Dopo la lettura dei due interessanti articoli di Tiziano Antonelli e di Enrico Voccia (UN n. 18 e UN n. 19), il primo più politico e il secondo più filosofico, dedicati al ruolo di Giacinto, detto Marco, Pannella, ritengo che sia utile rievocare alcuni momenti nei quali il “libertario-liberale-liberista” ha incrociato il movimento anarchico tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta.
Il leader del Partito Radicale, da lui rifondato agli albori dei Sessanta, aveva adottato una strategia efficace e spregiudicata per conquistare fette via via crescenti di opinione pubblica e di potere politico. Così, egli ideò e realizzò la Marcia Antimilitarista Milano-Vicenza a partire dal 1967 sapendo di poter collaborare, da condizioni di superiorità organizzativa, con gruppi di pacifisti non violenti, tra cui Pietro Pinna (uno dei primi obiettori di coscienza al servizio militare) e con gruppi di anarchici, tra i quali Pino Pinelli che partecipò agli inizi della Marcia del 1967. Pannella aveva poi l’indubbia abilità di gestire i comizi serali nelle città e nei comuni toccati dalle 10 tappe che ogni giorno percorrevano circa 25 km. a piedi, e che si svolgevano dall’ultima settimana di luglio alla prima di agosto.
Tra le poche decine di partecipanti vi erano sinceri giovani pacifisti (tra cui i primi vegetariani da me conosciuti) che avevano così una delle poche occasioni pubbliche per esprimere le proprie idee e aspirazioni. Tra chi distribuiva i volantini e portava i cartelloni, cioè tra i marciatori autentici, si discuteva pure sul progetto politico futuro di Marco. E alcuni radicali (ricordo Lorenzo Strik Lievers, i gemelli Rendi, Gianfranco Spadaccia) dichiaravano, senza timori di passare per visionari o mitomani, che l’obiettivo del leader di quel manipolo di sudati e stanchi giovanotti era diventare Ministro e magari Primo Ministro. La cosa suscitava, in genere, molta incredulità e una certa ilarità, come si prova di fronte ad una fantasia da megalomane. Eppure l’incredibile obiettivo pannelliano si andava concretizzando passo dopo passo, anche usando lo scarno drappello di capelloni, freaks, vegetariani, utopisti e ribelli di vario tipo. Ragionando con l’esperienza successiva, ci si può rendere conto della spregiudicatezza e dell’intuizione del personaggio: marginale, ma non troppo.
Per lui, un’occasione da non perdere, in ambito seriamente libertario, fu il Convegno di Rimini del settembre 1972 per il Centenario di Sant Imier e della fondazione dell’Internazionale antimarxista. Il discorso di Pannella all’affollata assemblea inaugurò uno stilema usato in altre circostanze: apparire sul punto di aderire all’anarchismo. In sostanza egli disse che, se il Partito Radicale lo avesse deluso (e ciò sembrava molto probabile), sarebbe diventato “compagno tra i compagni”. Molti dei presenti applaudirono ritenendo di aver trovato un nuovo aderente di rilievo, una personalità preziosa per le capacità comunicative e il ruolo pubblico in costante ascesa.
Vestendo i panni, letteralmente, del guru della nonviolenza e del pacifismo e recitando da attore professionista in TV, da lì a poco Giacinto avrebbe conquistato alcuni posti in Parlamento nell’intento di costituire un’alternativa possibile al sistema dei due partiti dominanti, la DC e il PCI.
Su un piano storico, bisogna riconoscere che egli intuì la portata dirompente della rivendicazione dei “diritti civili” in Italia. Nella penisola mediterranea la legislazione era molto arretrata rispetto all’Europa centrale e settentrionale dove vigevano da tempo norme laiche e tolleranti in tema di divorzio, aborto, obiezione di coscienza, eutanasia, ecc. Il potente PCI e l’ancora più forte DC guardavano dall’alto in basso questo gruppetto minoritario che si batteva, attraverso la LID (Lega Italiana per il Divorzio), insieme al socialista Loris Fortuna e a qualche liberale, nel propagandare la “sconcertante proposta” (termine dei giornali dell’epoca). Invece, già nel 1967, Pannella e i suoi pochi seguaci riuscivano a riempire le sale di mezza Italia con iniziative della LID.
Dopo l’introduzione della discussa legge, si mobilitò a fondo l’apparato della Chiesa cattolica che raccolse circa due milioni di firme per un referendum abrogativo, celebrato nel 1974. La presenza capillare, e di lungo periodo, dell’organizzazione clericale sembrava portare a un sicuro risultato vittorioso. Invece la società italiana era cambiata e il divorzio rispondeva ormai a un problema molto sentito, perfino in certi ambienti cattolici. Da qui la sconfitta dell’asse DC-MSI, gli unici due partiti impegnati a ribadire la loro contrarietà: circa due terzi dei votanti si schierò per il mantenimento della possibilità legale del divorzio. (La maggioranza degli anarchici si astenne ritenendo che la soluzione vera era la “libera unione” che escludeva sia lo Stato che la Chiesa. Ma è un altro discorso).
Dopo questa vittoria, la popolarità di Pannella e soci crebbe a dismisura: moltissime simpatie, ma ancora pochi attivisti. Quindi il padre-padrone radicale poteva presentarsi, anche ai generici libertari, come un compagno che stava realizzando una trasformazione concreta della società: insomma offriva alla lotta antiautoritaria una via praticabile e vincente, ad esempio contro lo strapotere clericale.
D’altra parte non è una novità che nel movimento anarchico e libertario, soprattutto in quello giovanile, esisteva (e credo esista) un’amara insoddisfazione per non poter incidere veramente e a fondo nella società che si vuole cambiare. Il rapporto di forze tra il dominio e il movimento è talmente sproporzionato che, per continuare l’attività in una condizione talvolta vissuta come un vicolo cieco, occorre una considerevole dose di scelta utopica e di sensibilità etica. C’era perciò, anche nei primi Settanta, una potenzialità favorevole ai reclutatori politici “alternativi”. (Non so se egli riuscisse poi a rastrellare anche nelle nostre file adesioni significative).
Fu sul terreno antimilitarista che si realizzò la rottura definitiva con il Partito Radicale. Nel 1974, poiché non riusciva a gestire tranquillamente la Marcia, ora da Trieste ad Aviano, a causa dell’incontrollabile attività degli anarchici organizzati, i radicali indissero (in contemporanea!) un’altra iniziativa nazionale a Roma alla fine di luglio. La Marcia si tenne ugualmente in base all’accordo con la componente nonviolenta, sia pure su un tragitto ridotto. E i promotori originari della Marcia ritornarono sui loro passi e riproposero l’appuntamento nell’estate del 1975, mentre la differenziazione si stava evidenziando come irrecuperabile.
Al comizio iniziale a Trieste, il Partito Radicale si trovò a dover fare i conti con un centinaio di anarchici aderenti all’iniziativa e qui rivelò la propria ambiguità e l’indole prepotente. Pannella parlò nella piazza Goldoni, la più centrale, a favore degli “ufficiali democratici” e del “sindacato di polizia” ricevendo una solenne ondata di fischi mentre l’intervento di un anarchico triestino raccoglieva un evidente consenso. Alla chiusura degli interventi dal palco, Umberto Tommasini rispose agli attacchi verbali del guru radicale usando il suo stesso linguaggio offensivo: dopo aver polemizzato per decenni con gli autoritari comunisti e simili, era venuto il momento di smascherare gli inganni legalitari neomilitaristi. (Per la cronaca: nel 1992, ai tempi della guerra nell’ex Jugoslavia, Giacinto si esibì nella tuta mimetica dell’esercito croato!)
Il giorno dopo, la Marcia percorse la prima tappa ma, in un’assemblea risolutiva, la componente libertaria si staccò e convocò diversi incontri alternativi ai radicali nelle città e nei paesi del percorso previsto. I nostri appuntamenti videro una notevole partecipazione di cittadini e di militari in libera uscita: l’antimilitarismo coerente mostrava la propria credibilità e capacità anche in Friuli.
Da questa sequenza di intese e conflitti con una formazione nuova e originale, come quella dei radicali (che in pratica erano strumenti della smisurata ambizione pannelliana), ritengo che sia prevalsa tra i/le compagni/e la convinzione che gli spazi legalitari si confermano (come il secolo prima con i socialisti e due secoli dopo con i grillini) un terreno più che scivoloso. Era, ed è, un ambito nel quale le scadenze e i condizionamenti della politica istituzionale, quella che si dichiara di voler superare, finiscono col prevalere e col ridurre le dichiarazioni verbali più o meno libertarie, ieri e oggi, ad un semplice specchietto per le allodole.
In fin dei conti, ciò vale per ogni esponente politico, inevitabilmente trasformista, che indossi la maschera di rifiuto dei compromessi col potere dominante.
Claudio Venza