Nonostante le caserme green e le basi militari che “favoriscono” la transizione ecologica (come è stato scritto nel primo progetto della base prevista a Coltano, in provincia di Pisa), la guerra green non esiste. Né alcun pannello solare o piantumazione di alberi può compensare la natura ecocida della guerra, espressione più evidente del violento sistema capitalista, patriarcale e coloniale che abitiamo.
Oggi è più che mai necessario approfondire sistematicamente il rapporto tra guerra, appropriazione di risorse e crisi climatica, per comprendere come la guerra acceleri il processo già in corso di devastazione della natura da cui dipende la nostra vita, e individuare gli anelli dell’ingranaggio bellicista che possono essere inceppati attraverso lotte e alleanze nuove.
Solo poche settimane fa mezza Italia era letteralmente con l’acqua alla gola, il fango nelle case, i terreni sommersi, i fiumi ricolmi di rifiuti. Pochi giorni prima del disastro che ha colpito (per l’ennesima volta) Toscana ed Emilia-Romagna, l’Unione Europea lanciava RearmEU, un progetto per il riarmo massiccio dei paesi europei per l’equivalente di 800miliardi di euro.
Non è una coincidenza di date, è il paradosso che abitiamo e in cui ci muoviamo. Fango e fucili.
In questo quadro, il rapporto tra guerra e ambiente è molteplice.
Innanzitutto, la guerra si muove secondo una logica di competizione per l’appropriazione di risorse ritenute strategiche per gli stati e i capitali. Questo è tradizionalmente vero per quanto riguarda l’accaparramento di risorse fossili come gas e petrolio, per la conquista di bacini idrici, ma anche per l’appropriazione di minerali critici come litio e cobalto divenuti strategici nella transizione ecologica di stampo capitalista. La competizione per il dominio sulla natura e le sue risorse è uno degli assi intorno a cui ruota la guerra globale e intorno alla quale si ridisegneranno nuove geografie del potere. Il rapporto stilato nel 2024 da Greenpeace dal titolo “Economia a mano armata” ha evidenziato che il 60% della spesa italiana per le missioni all’estero è legata alla difesa di asset energetici strategici. Questo trend nazionale riflette un trend globale di militarizzazione connessa all’energia, come emerge guardando alle missioni militari o alla militarizzazione di aree per proteggere infrastrutture strategiche, come avvenuto per esempio al largo della costa salentina in difesa di TAP dopo il sabotaggio del North Stream.
In secondo luogo, la guerra fagocita sistematicamente le risorse della collettività per la riproduzione materiale della filiera bellica. Questo avviene ogni qualvolta si cementifica il suolo per realizzare delle basi militari, si tagliano boschi e foreste per costruire corridoi logistici funzionali al trasporto di armi e mezzi militari, come avviene tra Pisa e Livorno con i lavori di ampliamento della stazione di Tombolo finalizzati alla maggiore operatività della linea ferroviaria diretta al porto di Livorno da cui partono e arrivano armi, oppure si sottraggono risorse vitali come l’acqua per il sostentamento degli insediamenti militari in aree in costante carenza idrica, come nel caso della base militare siciliana di Niscemi.
Questo tipo di espropriazione sistematica a cui i territori sono sottoposti costituisce una minaccia diretta alla vita delle comunità, che si vedono sottratte risorse fondamentali per il soddisfacimento dei bisogni essenziali come quello di bere, scaldarsi o mangiare, già profondamente messi a rischio dal degrado ecologico che ci sta lasciando in eredità corsi d’acqua contaminati, salinizzazione dei fiumi, perdita di suolo e biodiversità, esaurimento delle risorse ambientali. Così, mentre acqua, energia e cibo vengono trasformate in merce da un mercato predatorio che cerca di insinuarsi e privatizzare ogni risorsa naturale, la filiera bellica globale continua a fagocitare risorse che – in nome di un presunto scontro tra popoli e civiltà usato per mascherare gli interessi delle élite guerrafondaie – sta portando l’umanità intera sul lastrico. Quell’1% di super ricchi che – secondo dati Oxfam – è responsabile di emissioni pari al doppio di quelle del 50% più povero del mondo, e che dovrebbe pagare il costo di una transizione ecologica e sociale giusta, oggi si è messa alla guida del progetto di riarmo globale. Più soldi per loro, ulteriore degrado delle condizioni di vita per noi.
In terzo luogo, gli eserciti usano strategicamente l’alterazione degli ecosistemi, la contaminazione e la sottrazione di risorse come arma di guerra. Il Movimento No MUOS nell’opuscolo dal titolo “Università e guerra” ha evidenziato per esempio l’uso da parte dell’esercito USA impegnato in Vietnam di tecniche di inseminazione delle nuvole per aumentare le precipitazioni, deforestazioni massicce e l’uso di sostanze chimiche come l’agente arancio per intralciare le operazioni di resistenza dei Vietcong. Il controllo di risorse naturali come strumento di guerra è centrale anche nel sistema di apartheid di Israele nei territori palestinesi e nel genocidio in atto: Israele infatti controlla dal 1967 molte delle falde acquifere presenti nel territorio e, successivamente, con i massicci bombardamenti degli ultimi mesi, ha colpito i sistemi di desalinizzazione e le infrastrutture che rendevano l’acqua potabile e accessibile ai palestinesi, condannandoli ad una crisi idrica e sanitaria.
Infine, la filiera bellica non solo si riproduce attraverso l’uso della natura, ma ha un impatto che ricade direttamente sull’ambiente, gli ecosistemi e il clima. Un impatto che è stato studiato da tanti punti di vista, ma che è incommensurabile nella sua complessità proprio per la difficoltà di stabilire il costo ambientale di una bomba dalla fase di realizzazione alla fase di esplosione. Produzione di armi e altri sistemi militari, movimento massiccio di mezzi via terra e via cielo, esercitazioni, test nucleari, accensione di mega parabole per la telecomunicazione satellitare militare, sono solo alcune delle attività strettamente connesse al settore militare.
Inquinamento dell’aria, contaminazione dei corsi d’acqua, radiazioni, onde elettromagnetiche, deforestazione, erosione della costa, e molti altri sono gli effetti ambientali della guerra che minacciano le condizioni di vita di tutti gli esseri viventi.
Non solo è difficile avere una stima precisa dell’impatto ambientale della guerra o anche di un solo anello della filiera bellica, ma l’impatto di alcune di queste attività si propaga nel tempo, dal momento che – per esempio – i metalli pesanti derivanti dalle esercitazioni nei poligoni di tiro restano nel sottosuolo per lunghissimi periodi o che le mine antiuomo possono esplodere anni dopo il loro utilizzo.
Oggi è impensabile la vita senza la difesa delle condizioni per la sua stessa riproduzione, ed è impossibile difendere tali condizioni di vita senza una lotta per la liberazione della natura dal capitale. Su questo terreno, la guerra – che è un fatto totale – costituisce il primo nemico. Un ecologismo popolare, antimilitarista e internazionalista l’unica alternativa.
Paola Imperatore