Società dei consumi e consumismo sono termini usati spesso per descrivere la società attuale. Non sono termini nuovi: si affermano in ambito sociologico a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso ed hanno ispirato molte letture critiche, da H. Marcuse a J. Baudrillard. La critica del consumismo e della società dei consumi assume spesso una valenza etica e moralistica, e si traduce in rampogne contro la degenerazione dei costumi: sono abbastanza vecchio per ricordarmi compagni anziani brontolare contro i giovani che pensavano solo all’automobile e alla televisione, prima del ‘68.
Il termine consumismo, in quanto fenomeno economico-sociale si identifica con la società dei consumi, in quanto elemento alla base, fra gli altri, dell’immaginario collettivo dominante, mantiene una sua vitalità anche se, alla luce della critica dell’attuale formazione economico-sociale, l’immaginario è essenzialmente l’aspetto ideologico della società, in particolare l’illusione, per la gran massa degli sfruttati, di poter raggiungere un giorno una vita dignitosa nell’ambito del modo di produzione capitalistico. Questo approccio, ovviamente, si basa sulla critica dei concetti di consumismo come fenomeno sociale e di società dei consumi.
Quest’ultimo concetto può avere una corrispondenza con la realtà se diamo al termine “società dei consumi” un valore equivalente al processo di mercificazione che accompagna il capitalismo; processo che sostituisce ai tradizionali rapporti di dominio e di subordinazione personale, rapporti giuridicamente egualitari e liberi, mediati dallo scambio. In nessun caso però bisogna credere che scopo del capitalismo sia la produzione di beni e servizi di massa; ogni capitalista, sfruttando la proprietà dei grandi mezzi di produzione e di scambio, organizza la produzione per il proprio profitto individuale, che è la forma iniziale che assume l’appropriazione di plusprodotto da parte delle classi privilegiate nella società attuale; profitto che trae origine nel tempo di lavoro non pagato estorto ai produttori reali, e che cresce col crescere di questa parte di tempo di lavoro.
Da questo deriva che la miseria morale e materiale in cui vivono le immense masse proletarie, in particolare lo strato più numeroso della classe operaia, non è la conseguenza della “crisi”, ma la premessa e la conseguenza della crescita capitalistica, che è innanzi tutto crescita della massa di pluslavoro estorto alla classe operaia. Quindi ogni politica che si basi sui sacrifici, sull’austerità o sulla sobrietà, o comunque si voglia abbellire moralisticamente il peggioramento delle condizioni di vita degli sfruttati, è funzionale alla crescita dell’accumulazione capitalistica, all’arricchimento e all’accaparramento da parte delle classi privilegiate.
Lo dimostra la stessa economia politica capitalistica, quando sentenzia che, con popolazione e forza di lavoro stazionarie, l’aumento di reddito dell’uno per cento per anno richiede una percentuale di risparmio del 16-20% all’anno: in altre parole, la crescita economica ha bisogno della riduzione dei consumi, e non, come credono i riformisti e gli economicisti, di un loro aumento. Le idee che lavoratori e capitalisti abbiano interessi comuni negli aumenti salariali, e che l’aumento del reddito delle classi sfruttate risolva i problemi di sovrapproduzione dell’economia capitalistica sono solo illusioni che nascono da una critica superficiale dei meccanismi della riproduzione allargata.
Il processo di riproduzione allargata è quello in cui i ripetuti cicli della produzione (per cui si parla di “riproduzione”) generano un sovrappiù del capitale, reinvestito alla fine di ogni ciclo. Lo schema teorico divide il sistema economico in due settori, l’uno destinato alla produzione di mezzi di produzione, l’altro destinato alla produzione di beni di consumo, e descrive un’ipotetica situazione di equilibrio con una produzione in crescita; al di là dei complessi e non sempre precisi calcoli, lo schema mostra come ogni crescita del settore dei beni di consumo richieda una maggiore crescita del settore dei mezzi di produzione. Lo schema astratto quindi mostra come la crescita esponenziale della produzione capitalistica si accompagni alla compressione della produzione del settore destinato alla produzione di beni di consumo. L’elaborazione teorica riflette efficacemente quanto avviene quotidianamente sotto i nostri occhi, con la disoccupazione e la miseria crescente provocate dalle politiche di austerità.
Se questa analisi è corretta, il miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari non si ottiene solo aumentando il reddito disponibile, ma soprattutto cambiando di segno la produzione, spostando risorse e forze produttive dal settore che produce mezzi di produzione a quello che produce beni di consumo. Un aumento di reddito da solo non farebbe scaturire dal nulla i beni e i servizi destinati a soddisfare i bisogni compressi dei ceti popolari, e si tradurrebbe solo in un aumento del prezzo di quelli disponibili. Solo un intervento dispotico all’interno del processo di produzione, che ne scardini i rapporti di produzione e di proprietà, ad opera degli organismi dei lavoratori, può porre fine a questa spirale di produzione e miseria crescenti. Ogni altra forma di decrescita, che non preveda l’intervento diretto degli organismi operai e l’abolizione della proprietà privata, è un’illusione.
L’esperienza storica ci insegna che quest’opera, affidata ad uno Stato o a un governo, fallisce e, prima o poi, porta alla restaurazione del capitalismo; un nuovo modello di produzione in cui i produttori reali,i proletari e in particolare la classe operaia abbiano la gestione del processo di produzione può nascere solo attraverso gli strumenti dell’autorganizzazione e del federalismo.
Tiziano Antonelli