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Pandemia e povertà

Pandemia e povertà

Post pandemia e crisi economica:  chi pagherà lo scotto?

Non abbiamo visto ancora niente! Questo è il mantra che serpeggia da un po’ di tempo, da quando cioè il lockdown ha cominciato a presentare il conto e gli aiuti promessi tardano a rimpinguare le tasche di una parte consistente del corpo sociale. Stiamo in qualche modo scampando all’attacco diretto della pandemia – stando a quanto si evince dai dati ufficiali su contagi, decessi e guarigioni – ma quello che la fase acuta si sta lasciando dietro, oltre ad un elevato numero di morti che in molti casi potevano essere, è una situazione sociale disastrosa; siamo però solo all’inizio.

Presi tra l’incudine di una stagnazione cronica ed il martello del mercato del debito, stiamo letteralmente navigando a vista. Andiamo per ordine cercando di riannodare un filo “logico” dettato dalla follia lucida dell’ideologia capitalista.

Inutile ricordare che non siamo piombati nell’emergenza coronavirus provenendo da un periodo di florida prosperità, anzi ci siamo arrivati attraverso una stagnazione lunga 12 anni.

La crisi globale che stiamo attraversando si sta abbattendo su un sistema socioeconomico già prostrato dalle purghe dell’austerity e sterilizzato nelle sue dinamiche di coesione sociale dal mantra neoliberista, del mors tua vita mea. Una situazione del genere non potrà che produrre non solo disoccupati ed attività irrimediabilmente chiuse ma, inoltre, inasprirà il conflitto all’interno del corpo sociale, scaricando la colpa come sempre sugli ultimi: non è un caso che appena si sia proposta la regolarizzazione dei braccianti agricoli ci sia stata una levata di scudi.

I motivi reali per questo diniego non sono sicuramente quelli populisticamente addotti dalle “opposizioni” al Governo Conte-Confindustria: il problema è che il sistema stesso non può ammettere un innalzamento del costo del lavoro in un settore come quello agricolo, nel quale il prezzo corrisposto al produttore diretto è talmente basso che una regolarizzazione in queste condizioni è semplicemente improponibile se si permane nel meccanismo predatorio della GDO. È la logica della grande distribuzione, una filiera di vendita basata su sprechi calcolati sia in entrata che in uscita, il tutto unito alla voracità crescente delle grandi catene di distribuzione che controllano quasi quasi il 75% di tutto il cibo, il che rende la GDO un monopolista che determina una forbice folle tra il costo sul campo ed il prezzo finale sul banco di vendita; in media i supermercati incassano una quota sul prezzo finale al consumo di quasi il 50%, mentre agli agricoltori e ai lavoratori va meno dell’8%.

Come ogni fenomeno complesso anche la recessione economica è determinata da numerosi fattori: certo il lockdown ha interrotto di colpo le attività ma è stato solo il colpo di grazia per molte imprese e chi prima dell’emergenza Covid-19 stentava a far quadrare i conti ha dovuto gettare la spugna. Anni di tagli alla spesa pubblica hanno avuto un riflesso su tutte quelle attività che contavano sulle commesse del settore pubblico ma l’austerity non vuol dire solo tagli, vuol dire anche innalzamento della pressione fiscale generalizzata, soprattutto sui consumi.

In un momento nel quale viene meno il reddito forse ridurre le imposte sul consumo potrebbe ridare potere d’acquisto a redditi erosi dalla precarietà o distrutti dal lockdown o, verosimilmente, fornire un maggiore potere d’acquisto ai risparmi, che per alcuni sono l’ultima risorsa disponibile. […] Se le stime del 2019 riportavano che nella fascia di reddito sotto i 15.000 € si collocava il 45% dei contribuenti e con una tassazione al consumo (IVA) che pesa mediamente 1700€ all’anno, per il 70% dovuto all’aliquota al 22%, quindi per i beni ordinari, per un 27% per beni primari tassati al 10% e il restante 3% è costituito per i beni e servizi di prima necessità tassati al 4%; sono poco meno di due mesi di salario che vanno in tasse al consumo. Viene da chiedersi per quale motivo si preferisce indebitarsi con l’UE per sostenere la domanda di beni e servizi invece di avere una visione strategica di un minor gettito fiscale derivante dalle imposte sul consumo aumentando il potere d’acquisto in maniera generalizzata così da accrescere la domanda. Sono ovviamente necessari gli aiuti e gli ammortizzatori sociali, (reddito di cittadinanza, reddito di inclusione, cassa integrazione ecc.) ma potrebbero essere in qualche misura ridotti nella consistenza, quindi aumentati nel numero. Il vantaggio potrebbe derivare da un innalzamento dei consumi quindi da una lieve crescita della produzione.

Questi sono meccanismi del tutto compatibili con il sistema economico nel quale viviamo, dunque la preferenza per un forte indebitamento risulta incomprensibile se non si introduce nel discorso la convenienza di avere un paese indebitato, quindi più docile e supino ai saccheggi dei mercati e di quei soggetti come la Germania, che non è nuova ad approfittare delle crisi per acquisire pezzi di produzione di altri paesi. […]

Se da un lato è più che umano chiedere soldi per poter vivere, dall’altro questa richiesta, se soddisfatta con gli strumenti tipici della finanziarizzazione del debito, riproporrà in maniera assai più pesante la necessità della svendita di ciò che resta del patrimonio pubblico e gli appelli alla ristrutturazione della sanità saranno disattesi nella misura in cui verrà probabilmente compiuto l’assalto finale all’ultimo simulacro di welfare rimasto.

La situazione appare fosca e inquietante, soprattutto se negli interventi messi in atto dal Governo non appaiono la cancellazione delle imposte almeno per i mesi di chiusura; vi appare invece una dilazione o uno slittamento, il che non fornisce molte vie d’uscita soprattutto al tessuto minuto di piccoli esercenti e microimprese che vedono spesso rifiutarsi l’accesso al credito, pur con i buoni propositi da 25.000 euro sbandierati nei vari proclami del Primo Ministro. Il copione si ripete: il sistema bancario sarà il “tramite” attraverso cui dovrebbero essere elargiti i fondi d’emergenza, peccato che le banche nostrane nei fatti detengano un terzo del debito statale, il che le rende assai più di un semplice elemento di trasmissione ed erogazione dei fondi. L’economia finanziaria legata al debito fa sì che la solvibilità diventi il fattore attorno al quale ruota tutto il meccanismo di accesso al credito e il fatto di essere stati declassati a BBB- non gioca a favore del fluire dei fondi dallo Stato ai conti delle piccole imprese, in quanto si ferma nelle banche, le quali hanno tutto l’interesse a che questi prestiti siano solvibili o ne va dei loro forzieri. Chiudere l’accesso al credito anche quando sia derivante da fondi d’emergenza vuol dire di fatto strozzare quel principio economico che a parole tutti si impegnano a difendere, ossia la produttività come propulsore principale di un sistema economico. Nei fatti le ambizioni sono ben altre come ci insegna la crisi del 2008.

J.R.

tratto da Umanità Nova n.17 del 17/05/20

Ma poi l’hanno abolita la povertà?

Sta ripartendo il dibattito sul Reddito di Cittadinanza. La legge che lo ha istituito prevedeva che, dopo 18 mesi dall’erogazione del sussidio, ci fosse un mese di sospensione ed i percettori facessero nuovamente domanda per ottenerlo. Visto che, dalle prime richieste di 410.000 nuclei familiari, fatte ad Aprile 2019, sono passati 18 mesi, si vuole approfittare di questa sospensione per rivederne i requisiti e le caratteristiche. C’è intenzione, da parte di diversi soggetti (Confindustria in testa), di approfittare di questo momento per abolirlo o riformarlo radicalmente.

La misura era nata, assorbendo tutti i precedenti stanziamenti destinati al contrasto all’esclusione sociale, per “dare lavoro ai poveri”, come se la povertà fosse causata solo dalla mancanza di lavoro e dimenticando che la povertà è determinata da diverse cause: ci sono i “working poor” persone che, pur lavorando, non riescono ad ottenere un reddito sufficiente per la sopravvivenza (in questa condizione, per esempio, ci sono il 12,3% degli operai: si tratta generalmente di nuclei familiari monoreddito di 4 o più persone). Ci sono persone che hanno problemi familiari, sanitari, abitativi, di cura dei loro cari, di istruzione e qualificazione professionale. Ci sono invalidi che non sopravvivono con la pensione di invalidità. Ci sono poi un milione e mezzo di immigrati in condizione di povertà assoluta che sono stati completamente esclusi, in ossequio alla retorica leghista per cui “fanno la pacchia”.

La misura era stata presentata come “l’abolizione della povertà” ed ha subito, nel corso della sua vigenza, critiche da parte delle varie associazioni di datori di lavoro che “non trovavano lavoratori” perché le persone avrebbero preferito percepire i 569 euro (in media) del sussidio piuttosto che andare a lavorare. È facile notare che l’affermazione corretta sarebbe stata “non troviamo lavoratori in nero”, vista l’impossibilità per i percettori di rifiutare un lavoro regolare.

Cerchiamo di capire chi ci ha guadagnato e chi ci ha rimesso con il reddito di cittadinanza. Ci ha guadagnato sicuramente Mimmo Parisi, presidente dell’Anpal (l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive sul Lavoro), preso dai grillini in una sconosciuta università del Mississipi, nominato alla presidenza ed assegnatario di uno stipendio (aumentato per l’occasione) di 240.000 euro l’anno a cui l’interessato ha aggiunto, nel solo corso del 2019, rimborsi spese per 160.000 euro. È stato presentato in pompa magna come il guru che avrebbe rivoluzionato il mercato del lavoro in Italia, quello che avrebbe realizzato una app per facilitare il rapporto tra domanda e offerta di lavoro, è finito a fare il boiardo di stato incapace anche di far connettere i sistemi informatici dell’Agenzia con i navigator a casa. […]

Vediamo com’è andata invece per le 3.164.993 persone (1.248.879 nuclei familiari) che attualmente percepiscono il reddito di cittadinanza. Dal punto di vista della collocazione al lavoro è stato un fallimento. Solo 875.887 percettori del sussidio sono stati individuati dall’Anpal come soggetti alla sottoscrizione del patto per il lavoro e, siccome avrebbero dovuto esserlo tutti i componenti maggiorenni di un nucleo familiare che percepisse il Reddito di Cittadinanza, con esclusione di chi avesse figli minori di 3 anni o disabili nel nucleo familiare, di chi studiasse o facesse corsi di formazione e degli occupati a basso reddito, si capisce palesemente l’inefficienza dell’Anpal. Di quelli individuati ancor meno (376.552) sono stati convocati. A dicembre 2019, prima del covid (che ha ulteriormente depresso il mercato del lavoro), solo 28.000 persone avevano trovato lavoro, per lo più precario ed a termine.

Dal punto di vista del contrasto alla povertà è invece andata un po’ meglio: per la prima volta da 5 anni è diminuito (di poco) il numero complessivo delle persone in condizione di povertà assoluta. Però questo dato sintetico non descrive cosa è successo, dato che è bene analizzare analiticamente.

In Italia ci sono 4,6 milioni di persone in condizione di povertà assoluta e 8,8 milioni di persone in condizione di povertà relativa. La differenza tra povertà “assoluta” e povertà “relativa” è data dal metodo di calcolo: se si riesce ad acquistare un paniere di beni nel primo caso, se si ha un reddito inferiore alla metà del reddito medio nell’altro.

Nel calcolo della povertà assoluta, questi limiti di reddito vengono poi ponderati per ampiezza ed età dei componenti del nucleo familiare, per area geografica e per dimensione della città di residenza. Una coppia con un figlio adolescente che vive in una grande città del Nord Italia è povera in senso assoluto se ha un reddito mensile inferiore a 1.464,42 Euro. Un single che vive in un piccolo paese del Mezzogiorno è assolutamente povero se ha un reddito mensile inferiore a 566,49 Euro.

La povertà relativa invece si calcola in base alla metà del reddito medio riparametrato per i membri del nucleo familiare. Nel 2019 è stata considerata relativamente povera una coppia che guadagnasse meno di 1.094,95 euro al mese.

Per concedere il reddito di cittadinanza sono stati chiesti requisiti simili ai meccanismi di rilevazione della povertà assoluta ma calcolati diversamente. Il reddito di riferimento (determinato attraverso l’ISEE) è pari a 6.000 euro annui aumentato di 2.360 euro se si vive in affitto, riparametrato in base ai componenti del nucleo familiare ed è unico su tutto il territorio nazionale. Diverse persone, soprattutto residenti nelle aree metropolitane del Nord Italia, pur risultando statisticamente “assolutamente poveri” non sono rientrate nei requisiti per accedere al reddito di cittadinanza. Non sono rientrati nel sussidio neanche molti degli individui “relativamente poveri” (8.8 milioni di persone, il 14,7% dei residenti in Italia).

I dati statistici confermano questa divergenza. Nel Mezzogiorno la povertà assoluta scende dall’11,4% degli individui al 10,1%. Al Centro Italia sono poveri il 5,6% degli individui residenti (erano il 6,6%). Invece al Nord diminuisce di poco e addirittura aumenta nel Nord Est (dal 6.5% degli individui al 6.6%).

Un discorso specifico merita la situazione degli immigrati, che sono stati esclusi dal reddito di cittadinanza. Il 26,5 % delle persone in condizioni di povertà assoluta è costituito da immigrati (1.400.000 individui). Il dato relativo è ancora più alto se si tiene conto dei nuclei familiari. Circa una famiglia di poveri su tre (il 30,4%) è immigrata e le famiglie di immigrati costituiscono solo il 5.6% della popolazione residente in Italia.

È rimasto sostanzialmente stabile il numero delle persone relativamente povere (dal 15.0% al 14.7%). Quello che va rimarcato è l’incremento costante nel corso degli anni dei numeri, in assoluto e in percentuale, dei poveri in Italia. Nel 2005 (data di inizio della rilevazione statistica) le persone in povertà assoluta in Italia erano 1,9 milioni: in 15 anni sono aumentati del 242%!

I padroni ed i loro pennivendoli si sono inventati un neologismo secondo cui vivremmo nel “Sussidistan”, unendo la parola “sussidio” al suffisso “-stan” caratteristico della denominazione di alcuni stati dell’Asia centrale, per rivendicare l’abolizione di qualsiasi forma di spesa sociale. Ovviamente dimenticano che in Italia i sussidi li prendono le imprese. Solo la FCA (che ha sede ad Amsterdam), senza contare tutti gli altri sussidi, ha preso 6.3 miliardi di euro di prestiti garantiti dallo stato nel solo 2019: più del costo del Reddito di Cittadinanza nello stesso periodo. I Benetton, attraverso Autostrade per l’Italia (ma non dovevano espropriarle?) hanno preso 1.2 miliardi di euro.

È evidente che il Reddito di Cittadinanza non risolve il problema della povertà, la sua abolizione, come vorrebbe Confindustria, renderebbe però disperata la situazione, visto che al suo interno erano confluiti una serie di altri stanziamenti che servivano ad alleviare le situazioni di disagio sociale.

Non è soltanto la ferocia sociale ed il neomalthusianesimo che spinge gli industriali alla guerra ai poveri. Sono in attesa dei 209 miliardi del recovery found e degli 80 miliardi del MES e vogliono evitare che vadano, anche se in minima parte, alla spesa sociale. Con la pandemia e la crisi economica il numero dei poveri aumenterà e di molto: la guerra preventiva che stanno facendo serve a bloccare eventuali stanziamenti sociali prima ancora che vengano definiti. Ricordiamoci che l’economia capitalistica è un gioco “a somma zero”, come il poker: se qualcuno vince, qualcun altro perde; se un ricco diventa più ricco, è perché qualcun altro diventa più povero.

Se si vuole veramente abolire la povertà va abolita anche la ricchezza. È questo il motivo per cui i ricchi fanno la guerra ai poveri.

Fricche

tratto da Umanità Nova n.29 del 11/10/20

Mutazioni virali

Le conquiste di libertà raggiunte dai movimenti nel secolo scorso stanno lentamente scomparendo. Alcune garanzie sono state sospese, cancellate e mutate mettendo a nudo, ancora una volta, il meccanismo di un ascensore guasto e appiccicato da sempre al virus dell’iniquità sociale.

Negli ultimi cinquant’anni poi abbiamo assistito ad una serie di crisi fino a quella attuale e di volta in volta sono state aggiunte nuove modifiche e ordinamenti. La crisi attuale sarà l’ultima oppure come un morbo in futuro subirà altre mutazioni?

Tenendo conto che le previsioni potrebbero contenere un certo margine di errore poiché i parametri tradizionali di misurazione sono stati messi in discussione dai sistemi sempre più fluidi e in rapida evoluzione non ho comunque in mio possesso gli elementi divinatori di previsione oracolare.

Predire il futuro non è la mia aspirazione tuttavia non ho potuto non osservare alcuni effetti e mutazioni.

Da molto tempo la povertà di certo ha aumentato la sua carica virale e con l’insicurezza economica sono aumentate l’incertezza e la paura. Chi non ha un’indipendenza o ha una maggiore necessità di denaro è di certo esposto maggiormente all’infezione del ricatto e dello sfruttamento, alla costrizione delle relazioni gerarchiche e dell’obbedienza e alla malattia della sudditanza. Penso a quanti lavoratori e lavoratrici stanno sopportando il moltiplicarsi dei soprusi sul luogo di lavoro per non perdere in questo periodo la loro fonte seppur minima di reddito, a quante donne sono costrette a convivere con i loro aguzzini e molestatori per non trovarsi a vivere in strada.

La forbice della disuguaglianza purtroppo negli ultimi anni è divenuta sempre più ampia e già nel 2018, 3,8 miliardi di persone, le più povere del pianeta, avevano visto decrescere dell’11 % le proprie ricchezze mentre le entrate degli uomini più ricchi globali erano aumentate del 12%, vale a dire che, da soli, 26 ultramiliardari possedevano l’equivalente ricchezza della metà più povera del pianeta, un’enorme fortuna dunque nelle mani di pochi. L’aumento del numero dei poveri e della disuguaglianza dunque sono sotto gli occhi di tutti e sono andati di pari passo alla cancellazione della maggior parte delle vie di accesso alla sanità, alla scuola, alla cultura, alla chiusura sempre maggiore di spazi di libertà collettivi e individuali.

Tutte le contraddizioni in seno a questo sistema si stanno scatenando negli ultimi mesi con il manifestarsi del coronavirus ma la discriminazione di genere, gli abusi in divisa, la mercificazione della sanità e non solo, l’exofobia e l’esclusione sociale, il dispotismo, l’oppressione, non sono state generate dall’esistenza del sovrano covid 19 che ha causato una pandemia ancora in corso e ha visto morire decine di migliaia di persone.

Come potremo dimenticare la colonna dei carri funebri che hanno sfilato a Bergamo nel mese di marzo, entrati ormai nella memoria collettiva? Come potremo cancellare le innumerevoli marce bianche per i femminicidi avvenuti negli ultimi anni il cui numero è quasi raddoppiato dall’inizio della pandemia in concomitanza con le ordinanze di restrizione, con la chiusura di molti centri antiviolenza che hanno costretto le donne a rimanere in casa ovvero a vivere negli stessi luoghi con i loro persecutori per la maggior parte riconosciuti nei ruoli famigliari dei loro stessi padri, dei loro fratelli, amici e soprattutto dei loro mariti?

Ancora una volta sono stati i ceti più poveri a pagare di più le conseguenze di questa situazione e ancora oggi la maggior parte dei servizi di prevenzione e di sostegno alle cure sanitarie sono sospesi e rinviati a tempo indeterminato.

Non sono mancati i momenti di disobbedienza e di ribellione a tutto questo in diverse parti del mondo, collettivi e individuali, granelli di sabbia ad inceppare per attimi il meccanismo della gerarchia virale e della disuguaglianza sociale. Non ultimo in Italia il 24 novembre un infermiere è salito sul tetto di un ospedale per gridare la sua protesta. Non un eroe, come avrebbe voluto rappresentarlo, attraverso il linguaggio bellico la propaganda degli ultimi mesi per una evidente mistificazione patriottica, bensì un semplice essere umano che, insieme ad altri colleghi e cittadini, ha deciso di reagire a questa realtà. Una persona come tante altre che ha deciso di protestare e di urlare al mondo la propria condizione mostrandosi con l’abito da lavoro adottato da mesi dal personale sanitario. Ha esposto uno striscione con su scritto “Né eroi Né codardi –personale in stato di agitazione” e a braccia aperte in alto verso il cielo ha voluto denunciare, insieme ad altri 50 medici e anestesisti, l’impossibilità di curare allo stesso modo tutti i pazienti.

La logica del profitto e dell’accumulazione di denaro stanno continuando a dividere e a comandare, a incrementare la gerarchia, tra i principali ostacoli alla generazione e alla conservazione dell’uguaglianza e dunque della libertà.

E’ comunque l’acquisizione del profitto a dirigere le scelte, il media di una sudditanza e di uno spirito di adattamento volontario a garanzia, ancora una volta, di una mentalità e di un sistema dove l’economia per molti è ancora considerata una scienza della “massimizzazione degli utili” o della “minimizzazione dei costi” in nome dello sfruttamento universale e non, con una utopistica mentalità concretamente in controtendenza, il nomos, ovvero le regole autodeterminate e non sovradeterminate, dunque decise da tutte e tutti per gestire al meglio le risorse dell’ oikos, dove la casa è considerata la Terra, uno tra i pianeti inseriti nell’universo mondo, l’humus dove tutte e tutti, esseri compostabili, stiamo abitando.

Norma Santi

La moneta non è tutto

Secondo una nota del Centro Studi Confindustria, il Prodotto Interno Lordo (PIL) dell’Italia nel terzo trimestre del 2020 crescerà del 9%, rispetto al calo del primo e secondo trimestre (17,6%). La nota definisce il rimbalzo “parziale e tormentato”. Messaggi più ottimistici sulla congiuntura provengono dal governo: il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, in occasione di una cerimonia all’Agenzia delle Dogane, ha affermato che la ripresa è in corso, sottolineando che a questo scopo è stato mobilitato il 6% del PIL. È opinione comune, diffusa dal governo, dalle forze politiche e accreditata dagli economisti, che la crescita economica testimoniata dall’aumento del PIL sia sinonimo di aumento dell’occupazione e miglioramento delle condizioni di vita delle classi sfruttate. Per capire se questa opinione corrisponde alla realtà, dobbiamo capire che cos’è il PIL. Il Prodotto Interno Lordo è una grandezza economica che esprime la totalità dei beni e servizi prodotti in un dato paese in un dato periodo storico. Attraverso il calcolo del Prodotto Interno Lordo si riduce una realtà composta da molte determinazioni a una totalità indistinta misurata in termini quantitativi. È un procedimento comune nella società moderna, che raggiunge la sua massima espressione nella trasformazione delle varie relazioni in rapporti monetari. Infatti, il PIL è espresso in unità monetarie. Se invece della quantità, consideriamo le varie componenti del PIL scopriamo delle cose interessanti.

Nella nota della Confindustria, ad esempio, si afferma che i consumi privati saranno frenati da incertezze e perdite di reddito. In realtà, stando ai dati ISTAT, i consumi delle famiglie sono calati nel secondo semestre del 6,7%, meno della metà del calo del PIL nello stesso periodo (14,7%). Se poi analizziamo un altro dato, vediamo che questo calo dei consumi, evidentemente, non è omogeneo per tutte le famiglie. Secondo un rapporto del Centro Studi Unimpresa, nel periodo della chiusura dovuta alla pandemia, i saldi dei depositi bancari di famiglie ed imprese sono cresciuti del 30%, circa 40 miliardi di euro. È evidente che non tutte le famiglie hanno contribuito in pari misura all’aumento dei depositi bancari, così come non su tutte le famiglie si è abbattuta nello stesso modo la contrazione dei consumi: l’esperienza ci insegna che i fenomeni sono polarizzati, cioè la propensione al risparmio aumenta con l’aumentare della fascia di reddito, mentre il calo dei consumi si abbatte sulle fasce più basse. In altre parole, complice la politica del governo, l’emergenza-Covid si è tramutata in un’altra occasione per una gigantesca redistribuzione del reddito a vantaggio del profitto e della rendita, a danno dei redditi da lavoro dipendente, soprattutto dei precari, dei pensionati e dei disoccupati.

L’aumento della massa monetaria in circolazione, una volta che le varie misure decise dalle istituzioni europee e nazionali andranno a regime, non si tradurrà in un miglioramento delle condizioni delle fasce sociali a basso reddito: l’aumento della massa monetaria provocherà l’aumento del PIL nominale, in quanto la stessa massa di merci si troverà rappresentata in una massa monetaria aumentata, generando inflazione e, mentre i capitalisti potranno rispondere all’inflazione con l’aumento di prezzo delle merci prodotte, i redditi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati rimarranno inchiodati agli importi previsti da contratti e leggi varie, come per i sostegni ai senza reddito. Alla fine della giostra, quindi, anche se parte dei finanziamenti pubblici finiranno in qualche briciola di reddito d’emergenza o di quarantena, l’immissione di liquidità si tradurrà in una riduzione del potere d’acquisto di salari e pensioni, quindi in un taglio del reddito reale delle classi sfruttate. […]

Quando il ministro Gualtieri parla di risorse aggiuntive pari al 6% del PIL da destinare all’aumento di quest’ultimo, parla in primo luogo di risorse finanziarie, che evidentemente non saranno destinate a sostenere la domanda, privata o pubblica, ma l’offerta, cioè la produzione, cioè il reddito dei capitalisti. Se invece parla in termini reali, in termini di massa di beni e servizi da destinare all’aumento del prodotto interno, parla di beni e servizi che devono assumere una forma specifica per essere utilizzabili all’interno del processo produttivo, una forma diversa da quella dei beni e servizi destinati ai consumi delle classi privilegiate oppure da quella dei beni e servizi destinati alle famiglie di operai e impiegati, come si dice in linguaggio statistico. Ogni aumento della produzione implica un aumento dei fattori della produzione. Se il fattore umano è sempre disponibile, vista la consistenza dell’esercito industriale di riserva, il capitale fisso ed il capitale circolante devono essere prodotti, o attraverso nuove produzioni o attraverso la trasformazione di produzioni di altro tipo in quel tipo di produzioni. Quindi, visto che l’aumento del PIL previsto è inferiore all’aumento degli investimenti, ne deriva che l’aumento degli investimenti viene compensato da una diminuzione della produzione di beni e servizi destinati al consumo. Poiché gli studi di mercato ci insegnano che il settore dei beni e servizi destinati al consumo delle classi privilegiate è in espansione, i consumi tagliati saranno ancora una volta quelli popolari.

Inoltre, poiché l’aumento degli investimenti porterà con sé l’aumento della produttività, ci sarà ancora meno bisogno di braccia, con inevitabile aumento della disoccupazione da una parte, e un aumento del logoramento per quegli sfortunati che rimarranno prigionieri delle grinfie capitaliste dall’altra. […]

Ecco il risultato della produzione organizzata per il profitto individuale del singolo capitalista: il disordine, lo sciupio di forze umane, la scarsezza voluta dei prodotti, i lavori inutili e dannosi, la disoccupazione, le terre incolte, la crisi ambientale, le epidemie. A questi mali si può porre fine solo togliendo ai capitalisti il possesso dei mezzi di produzione e della terra e quindi la direzione della produzione; sostituendo alla competizione capitalistica la libera associazione di donne e uomini, che lavorano con mezzi di produzione comuni e spendono coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale.

Tiziano Antonelli

tratto da Umanità Nova n.28 del 27/09/20

Supplemento al n.38/2020 di Umanità Nova a cura

della Commissione di Corrispondenza della FAI e della

redazione di Umanità Nova

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