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Prospettiva realizzabile o luogo comune?

Prospettiva realizzabile o luogo comune?

may-day-photo-18Vale la pena di ragionare sugli ultimi “scioperi generali” del sindacalismo di base da un punto di vista parzialmente diverso rispetto a quello sviluppato in precedenza.
Da più parti e con molta energia a proposito degli scioperi del 21 Ottobre e del 4 Novembre è stato infatti sollevato il tema dell’unità, quantomeno nelle mobilitazioni, del sindacalismo di base, obiettivo certo auspicabile ma che non basta, ovviamente, invocare.
Una mobilitazione unitaria, infatti, laddove la si intenda propriamente come una convocazione unitaria su di una piattaforma condivisa, presuppone un pieno accordo sugli obiettivi che ci si dà e sulle parole d’ordine che si sollevano.
Per stare al caso specifico del 21 Ottobre e del Novembre, da una parte USB ha legato strettamente la sua iniziativa alla campagna sul referendum delle forze politiche con cui cerca un’interlocuzione, con l’effetto di negarne il carattere propriamente di classe e di renderla subalterna a tali forze, per l’altro, la CUB, SGB e USI AIT hanno, come abbiamo ricordato, assunto una posizione inequivoca sulla questione dell’esercizio delle libertà sindacali e del diritto di sciopero.
Sembrerebbe, se si pone così la questione, che il discorso sia chiuso e che la spaccatura nel campo del sindacalismo di base sia, almeno per il prossimo periodo, irrecuperabile.
Proviamo ora a valutare la questione da un punto di vista meno formale, ripartendo da quanto detto sulla natura stessa dello sciopero.
Se pensiamo allo sciopero come al mero schieramento dei lavoratori organizzati nei singoli sindacati, che siano quelli concertativi, quelli neo-concertativi o quelli classisti e radicali, ne consegue linearmente che è opportuna la massima distinzione fra i soggetti che promuovono lo sciopero, proprio al fine di permettere, mi si conceda la battuta, la miglior contabilità possibile.
Se si pensa invece allo sciopero come a un’esperienza vitale, come a un processo trasformativo, complesso e contraddittorio, come a un eccesso dei fini sulle cause e cioè come a un evento che ha come prima caratteristica e come obiettivo di chi lo promuove quelli di suscitare nuove energie, allora è necessaria una prassi radicalmente diversa.
In concreto quello che conta nello sciopero non è tanto quanto si è nel passato organizzato, l’insediamento consolidato, la struttura organizzativa – che pure non vanno sottovalutati, ma, e soprattutto, quanto si mette in movimento, le nuove relazioni che si attivano, i soggetti individuali e collettivi che si intercettano, i nuovi scenari che si aprono.
Ancora una volta, se consideriamo lo sciopero dal punto di vista dell’arte della guerra, si tratta di occupare nuovi territori, di scompaginare le fila dell’avversario, di attrezzare le proprie forze in senso offensivo e non statico.
Ora, se guardiamo alla nostra prassi consolidata, è esattamente quello che facciamo, magari in maniera irriflessa e senza un’adeguata tematizzazione, quando animiamo delle lotte aziendali, categoriali, territoriali; in quel momento non chiediamo ai lavoratori che entrano in movimento la loro appartenenza sindacale e, se settori sindacali diversi da noi e magari collocati su posizioni lontanissime dalle nostre sostengono per loro ragioni la lotta, riteniamo che loro – e non noi – sono in contraddizione ed anzi guardiamo con interesse al possibile consolidarsi in partibus infidelium di un orientamento classista e radicale.
Questa prassi è il prodotto di una molteplice attenzione, quella al consolidamento di un’area di opposizione sociale forte e coesa e quella all’allargamento del fronte ed all’arricchimento della pratica delle lotte e degli stessi obiettivi sui quali si entra in movimento.
Ancora una volta, bisogna insistere sulla necessità di non essere schiavi di un modello mentale che ci fa vedere gli schieramenti in campo come degli eserciti strutturati e cogliere appieno il fatto che è la lotta stessa che produce, modifica, seleziona, mette alla prova i soggetti in campo. Nella lotta verifichiamo la qualità, la tenuta, la stessa utilità dei soggetti organizzati che vi partecipano, e dal nostro punto di vista il loro essere strumenti utili all’autorganizzazione della classe o semplici apparti volti alla propria autoriproduzione.
Se l’approccio sin qui proposto ha un senso, e mi sembra che lo abbia a meno che non immaginiamo la crescita del sindacalismo di base come una mera accumulazione lineare di forze da seguire con un approccio meramente contabile, si deve puntare alla rottura degli equilibri dati e non al loro consolidamento.
In concreto, uno sciopero generale del sindacalismo di base si deve porre, mi si passi una seconda battuta, come minimo sindacale l’obiettivo di avere un impatto sulla produzione e sulla circolazione delle merci e delle persone, e di modificare gli equilibri nel campo sindacale stesso, e qui mi riferisco non al ristretto campo del sindacalismo di base, ma all’intero movimento di classe.
Si tratta, in altri termini, di avere l’ambizione di produrre eventi significativi e non consolidati rituali, eventi la cui efficacia si misura in termini di crescita quantitativa, di radicamento, di allargamento della propria sfera di relazioni ed interlocuzioni e, nel contempo, di innovazione sul piano delle proposte e delle prassi.
Se, infatti, un “merito” dobbiamo riconoscere ai nostri avversari è la capacità di innovazione, di adattamento, di sperimentazione. Oltre un secolo e mezzo di storia del capitalismo e della lotta di classe ci mostrano un modo di produzione che non solo ha subito ma ha saputo mettere a frutto crisi, difficoltà, contraddizioni ed ha saputo rinnovarsi attraverso dei veri e propri salti di paradigma produttivi e sociali. Immaginare la lotta sindacale come la ripetizione di prassi consolidate e rassicuranti significa, di conseguenza, condannarsi allo scacco.
D’altro canto basta guardare alle lotte attualmente esistenti, a quelle che ottengono risultati e nel contempo producono identità, mito, narrazione, entusiasmo, per rendersi conto dell’esattezza di questa asserzione.
Tornando alla questione delle iniziative “unitarie”, ritengo che l’errore peggiore sia l’impiccarsi ad un’opzione, si tratta di valutare caso per caso individuando le soluzioni più opportune e tenendo conto di quella che può sembrare un’affermazione retorica, e che in alcuni casi lo è ma non sempre: che laddove si abbia chiarezza negli obiettivi e coerenza nelle forme d’azione e nelle proposte non si deve temere l’allargare il fronte e costruire interlocuzioni con soggetti a cui non si è omogenei ed anzi ci si deve porre l’obiettivo di esercitare sul terreno del conflitto e dell’iniziativa un’effettiva egemonia.
Non va poi sottovalutato un altro fatto di non poco conto: uno dei rischi maggiori che corrono i militanti, in qualsiasi aggregato svolgano la loro militanza, è il considerare il dibattito in cui si sono formati, i riferimenti che hanno, la loro stessa storia, come una realtà auto-evidente, immediatamente comprensibile al di fuori del loro ambiente.
Pensiamo, a questo proposito, all’accordo del 10 Gennaio 2014; ogni volta che se ne ragiona si pone l’accento sul fatto che la grande maggioranza dei lavoratori non è adeguatamente informata nel merito, sia perché la nostra capacità di produrre informazione è obiettivamente limitata, sia perché la questione delle libertà sindacali non è esattamente al centro dei loro pensieri.
Fatte queste sensatissime considerazioni, molti, troppi compagni tornano serenamente a comportarsi come se vivessimo in un mondo felice in cui lavoratori sono adeguatamente informati su quest’ordine di questioni e, di conseguenza, in grado di formulare nel merito un’opinione fondata ed articolata, con l’effetto di trasformare un obiettivo politico-sindacale fondamentale ma tutto da conquistarsi in un dato acquisito dal quale prendere le mosse, quando sappiamo benissimo, per quotidiana esperienza, che non è affatto scontato che il compagno di lavoro che abbiamo al nostro fianco sia interessato a rimarcare, a cogliere la differenza fra sindacalismo di classe e sindacalismo concertativo.
Si tratta, insomma, e ancora una volta, di verificare nel vivo del conflitto e della mobilitazione l’efficacia delle nostre proposte e di affrontare la stessa battaglia delle idee nei confronti, in particolare, dei settori neo-concertativi di quello che si voleva una volta sindacalismo di base, opponendo pratica a pratica e non manifestazione a manifestazione.
Cosimo scarinzi


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