Qui di seguito un’intervista con Amed, compagno che ha vissuto di persona i fatti accaduti a Diyardabir nelle ultime settimane, segnati da un’escalation della pressione militare sulla popolazione curda da parte dell’esercito turco [A. Soto].
Qual’è stata la tua impressione arrivando a Diyarbakir?
Diyarabakir, capitale morale del Kurdistan, città che conta un milione e duecentomila abitanti, è sotto l’occupazione dell’esercito turco.
La prima sensazione è quella di una situazione in stile palestinese [Amed nel passato si è recato più volte nella zona di Betlemme]: una visibile occupazione militare, posti di blocco, militari, polizia molto presente.
Arrivando di notte in aeroporto tutto ciò si nota chiaramente: almeno quattro check points sulla strada che collega l’aeroporto alla città: jersey di cemento e militari che ti identificano sempre con le armi puntate. Nel percorso dall’aeroporto alla città si passa attraverso la “nuova Diyarbakir”, chiamata Ofis, la zona dove ci sono tutte le attività commerciali. Sembra una città dalla vita normale, molto commerciale, espressione di un capitalismo che va a braccetto con i posti di blocco, con l’occupazione militare.
La città antica a sua volta è presidiata, in tutti i suoi ingressi, da poliziotti bardati, con giubbotti antiproiettili, armi automatiche, jeep blindate. Sulle jeep si vedono i segni delle lotte dei compagni, le ammaccature dei sassi, le bruciature delle molotov. Si perché la città antica ha resistito 163 giorni all’occupazione militare, prima che l’esercito sia riuscito a entrare in forze, nel maggio scorso.
Anche nella città antica l’attività commerciale è fiorente, c’è un grosso mercato, che si accompagna alla pressante presenza della polizia, soprattutto in borghese.
Una parte della città antica è chiusa all’accesso da transenne: nessuno ci può entrare, nemmeno i turisti, perché l’amministrazione turca la sta depredando delle pietre antiche usate per le costruzioni. C’è una continua attività di demolizione e ricostruzione. I proprietari sono espulsi dalle proprie case, previo il risarcimento di una piccola somma. Andando sulle mura della città vecchia si vedono camion carichi di pietre antiche che se ne vanno. Queste pietre hanno un alto valore commerciale, hanno un migliaio di anni. Saccheggio, distruzione e ricostruzione, questo è quello che stanno facendo gli occupanti.
L’occupazione turca è quindi una vera e propria invasione di un esercito straniero. Così la vedono anche i curdi, immagino.
Sì, se vai al municipio comunale, là dove il commissario del governo turco, lo trovi blindato: è una zona militare a tutti gli effetti, ci sono i camion con gli idranti e i blindati anche con calibri grossi. Questo è il modo in cui l’esercito riesce a mantenere le municipalità.
Ancora, la città è piena di scritte cancellate, solo nei quartieri rimangono le scritte per Ocalan e l’Ypg. Le pene per chi scrive sui muri sono altissime, così come per il danneggiamento di statue di Ataturk, che sono numerose in città (una gigantesca spicca nella pizza principale): questo può costare fino a 10 anni di carcere. Che si viva sotto un regime è innegabile.
Un regime definito dai curdi barbaro e fascista, giusto?
Sì, questo è il modo in cui è percepito. I curdi sanno di essere un problema, sanno che rischiano di essere incarcerati per niente, o quasi. È qualcosa che hanno già vissuto nei decenni passati. Non possono nominare Ocalan né il Pkk.
Hai vissuto le dinamiche che hanno portato all’incarcerazione dei due sindaci della città martedì 25 novembre?
Sì, tutto è cominciato col commissariamento della municipalità da parte del governo turco a cui è seguita l’occupazione militare prima della municipalità comunale e poi di quella della provincia. È stato un processo graduale, che ha avuto diverse tappe. Le ultime sono state l’arresto dei due sindaci, l’udienza in cui è stata confermata la loro carcerazione (che ha visto un ulteriore aumento della militarizzazione della zona), in ultimo il recentissimo (3 novembre) arresto di alcuni parlamentari dell’Hdp.
Come si svolgono le proteste di piazza?
Non ci sono manifestazioni di massa un po’ perché non è stata data questa indicazione dal Pkk, un po’ perché ogni assembramento è vietato e viene subito attaccato dai getti di acqua urticante delle camionette. Ci sono piccoli presidi spontanei che ricevono il plauso generale, ma con partecipazione di non più di qualche qualche centinaia di persone. C’è comunque una enorme solidarietà di base, e la polizia non ha ancora pacificato tutti i quartieri. A differenza di quanto avviene nelle zone centrali dove la presenza di esercito e polizia è asfissiante, in alcuni quartieri invece la polizia non può nemmeno entrare. È qui che ci sono la maggior parte degli scontri con la polizia, che invece non sono visibili in centro città.
La polizia da parte sua ha paura, non gira tranquilla, questo lo si vede; i poliziotti hanno stipendi da 1400 euro al mese, un bel po’ di soldi oggi in Turchia, ma non vedono l’ora di finire il turno, sanno di essere un esercito occupante e quindi un potenziale obiettivo. Il servizio a Diyarbakir per un poliziotto può essere una condanna: a Diyarbakir si muore. Nella zona che si chiama Sur, a sud, che ora è una zona molto presidiata, alcune settimane fa una autobomba ha ammazzato 23 poliziotti [qualcosa di simile si è verificato anche il 3 novembre, quanto un’auto bomba è esplosa nei pressi di un commissariato provocando diversi morti tra cui alcuni agenti].
Gli arresti di attivisti crudi quindi, di fatto, sono continui?
Sì soprattutto tra i lavoratori e i membri dell’Hdp. L’obiettivo degli occupanti, come in Palestina, è confinare la resistenza in zone limitate della città e provare a far continuare una vita normale altrove, così da permettere uno sviluppo del turismo.
In varie interviste, esponenti della polizia hanno detto che il loro obiettivo è “fare come in Sri Lanka”, ovvero procedere al genocidio degli 8 milioni di curdi presenti sul territorio. Questo è il clima, ma non è una novità: la lingua curda era vietata fino a pochi anni fa, come la musica e tutto ciò che è riferibile alla cultura curda. Bandiere e kefie arcobaleno si trovano solo sottobanco.
C’è una netta separazione tra curdi e turchi, tanto che i militari turchi vivono in compounds protetti da fino spinati e guardie armate, senza avere alcuna relazione con l’esterno.
Qual’è il livello del dibattito politico tra i curdi a Diyarbakir?
Non si può parlare apertamente di politica; lo si può fare solo in casa. È vero che in molti usano anche a questo fine i social networks, infatti la prima cosa che viene fatta quando stanno per cominciare delle operazioni militari dell’esercito turco è chiudere internet: l’hanno oscurato per tre giorni di fila durante gli arresti dei sindaci e poi nuovamente prima e durante l’arresto dei parlamentari.
Sono tutti molto incazzati e c’è attesa, nella consapevolezza che si andrà a uno scontro aperto. Fino a un paio di settimane fa la situazione veniva definita dai curdi come “la quiete prima della tempesta”; sanno che a un’occupazione militare ci si oppone con la guerriglia ed è evidente d’altra parte che ogni manifestazione pacifica è repressa col massimo della violenza, con arresti e condanne a pene smisurate.
Si parla di confederalismo democratico?
Sì, ed esso era messo in pratica almeno parzialmente prima dell’occupazione. Che i sindaci fossero due, un uomo e una donna, che la parità dei sessi fosse un obiettivo chiaro e riconosciuto, che i piani urbanistici prevedessero un’alta percentuale di aree verdi per ogni palazzo costruito, che l’amministrazione della città funzionasse bene nei suoi servizi essenziali, tutto questo dimostra che la modalità di governo curdo della città era assai più progredito di quello imposto dai militari turchi.
Quindi sì, si discute molto anche di confederalismo democratico, ma la preoccupazione principale è ora il peggioramento della loro qualità di vita (l’unica cosa che riconoscono a Erdogan è che ha migliorato in parte il sistema sanitario) e il fatto di potere essere arrestati in qualunque momento.
A Diyarbakir in molti hanno fatto il carcere, uomini e donne: chiunque abbia fatto un minimo di attività politica. In carcere il canto più diffuso dice: “Viva le donne libere del Kurdistan viva le donne che sono un esempio per noi”.
Certo, i curdi hanno i propri giornali, ufficialmente vietati e che circolano in maniera clandestina; tra questi c’è anche un giornale femminista. C’è, soprattutto, una comunità solidale, sia fuori che dentro al carcere, una comunità orgogliosa, che non piegala testa, che san che il carcere è un’eventualità probabile per loro.
C’è una dinamica di fuga, di emigrazione dalla città?
Non credo molto, la città è viva, piena di giovani, di attività economiche, c’è l’università. Non è una città da cui scappare, c’è una vita interessante, anche se accanto a essa c’è l’occupazione militare. Subito fuori dalla città il clima di guerra lo si respira proprio, così come si vedono di continuo check points con i sacchi di sabbia, i jersey, i mezzi blindati, il filo spinato.
L’obiettivo del governo turco è eliminare tutti gli attivisti e tutti quelli che rappresentano un problema e con gli altri provare a scendere a patti, facendo leva sulla ricerca di benessere, offrendo beni e possibilità di consumo. Bisogna vedere se ci riusciranno.
Cosa possiamo fare da qui?
Innanzitutto stare in continuo contatto con loro e continuare a informare perché qui non arrivano informazioni se non in qualche media indipendente, ma comunque poche; dare supporto economico è anche importante ma bisogna tenere in conto che il Pkk è considerata un’organizzazione terroristica e quindi bisogna stare molto attenti; per quanto possibile andare lì, per provare a mettere in difficoltà il sistema repressivo; fare pressioni sul governo italiano e di conseguenza sul governo turco.
a cura di A.Soto