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Oi dialogoi. Andrea Staid sull’abitare il nostro tempo.

Oi dialogoi. Andrea Staid sull’abitare il nostro tempo.

Riportiamo l’interessante discussione con Andrea Staid, avvenuta nel luglio scorso dopo la presentazione della sua ultima pubblicazione La Casa Vivente, Riparare gli Spazi, Imparare a Costruire al Circolo Zapata di Pordenone. Nel solito affanno per la ricerca di un titolo che non suonasse altisonante o tronfio, ho optato per “Oi Dialogoi”. Più che un omaggio ai classici è un piccolissimo e modesto tributo al pensatore e fine osservatore De Crescenzo, che ha spesso descritto le ansie dell’uomo comune nell’abitare il suo tempo sempre senza prendersi troppo sul serio. È proprio questa leggerezza narrativa che in Staid giunge a smuovere riflessioni complesse sulla nostra quotidianità che ha spesso acceso discussioni interminabili ogni qual volta ci incontriamo. Da qui l’idea di registrare questa chiacchierata per farne una trascrizione che non suonasse come un’intervista ma più che altro una serie di suggestioni e riflessioni che tentano di descrivere lo status quo.

Redazione di Umanità Nova – d’ora in poi UN: Di là di quanto scrivi nel tuo ultimo libro, vorrei soffermarmi piuttosto sul tuo punto di vista circa una serie di problematiche, dall’analisi delle quali scaturisce l’idea di una “radicalità necessaria” per scardinare l’attuale complessità del vivere contemporaneo. Radicalità che, se ho ben compreso, pare estrinsecarsi nella ricerca di punti di incompatibilità con il sistema socio-economico dominante. Incompatibilità profonda che si pone in contrasto con la visione di un possibile correttivo al sistema, il quale va invece completamente scardinato e ricostruito.

Andrea Staid – d’ora in poi AD: È esattamente così, anzi ti dirò che sono profondamente convinto della necessità che si vengano a creare economie “sottoproduttive”, cioè eliminare il surplus. Partendo da quel rituale di resistenza quotidiana che dovrebbe diventare la nostra vita di tutti i giorni. Divenire iper-produttivi in chiave anticapitalista, quindi improduttivo per il sistema che ci circonda. La macchina socio-economica sulla quale nostro malgrado stiamo viaggiando ci sta conducendo alla distruzione, per evitare la quale c’è bisogno di recuperare una grande capacità di immaginare un mondo altro da questo ma soprattutto essere in grado di praticare questa alterità. L’ideale anarchico è ancora attuale e in grado di proiettarsi oltre lo status quo, a patto che non si cristallizzi in un mantra ma permanga in quell’agire che vede la rivoluzione come processo sottratto all’idolatria del suo essere evento. Detto ciò credo che sia sempre utile innestare nella nostra quotidianità la concreta utopia anarchica che ci porti a riconoscere la corsa folle della macchina socio-economica, non limitarci a una rapida discesa dalla stessa ma agire per fermarla e smontarla pezzo per pezzo.

UN: Parlando di cristallizzazione e di idea di conflitto, si intravede sempre più chiaramente nei tuoi scritti il propendere verso una conflittualità “lenta”, di processo, invece di una conflittualità che insegue momenti topici o punti di accumulazione estemporanei o se vogliamo il conflitto di piazza. Sembra quindi che all’azione di forza tu tenda a proporre un lavorio costante che abbia lo scopo di scavare letteralmente la terra da sotto le fondamenta del sistema. Quindi come possiamo conciliare l’abitare, inteso sempre come un esserci all’interno della contemporaneità, con la conflittualità latente di lungo periodo?

AD: Credo che già il concetto di velocità sia qualcosa di posticcio, una colonizzazione dell’immaginario sociale dettata dal linguaggio capitalista, la convinzione che veloce voglia anche dire facile o che velocemente si possa abbattere qualcosa. Invece la mutazione necessaria in senso libertario della società è un fenomeno lento. È un qualcosa che è per forza di cose lento, in quanto va praticato e va testato continuamente. Il discorso sull’abitare è un discorso sulle relazioni, non semplicemente sul vivere in una casa ma un significato più profondo, un essere come formazione di comunità, formazione di identità. La relazione che tutti noi intessiamo, quindi una capacità immaginativa nel territorio è fondamentale proprio per produrre conflitto. Soprattutto, la mia idea è che se non arriviamo preparati al momento del conflitto, al momento in cui ci fronteggiamo con lo Stato – per inciso non nego che la rivoluzione possa essere violenta, non sono un teorico della violenza ma potrebbe essere necessaria per quanto io la possa detestare – ma, detto ciò, se non giungiamo preparati avendo agito la mutazione e avendo la capacità di resistere, non riusciremo a far nulla. Stasera si parlava della Resistenza del ’43-’44, questa era agita da donne e uomini che sapevano fare ciò che andava fatto. Bisogna reimparare a saper fare. Se per esempio si giungesse a uno sciopero generale di vasta portata ma nessuno è in grado di produrre generi di prima necessità, fondamentali per andare avanti nell’azione di resistenza, come si immagina di poter confliggere? Dobbiamo quindi essere in grado di riprendere in mano le maglie della società, farle nostre e renderci indipendenti. Una sorta di società nella società, ma non tanto nella direzione che suggeriva Hakim Bay con le “Zone Temporaneamente Autonome” – non che io sia contrario a tale costrutto teorico, parlo semplicemente di una cosa differente. Parlo di qualcosa che sia mutualistico, federale (nel senso proudhoniano del termine) e che possa costruire delle catene di sapienza, di scambio pratico e intellettuale. In modo che costruiamo il conflitto e sappiamo anche portarlo avanti. Credo che molte delle sconfitte che abbiamo subito derivino dal fatto che non abbiamo mai praticato il cambiamento, cioè eravamo sempre impreparati, intendo come anarchici. Quindi pensare a un altro modo di abitare, che sia una relazione non gerarchica, legata a catene di solidarietà e “produttiva”, nel senso di saper produrre energie, cibo e i meccanismi di solidarietà. Dobbiamo tornare a saper fare, a saper produrre.

UN: Credi che l’evoluzione del capitalismo così come oggi lo conosciamo abbia in un certo qual modo indotto una sorta di delega implicita ai suoi meccanismi di riproduzione codificata, cioè abbiamo più o meno consapevolmente delegato la nostra riproduzione sociale alla riproduzione del capitale? Avendo delegato il saper fare alla macchina ed al processo di estrazione di plusvalore oggi noi abbiamo perso quella capacità? O per meglio dire, tornando all’esempio della Resistenza, chi agiva quella resistenza conosceva il territorio perché lo abitava, aveva acquisito una capacità di saper fare all’interno di quel contesto, oggi quel sapere è stato rimpiazzato dalla dipendenza dal sistema di riproduzione del capitale; è veramente così secondo te?

AS: Purtroppo sì, credo che la più grande vittoria del capitale sia stata quella di averci spogliato del nostro essere uomo artigiano, per dirla con Richard Sennet, questa è la vittoria degli ultimi sessant’anni del capitalismo. Renderci incapaci e totalmente dipendenti. I compagni e le compagne del passato, ’800 e inizio ’900, magari saranno anche stati arretrati su questioni come ecologismo decoloniale, patriarcato e femminismo ma erano molto più avanti di noi sull’essere presenti nella società e capaci di fare. Per esempio le barricate di Parma contro Balbo hanno funzionato e l’hanno spuntata perché sono state organizzate le cucine e i contadini rifornivano costantemente chi si era trincerato per resistere. Perché nel conflitto non servono solo le pallottole ma l’organizzazione e il saper fare. Questo è risultato essenziale per spezzare i movimenti rivoluzionari.

UN: Uno sradicamento dall’impianto sociale del saper fare cioè di quella conoscenza di base per fare a meno del sistema stesso… Quindi, per recuperare capacità di agire in un sistema che ti rende dipendente da esso finanche per la riproduzione biologica, bisogna recuperare sul piano dell’indipendenza. Recuperare un piano di incompatibilità.

AS: Sì, c’è stato e c’è in svariate circostanze un processo di deresponsabilizzazione costruita sul fatto che in quel modo si mantiene un presidio. È un dato, infatti, che le esperienze più interessanti degli ultimi venti o trent’anni siano localizzate fuori dall’occidente o comunque patrimonio di quelle classi sociali nelle quali il saper fare, l’autodeterminazione della propria esistenza è ancora presente come elemento sociale e comunitario. La rivoluzione sociale non arriva dall’alto, dagli intellettuali ma dalla carne e dalle ossa della società, cioè da chi agisce e lavora in senso di prassi. Qui mi chiamo in causa, io sono uno che estrae il suo reddito insegnando all’università, cerco però di agire anche al di fuori del meccanismo di riproduzione del mio reddito. Quindi teoria e prassi devono concatenarsi per trasmettere conoscenza dell’agire.

UN: A tal proposito, durante il dibattito per la presentazione del tuo libro è emerso questo discorso sulla concatenazione e scambio di conoscenze. Tu sei un antropologo e per indagare un processo o un fenomeno sociale usi tra i tanti strumenti conoscitivi anche quello dell’intervista. Dicevi qualcosa di estremamente interessante circa la necessaria contaminazione tra intervistatore e intervistato, cioè quello scambio di saperi ed esperienze attraverso la quale l’intervistatore modifica le sue ipotesi di partenza in virtù delle nuove conoscenze acquisite. Mi viene in mente qualcosa che sta tornando in voga, cioè l’esperienza della conricerca e le potenzialità di questa pratica che ha come prerogativa quella di testare sul campo un’ipotesi, che può anche essere l’idea che un gruppo politico possa essersi fatta su un fenomeno o un processo e, in caso, confutarla.

AS: Assolutamente sì, è un qualcosa di molto importante quello di non rimanere fermi con presunte indagini della realtà che potrebbero essere totalmente sconnesse dalla stessa. Ciò non vuol dire perdere di vista o annullare la teoria di base dalla quale si è partiti ma mettersi in relazione e indagare il fenomeno non come agente esterno ma, invece, operando all’interno di eventuali contraddizioni. Nella mia esperienza con le culture indigene, volevo approcciarvi come individuo tra individui, mondo tra mondi o caso tra i casi, in maniera assolutamente non gerarchica con chi aveva una visione del mondo magari assolutamente opposta alla mia. Un esempio su tutti: mi sono spesso occupato di lotte al fianco dei migranti, contro i vari CIE, CPT, CARA ecc. e sono partito dall’assunto che siccome siamo tutti uguali e i confini sono solo convenzioni la faccenda del permesso di soggiorno è un finto problema. Poi però ho dovuto fare una considerazione: io avevo un documento in tasca e loro no, io non rischiavo quasi nulla e loro erano in balia di ogni evento. Quindi considerando la libertà in senso bakuniniano, cioè la libertà degli uguali, che è una costante del mio pensiero, ho inteso la lotta per il permesso di soggiorno come uno strumento per recuperare agibilità da parte di chi non è considerato uguale tra gli uguali. Se cioè devo portare avanti una battaglia degli sfruttati contro gli sfruttatori, questi devono essere i più simili possibili. Questo cambiamento è avvenuto durante la ricerca, lavorando con queste persone che mi hanno fatto capire quanto fosse fondamentale potersi muovere senza problemi.

UN: Parto dal tuo ultimo concetto estremizzandolo parecchio per lanciare una provocazione. Partiamo dal concetto che un individuo svuotato di ogni diritto non è più nulla, non ha più diritto di sé, non ha voce in capitolo su nulla, cioè non esiste come entità ma esiste solo come portatore di un certo interesse, quasi come fosse un portatore di valore di scambio in sé. Ora prendiamo quello che è sottobosco di certa parte di movimento antagonista italiano, che sulla questione migranti ha concentrato sforzi ed energie considerevoli ma, spesso, purtroppo parlando di migranti, in nome e per conto dei migranti, quasi che questi non avessero voce per proprio conto. Se però così stanno le cose che differenza c’è tra un soggetto politico che assume l’atteggiamento paternalista nei confronti di un gruppo di persone agendo come se non avessero capacità di agire, e lo Stato che – privando alcuni individui dello status di soggetti di diritto – li tratta come se non esistessero privandoli finanche del diritto di poter essere curati? Dov’è l’incompatibilità con l’agire del sistema Stato? Vi è un agire che si suppone “altro” rispetto all’ente Stato ma minato, ab origine, dalla stesa tara.

AS: Perfettamente d’accordo, difatti in un libriccino di poche pagine dal titolo Disintegrati: Migrazione ai tempi della pandemia che può essere liberamente scaricabile (https://catalogo.fondazionelia.org/content/dis-integrati-migrazioni-ai-tempi-della-pandemia-9788874528677), affronto esattamente questa tematica. Dal mio punto di vista è giunto il momento di cambiare radicalmente il modo di fare le lotte “per” i diritti dei migranti. È già in quel “per” che sta l’errore, in quanto lì si nasconde l’agire in nome e per conto. La svolta dovrebbe essere quella di agire la lotta “con” i migranti ma anche la definizione “migranti” è un qualcosa che deve essere rivisto, è una categorizzazione imposta da un sistema e nel momento in cui la accettiamo perdiamo terreno sul piano dell’incompatibilità, quindi è necessario un piano di risoggettivizzazione degli individui e delle comunità che sono nati altrove e che per svariati motivi hanno intrapreso un viaggio verso altre aree geografiche. Far sì che dal lavoro con queste soggettività si esca rafforzati e con nuovi corpi politici.

Intervista redazionale

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