze finora emerse sugli organi di stampa. Gli agenti parlavano di “schiaffi paterni”, botte “educative” a detenuti che “se le sono meritate”; si vantavano per “mazzate” e “palate”, anche con metodi che permettevano di “non lasciare un segno addosso”. Le testimonianze ricostruiscono un collaudato “metodo educativo per i ragazzini detenuti”. Tutti sapevano che al Beccaria “era normale essere picchiati”. Come emerge dalle intercettazioni si passava dallo schiaffo, alla tortura, a lesioni, sputi, minacce, calci, pugni, bastonate, cinghiate, fino al tentativo di stupro. Dalle fonti di stampa apprendiamo che: ”C’erano agenti che in gruppo, anche di venti, infierivano su ragazzini ammanettati dietro la schiena, “perché così era impossibile per loro parare i colpi con le mani”. Botte date con tale violenza che fanno dire a una minorenne: <Hanno spaccato un mio amico (…), giuro, c’aveva qua sul labbro l’impronta della suola degli anfibi. Sanguinava dalla bocca ed era tutto gonfio>. Ed era talmente noto a tutti il “metodo educativo degli agenti” che i giovani detenuti fra loro si organizzavano, c’era chi si copriva “con tanti vestiti a strati perché così sentiamo meno male”. Le relazioni di servizio “metodicamente sistemate” attestavano azioni di contenimento, per bloccare ragazzi aggressivi.
La realtà dipinta dall’ordinanza del gip Stefania Donadeo, che ha disposto arresti e sospensioni per le torture inflitte ai detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, è quella di un “clima infernale” lontano dalla funzione rieducativa della pena. Il sistema è abituato ad anestetizzare tali fatti ricorrendo alla narrazione della “mela marcia” ovvero all’errore del singolo, al comportamento non corretto dell’individuo, quasi che l’eventuale sanzione possa emendare l’intera vicenda addossando l’esclusiva colpa ad un comportamento occasionale. Ma qui è evidente che questa narrazione non potrà essere utilizzata per la portata del fenomeno emerso dalle indagini. Né possono sanare o mitigare la vicenda le scuse e l’offerta di eventuali risarcimenti, rappresentate in questi giorni da alcuni agenti di custodia protagonisti dei fatti. La questione si pone in altri termini: bisogna chiedersi in quale contesto è potuto configurarsi tale comportamento, che a quanto pare non è stato episodico, ma costituiva un vero e proprio metodo. Per tale ragione ci pare opportuno fare una serie di osservazioni, avvalendoci delle informazioni che il rapporto dell’associazione Antigone da anni redige sulla condizione carceraria, per individuare le cause che hanno nei tempi recenti determinato tale situazione.
Al di là delle croniche criticità del sistema carcerario, minorile compreso, riteniamo che Il Decreto Caivano ha rappresentato una sostanziale e negativa svolta. Il provvedimento abbassa infatti da 9 anni a 6 anni la pena massima richiesta “per procedere con il fermo, l’arresto in flagranza e la custodia cautelare dei maggiori di 14 anni per delitti non colposi”. Precedentemente la custodia cautelare era prevista esclusivamente per illeciti di grave entità, quali l’omicidio con pene di circa 9 anni, ora questa possibilità viene estesa anche a reati minori, come una rapina aggravata. Non solo. Il decreto prevede che fermo, arresto e custodia cautelare nei confronti del minore possano essere disposti anche per altre ipotesi di reato specifiche: furto aggravato, porto di armi od oggetti atti a offendere, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, resistenza a un pubblico ufficiale, produzione e spaccio di stupefacenti. Un’altra novità è che la pena massima dei reati per i quali il minorenne può essere portato in caserma o in commissariato scende da cinque a tre anni.
L’inasprimento della pena risponde ad una logica di fondo, quella di usare la punizione come metodo educativo. Queste misure rientrano tutte in una logica di contenimento sociale, di argine repressivo che esclude radicalmente una scelta educativa formativa, e pertanto inclusiva, nella comunità del minore. Di fronte ai problemi della tossicodipendenza, invece di intervenire sui servizi sanitari, potenziandoli, e sull’educazione a scuola, si è scelto la via della repressione carceraria. L’azione repressiva porta all’aumento degli arresti di minori che consumano sostanze psicotrope anche leggere e talvolta sono coinvolti solo occasionalmente con lo spaccio, determinando un grande afflusso di giovani in carcere anche in fase cautelare, spesso per vicende di lieve entità.
Ad aggravare la situazione vi è stata anche la possibilità da parte del direttore dell’IPM (Istituto Per Minori) di promuovere il trasferimento del giovane a un carcere per adulti. Qualora ci si trovi ad affrontare un ragazzo detenuto di difficile gestione, cosa che è assai frequente, la risoluzione viene trovata “spostando” il problema su altra struttura, piuttosto che farsi carico della sua gestione come dovrebbe essere, con il passaggio al modello carcerario degli adulti. La cosa è particolarmente grave se consideriamo che molto spesso i minori sono stranieri non accompagnati, con disturbi comportamentali, problemi di dipendenze da sostanze, psicofarmaci e alcool, solitudine, hanno subito violenze durante i percorsi migratori per cui presentano problematiche assai complesse. Ragazzi con vissuti estremamente faticosi alle spalle, quindi facilmente portati, più che altri, ad esprimere il loro malessere attraverso comportamenti disturbanti. Capita allora che il giovane entri in carcere con l’accusa di un singolo reato e ne collezioni, in un ambiente che sente tanto estraneo quanto ostile, molti altri (oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, rissa, rivolta), entrando pertanto in un circolo vizioso che, se non verrà interrotto da una situazione stabile rivolta all’ascolto e al sostegno, porterà solamente a incancrenire la sua posizione. Al compimento del diciottesimo anno d’età alcuni direttori se ne liberano definitivamente mandandoli nel sistema degli adulti, quello che evidenzia problematiche ancora più complesse considerato che nei primi quarantacinque giorni del 2024 ha cumulato già 20 suicidi.
Per effetto del decreto Caivano, dall’inizio del 2024, ci sono circa 500 detenuti nelle carceri minorili italiane, il dato più alto degli ultimi dieci anni. Altra conseguenza del decreto è l’aumento degli ingressi in IPM per violazione della legge sugli stupefacenti, con un incremento del 37,4% su base annua. Da notare la composizione geografica delle segnalazioni dei minori, dato che aiuta a comprendere la natura sociale del fenomeno. Il numero delle denunce verso i minori è costante nel tempo, cambia però la geografia. Il record si registra nel nord ovest con circa 10 mila denunce, anche se il Sud detiene comunque un significativo primato di presenze di istituti di detenzione e quasi metà dei ragazzi in IPM, per la precisione il 48,8% dei presenti, è detenuto tra Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata e Campania. Una possibile spiegazione è nel costo della vita del nord, che ha pesantemente gravato su chi è sempre meno garantito dal welfare. L’aumento del costo della vita, nonché la privatizzazione di alcuni servizi pubblici, fenomeno che ha avuto maggiori ripercussioni nel settentrione che altrove: in questi territori, tradizionalmente più assistiti dalla rete welfare, si è avvertito maggiormente che altrove la contrazione delle prestazioni assistenziali che ha reso più difficile ad alcune fasce di popolazione di accedere ad una serie di servizi fondamentali nella vita di tutti i giorni. Si è maturato pertanto un senso di frustrazione, soprattutto nelle aree urbane in cui negli ultimi anni vi è stata una crisi del sistema delle garanzie sociali, favorendo per contro l’insorgere di condotte problematiche le quali vengono alimentate dalla consapevolezza di avere meno di altri. I fenomeni di esclusione sfociano in atteggiamenti aggressivi, ad esempio è emerso che dal 2021 in poi vi è stato un aumento delle segnalazioni per rissa, lesioni personali o percosse, che hanno sempre più coinvolto minori non accompagnati lasciati soli. Agli stranieri si offrono meno opportunità, la riprova della marginalità lo troviamo nell’analisi dei numeri relativi a ragazze e ragazzi stranieri, che ci consente di rilevare un dato incontestabile: chi può contare su reti sociali e famigliari a prescindere dalla gravità del reato, ha più facile accesso ai percorsi che dovrebbero evitare le restrizioni del sistema penale. Al 31 dicembre 2023 dei 496 detenuti presenti in IPM 269 erano stranieri, addirittura il 54,2% del totale. A mano a mano che la misura diventa più contenitiva la percentuale di stranieri si alza.
In conclusione solo due dati, dei tanti che abbiamo indicato, possono rendere chiara la situazione ovvero l’opzione di “PUNIRE PER EDUCARE”: la scelta univoca della detenzione si rispecchia nei 1.143 ingressi negli IPM nel 2023, la cifra più alta almeno negli ultimi 15 anni, così come il 68,5% dei minori è recluso senza una condanna definitiva, trasforma gli IPM in un confino punitivo. La detenzione minorile è lo specchio della diseguaglianza e delle marginalità dell’attuale condizione sociale.